LIBRO QUARTO del corso che fanno le nazioni
[Introduzione]
[915] In forza de’ princípi di questa Scienza, stabiliti nel libro primo; e dell’origini di tutte le divine ed umane cose della gentilitá, ricercate e discoverte dentro la Sapienza poetica nel libro secondo; e nel libro terzo ritruovati i poemi d’Omero essere due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia, siccome la legge delle XII Tavole era stata giá da noi ritruovata esser un gravissimo testimone del diritto naturale delle genti del Lazio: — ora con tai lumi cosí di filosofia come di filologia, in séguito delle degnitá d’intorno alla storia ideal eterna giá sopra poste, in questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformitá procedendo in tutti i loro tanto vari e sí diversi costumi sopra la divisione delle tre etá, che dicevano gli egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Perché sopra di essa si vedranno reggere con costante e non mai interrotto ordine di cagioni e d’effetti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di nature; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essi costumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti; e, ’n conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie di Stati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra loro gli uomini venuti all’umana societá tutte queste giá dette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spezie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificarle, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezie d’autoritá e da altrettante di ragioni in altrettante spezie di giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per
tre sètte de’ tempi, che professano in tutto il corso della lor vita le nazioni. Le quali tre speziali unitá, con altre molte che loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unitá generale, ch’è l’unitá della religione d’una divinitá provvedente, la qual è l’unitá dello spirito, che informa e dá vita a questo mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del lor corso.[SEZIONE PRIMA] Tre spezie di nature
[916] La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima ne’ debolissimi di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a’ corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La qual natura fu quella de’ poeti teologi, che furono gli piú antichi sappienti di tutte le nazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fondarono sulla credenza, ch’ebbe ogniuna, di certi suoi propi dèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, per quello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spaventosamente gli dèi ch’essi stessi si avevano finti. Di che restarono queste due eterne propietá: una, che la religione è l’unico mezzo potente a raffrenare la fierezza de’ popoli; l’altra, ch’allora vanno bene le religioni, ove coloro che vi presiedono, essi stessi internamente le riveriscano.
[917] La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano stati generati con gli auspíci di Giove. Nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltá: — perocché fussero della spezie umana; — per la qual essi furono i principi dell’umana generazione. La quale natural nobiltá essi vantavano sopra quelli che dall’infame comunion bestiale, per salvarsi nelle risse ch’essa comunion produceva, s’erano dappoi riparati a’
di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per bestie. Siccome l’una e l’altra natura sopra si è ragionata.[918] La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere.
[SEZIONE SECONDA] Tre spezie di costumi
[919] I primi costumi [furono] tutti aspersi di religione e pietá, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, venuti di fresco dopo il diluvio.
[920] I secondi furono collerici e puntigliosi, quali sono narrati di Achille.
[921] I terzi son officiosi, insegnati dal propio punto de’ civili doveri.
[SEZIONE TERZA] Tre spezie di diritti naturali
[922] Il primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sé e le loro cose essere tutte in ragion degli dèi, sull’oppenione che tutto fussero o facessero i dèi.
[923] Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta giá dalla religione, che sola può tener in dovere la forza, ove non sono, o, se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla. Perciò la provvedenza dispose che le prime genti, per natura feroci, fussero persuase di sí fatta loro religione, acciocché si acquetassero naturalmente alla forza, e che, non essendo capaci ancor di ragione, estimassero la ragione dalla fortuna, per la quale si consigliavano con la divinazion degli auspíci. Tal diritto della forza è ’l diritto di Achille, che pone tutta la ragione nella punta dell’asta.
[924] Il terzo è ’l diritto umano dettato dalla ragion umana tutta spiegata.
[SEZIONE QUARTA] Tre spezie di governi
[925] I primi furono divini, che i greci direbbono «teocratici», ne’ quali gli uomini credettero ogni cosa comandare gli dèi; che fu l’etá degli oracoli, che sono la piú antica delle cose che si leggono sulla storia.
[926] I secondi furono governi eroici ovvero aristocratici, ch’è tanto dire quanto «governi d’ottimati», in significazion di «fortissimi»; ed anco, in greco, «governi d’Eraclidi» o usciti da razza erculea, in sentimento di «nobili», quali furono sparsi per tutta l’antichissima Grecia, e poi restò lo spartano; ed eziandio «governi di cureti», ch’i greci osservarono sparsi nella Saturnia, o sia antica Italia, in Creta ed in Asia; e quindi «governo di quiriti» ai romani, o sieno di sacerdoti armati in pubblica ragunanza. Ne’ quali, per distinzion di natura piú nobile, perché creduta di divina origine, ch’abbiam sopra detto, tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini regnanti de’ medesimi eroi, ed a’ plebei, come riputati d’origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita e della natural libertá.
[927] I terzi sono governi umani, ne’ quali, per l’ugualitá di essa intelligente natura, la qual è la propia natura dell’uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle loro cittá, cosí libere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze giuste della cittá, per le quali forze giuste son essi i signori della libertá popolare; o nelle monarchie, nelle qual’i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essi soli in lor mano tutta la forza dell’armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura.
[SEZIONE QUINTA] Tre spezie di lingue
[928] Tre spezie di lingue.
[929] Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a’ romani gli «atti legittimi», co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilitá. Qual lingua si conviene alle religioni per tal eterna propietá: che piú importa loro essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini gentili non sapevano ancora articolar la favella.
[930] La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l’armi; la qual favella, come abbiam sopra detto, restò alla militar disciplina.
[931] La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s’usano, articolati.
[SEZIONE SESTA] Tre spezie di caratteri
[932] Tre spezie di caratteri.
[933] De’ qual’i primi furon divini, che propiamente si dissero «geroglifici», de’ quali sopra pruovammo che ne’ loro princípi si servirono tutte le nazioni. E furono certi universali fantastici, dettati naturalmente da quell’innata propietá della mente umana di dilettarsi dell’uniforme (di che proponemmo una degnitá), lo che non potendo fare con l’astrazione per generi, il fecero con la fantasia per ritratti. A’quali universali poetici riducevano tutte le particolari spezie a ciascun genere appartenenti, com’a Giove tutte le cose degli auspíci, a Giunone tutte le cose delle nozze, e cosí agli altri l’altre.
[934] I secondi furono caratteri eroici, ch’erano pur universali fantastici, a’ quali riducevano le varie spezie delle cose eroiche; come ad Achille tutti i fatti de’ forti combattidori, ad Ulisse tutti i consigli de’ saggi. I quali generi fantastici, con avvezzarsi poscia la mente umana ad astrarre le forme e le propietá da’ subbietti, passarono in generi intelligibili, onde provennero appresso i filosofi; da’ quali poscia gli autori della commedia nuova, la quale venne ne’ tempi umanissimi della Grecia, presero i generi intelligibili de’ costumi umani e ne fecero ritratti nelle loro commedie.
[935] Finalmente si ritruovarono i volgari caratteri, i quali andarono di compagnia con le lingue volgari: poiché, come queste si compongono di parole, che sono quasi generi de’ particolari co’ quali avevan innanzi parlato le lingue eroiche (come, per l’esemplo sopra arrecato, della frase eroica «mi bolle il sangue nel cuore», ne fecero questa voce: «m’adiro»); cosí di
cenventimila caratteri geroglifici, che, per esemplo, usano fin oggi i chinesi, ne fecero poche lettere, alle quali, come generi, si riducono le cenventimila parole delle quali i chinesi compongono la loro lingua articolata volgare. Il qual ritruovato è certamente un lavoro di mente ch’avesse piú che dell’umana; onde sopra udimmo Bernardo da Melinckrot ed Ingewaldo Elingio che ’l credono ritruovato divino. E tal comun senso di maraviglia è facile ch’abbia mosso le nazioni a credere ch’uomini eccellenti in divinitá avesser loro ritruovato sí fatte lettere, come san Girolamo agl’illiri, come san Cirillo agli slavi, come altri ad altre, conforme osserva e ragiona Angelo Rocha nella Biblioteca vaticana, ove gli autori delle lettere, che diciamo «volgari», coi lor alfabeti sono dipinti. Le quali oppenioni si convincono manifestamente di falso col solo domandare: — Perché non l’insegnarono le loro propie? — La qual difficultá abbiam noi sopra fatto di Cadmo, che dalla Fenicia aveva portato a’ greci le lettere, e questi poi usarono forme di lettere cotanto diverse dalle fenicie.[936] Dicemmo sopra tali lingue e tali lettere esser in signoria del volgo de’ popoli, onde sono dette e l’une e l’altre «volgari». Per cotal signoria e di lingue e di lettere debbon i popoli liberi esser signori delle lor leggi, perché dánno alle leggi que’ sensi ne’ quali vi traggono ad osservarle i potenti, che, come nelle Degnitá fu avvisato, non le vorrebbono. Tal signoria è naturalmente niegato a’ monarchi di toglier a’ popoli; ma, per questa stessa loro niegata natura di umane cose civili, tal signoria, inseparabile da’ popoli, fa in gran parte la potenza d’essi monarchi, perch’essi possano comandare le loro leggi reali, alle quali debbano star i potenti, secondo i sensi ch’a quelle dánno i lor popoli. Per tal signoria di volgari lettere e lingue è necessario, per ordine di civil natura, che le repubbliche libere popolari abbiano preceduto alle monarchie.
[SEZIONE SETTIMA] Tre spezie di giurisprudenze
[937] Tre spezie di giurisprudenze ovvero sapienze.
[938] La prima fu una sapienza divina, detta, come sopra vedemmo, «teologia mistica», che vuol dire «scienza di divini parlari» o d’intendere i divini misteri della divinazione, e sí fu scienza in divinitá d’auspíci e sapienza volgare, della quale furono sappienti i poeti teologi, che furono i primi sappienti del gentilesimo; e da tal mistica teologia essi se ne dissero «mystae», i quali Orazio, con iscienza, volta «interpetri degli dèi». Talché di questa prima giurisprudenza fu il primo e propio «interpretari», detto quasi «interpatrari», cioè «entrare in essi padri», quali furono dapprima detti gli dèi, come si è sopra osservato; che Dante direbbe «indiarsi», cioè entrare nella mente di Dio. E tal giurisprudenza estimava il giusto dalla sola solennitá delle divine cerimonie; onde venne a’ romani tanta superstizione degli atti legittimi, e nelle loro leggi ne restarono quelle frasi «iustae nuptiae», «iustum testamentum», per nozze e testamento «solenni».
[939] La seconda fu la giurisprudenza eroica, di cautelarsi con certe propie parole, qual è la sapienza di Ulisse, il quale, appo Omero, sempre parla sí accorto, che consiegua la propostasi utilitá, serbata sempre la propietá delle sue parole. Onde tutta la riputazione de’ giureconsulti romani antichi consisteva in quel lor «cavere»; e quel loro «de iure respondere» pur altro non era che cautelar coloro, ch’avevano da sperimentar in giudizio la lor ragione, d’esporre al pretore i fatti cosí circostanziati, che le formole dell’azioni vi cadessero sopra a livello, talché il pretore non potesse loro niegarle. Cosí, a’ tempi barbari
ritornati, tutta la riputazion de’ dottori era in truovar cautele d’intorno a’ contratti o ultime volontá ed in saper formare domande di ragione ed articoli; ch’era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giureconsulti.[940] La terza è la giurisprudenza umana, che guarda la veritá d’essi fatti e piega benignamente la ragion delle leggi a tutto ciò che richiede l’ugualitá delle cause; la qual giurisprudenza si celebra nelle repubbliche libere popolari, e molto piú sotto le monarchie, ch’entrambe sono governi umani.
[941] Talché le giurisprudenze divina ed eroica si attennero al certo ne’ tempi delle nazioni rozze; l’umana guarda il vero ne’ tempi delle medesime illuminate. E tutto ciò, in conseguenza delle diffinizioni del certo e del vero, e delle degnitá che se ne sono poste negli Elementi.
[SEZIONE OTTAVA] Tre spezie d’autoritá
[942] Furono tre spezie d’autoritá. Delle quali la prima è divina, per la quale dalla provvedenza non si domanda ragione; la seconda eroica, riposta tutta nelle solenni formole delle leggi; la terza umana, riposta nel credito di persone sperimentate, di singolar prudenza nell’agibili e di sublime sapienza nell’intelligibili cose.
[943] Le quali tre spezie d’autoritá, ch’usa la giurisprudenza dentro il corso che fanno le nazioni, vanno di séguito a tre sorte d’autoritá de’ senati, che si cangiano dentro il medesimo loro corso.
[944] Delle quali la prima fu autoritá di dominio, dalla quale restarono detti «autores» coloro da’ quali abbiamo cagion di dominio, ed esso dominio nella legge delle XII Tavole sempre «autoritas» vien appellato. La qual autoritá mise capo ne’ governi divini fin dallo stato delle famiglie, nel quale la divina autoritá dovett’essere degli dèi, perch’era creduto, con giusto senso, tutto essere degli dèi. Convenevolmente, appresso, nelle aristocrazie eroiche, dove i senati composero (com’ancor in quelle de’ nostri tempi compongono) la signoria, tal autoritá fu di essi senati regnanti. Onde i senati eroici davano la lor approvagione a ciò ch’avevano innanzi trattato i popoli, che Livio dice «eius, quod populus iussisset, deinde patres fierent autores»: però, non dall’interregno di Romolo, come narra la storia, ma da’ tempi piú bassi dell’aristocrazia, ne’ quali era stata comunicata la cittadinanza alla plebe, come sopra si è ragionato. Il qual ordinamento, come lo stesso Livio dice, «saepe spectabat ad vim», sovente minacciava rivolte; tanto che, se ’l popolo ne
voleva venir a capo, doveva, per esemplo, nominar i consoli ne’ qual’inchinasse il senato: appunto come sono le nominazioni de’ maestrati che si fanno da’ popoli sotto le monarchie.[945] Dalla legge di Publilio Filone in poi, con la quale fu dichiarato il popolo romano libero ed assoluto signor dell’imperio, come sopra si è detto, l’autoritá del senato fu di tutela; conforme l’approvagione de’ tutori a’ negozi che si trattano da’ pupilli, che sono signori de’ loro patrimoni, si dice «autoritas tutorum». La qual autoritá si prestava dal senato al popolo in essa formola della legge, conceputa innanzi in senato, nella quale, conforme dee prestarsi l’autoritá da’ tutori a’ pupilli, il senato fusse presente al popolo, presente nelle grandi adunanze, nell’atto presente di comandar essa legge, s’egli volessela comandare; altrimente, l’antiquasse e «probaret antiqua», ch’è tanto dire quanto ch’egli dichiarasse che non voleva novitá. E tutto ciò, acciocché il popolo, nel comandare le leggi, per cagione del suo infermo consiglio, non facesse un qualche pubblico danno, e perciò, nel comandarle, si facesse regolar dal senato. Laonde le formole delle leggi, che dal senato si portavano al popolo perch’egli le comandasse, sono con iscienza da Cicerone diffinite «perscriptae autoritates»: non autoritá personali, come quelle de’ tutori, i quali con la loro presenza appruovano gli atti che si fan da’ pupilli: ma autoritá distese a lungo in iscritto (ché tanto suona «perscribere»), a differenza delle formole per azioni, scritte «per notas», le quali non s’intendevan dal popolo. Ch’è quello ch’ordinò la legge publilia: che, da essa in poi, l’autoritá del senato, per dirla come Livio la riferisce, «valeret in incertum comitiorum eventum».
[946] Passò finalmente la repubblica dalla libertá popolare sotto la monarchia, e succedette la terza spezie d’autoritá, ch’è di credito o di riputazione in sapienza, e perciò autoritá di consiglio, dalla qual i giureconsulti sotto gl’imperadori se ne dissero «autores». E tal autoritá dev’essere de’ senati sotto i monarchi, i quali son in piena ed assoluta libertá di seguir o no ciò che loro han consigliato i senati.
[SEZIONE NONA] Tre spezie di ragioni
[Capitolo Primo]
[Ragione divina e ragione di stato]
[947] Furono tre le spezie delle ragioni.
[948] La prima, divina, di cui Iddio solamente s’intende, e tanto ne sanno gli uomini quanto è stato loro rivelato: agli ebrei prima e poi a’ cristiani, per interni parlari, alle menti, perché voci d’un Dio tutto mente; ma con parlari esterni, cosí da’ profeti, come da Gesú Cristo agli appostoli, e da questi palesati alla Chiesa; — a’ gentili, per gli auspíci, per gli oracoli ed altri segni corporei creduti divini avvisi, perché creduti venire dagli dèi, ch’essi gentili credevano esser composti di corpo. Talché in Dio, ch’è tutto ragione, la ragion e l’autoritá è una medesima cosa; onde nella buona teologia la divina autoritá tiene lo stesso luogo che di ragione. Ov’è da ammirare la provvedenza, che, ne’ primi tempi che gli uomini del gentilesimo non intendevan ragione (lo che sopra tutto dovett’essere nello stato delle famiglie), permise loro ch’entrassero nell’errore di tener a luogo di ragione l’autoritá degli auspíci e co’ creduti divini consigli di quelli si governassero, per quella eterna propietá: ch’ove gli uomini nelle cose umane non vedon ragione, e molto piú se la vedon contraria, s’acquetano negl’imperscrutabili consigli che si nascondono nell’abisso della provvedenza divina.
[949] La seconda fu la ragion di Stato, detta da’ romani «civilis aequitas», la quale Ulpiano tralle Degnitá sopra ci diffiní da ciò ch’ella non è naturalmente conosciuta da ogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che sappian vedere ciò ch’appartiensi alla conservazione del gener umano. Della quale furono naturalmente sappienti i senati eroici, e sopra tutti fu il romano sappientissimo ne’ tempi della libertá cosí aristocratica, ne’ quali la plebe era affatto esclusa di trattar cose pubbliche, come della popolare, per tutto il tempo che ’l popolo nelle pubbliche faccende si fece regolar dal senato, che fu fin a’ tempi de’ Gracchi.
[Capitolo Secondo]
Corollario
della sapienza di stato degli antichi romani
[950] Quindi nasce un problema, che sembra assai difficile a solversi: come ne’ tempi rozzi di Roma fussero stati sappientissimi di Stato i romani, e ne’ loro tempi illuminati dice Ulpiano ch’«oggi di Stato s’intendono soli e pochi pratici di governo»? — Perché, per quelle stesse naturali cagioni che produssero l’eroismo de’ primi popoli, gli antichi romani, che furono gli eroi del mondo, essi naturalmente guardavano la civil equitá, la qual era scrupolosissima delle parole con le quali parlavan le leggi; e, con osservarne superstiziosamente le lor parole, facevano camminare le leggi diritto per tutti i fatti, anco dov’esse leggi riuscissero severe, dure, crudeli (per ciò che se n’è detto piú sopra), com’oggi suol praticare la ragione di Stato; e sí la civil equitá naturalmente sottometteva tutto a quella legge, regina di tutte l’altre, conceputa da Cicerone con gravitá eguale alla materia: «Suprema lex populi salus esto». Perché ne’ tempi eroici, ne’ quali gli Stati furono aristocratici, come si è appieno sopra pruovato, gli eroi avevano privatamente ciascuno gran parte della pubblica utilitá, ch’erano le monarchie famigliari conservate lor dalla patria, e, per tal grande particolar interesse, conservato loro dalla repubblica, naturalmente posponevano i privati interessi minori; onde naturalmente, e magnanimi, difendevano il ben pubblico, ch’è quello dello Stato, e saggi, consigliavano d’intorno allo Stato. Lo che fu alto consiglio della provvedenza divina, perché i padri polifemi dalla loro vita selvaggia (come con Omero e Platone si sono sopra osservati), senza un tale e tanto lor privato interesse medesimato col pubblico, non si potevano altrimente indurre a celebrare la civiltá, com’altra volta sopra si è riflettuto.
[951] Al contrario, ne’ tempi umani, ne’ quali gli Stati provengono o liberi popolari o monarchici, perché i cittadini ne’ primi comandano il ben pubblico, che si ripartisce loro in minutissime parti quanti son essi cittadini, che fanno il popolo che vi comanda, e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del pubblico al sovrano principe; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni, le quali produssero tali forme di Stati, che sono tutte contrarie a quelle che produtto avevano l’eroismo, le quali sopra dimostrammo esser affetto d’agi, tenerezza di figliuoli, amor di donne e disiderio di vita: per tutto ciò, son oggi gli uomini naturalmente portati ad attendere all’ultime circostanze de’ fatti, le quali agguaglino le loro private utilitá. Ch’è l’«aequum bonum», considerato dalla terza spezie di ragione (che qui era da ragionarsi), la quale si dice «ragion naturale», e da’ giureconsulti «aequitas naturalis» vien appellata. Della quale sola è capace la moltitudine, perché questa considera gli ultimi a sé appartenenti motivi del giusto, che meritano le cause nell’individuali loro spezie de’ fatti. E nelle monarchie bisognano pochi sappienti di Stato per consigliare con equitá civile le pubbliche emergenze ne’ gabinetti, e moltissimi giureconsulti di giurisprudenza privata, che professa equitá naturale, per ministrare giustizia a’ popoli.
[Capitolo Terzo]
Corollario
istoria fondamentale del diritto romano
[952] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione posson esser i fondamenti che stabiliscono la storia del diritto romano. Perché i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati, come se n’è proposta sopra una degnitá; — perché dalla natura degli uomini governati escon essi governi, come per questi Princípi sopra si è dimostrato; — e ché le leggi perciò debbon essere ministrate in conformitá de’ governi e, per tal cagione, dalla forma de’ governi si debbono interpetrare (lo che non sembra aver fatto niuno di tutti i giureconsulti ed interpetri, prendendo lo stesso errore ch’avevano innanzi preso gli storici delle cose romane, i quali narrano le leggi comandate in vari tempi in quella repubblica, ma non avvertono a’ rapporti che dovevano le leggi aver con gli stati per gli quali quella repubblica procedé; ond’escono i fatti tanto nudi delle loro propie cagioni le quali naturalmente l’avevano dovuto produrre, che Giovanni Bodino, egualmente eruditissimo giureconsulto e politico, le cose fatte dagli antichi romani nella libertá, che falsamente gli storici narrano popolare, argomenta essere stati effetti di repubblica aristocratica, conforme in questi libri di fatto si è ritruovata): — per tutto ciò, se tutti gli adornatori della storia del diritto romano son domandati: — Perché la giurisprudenza antica usò tanti rigori d’intorno alla legge delle XII Tavole? perché la mezzana, con gli editti de’ pretori, cominciò ad usare benignitá di ragione, ma con rispetto però d’essa legge? perché la giurisprudenza nuova, senz’alcun velo o riguardo di essa legge, prese generosamente a professare l’equitá naturale? — essi, per renderne una qualche ragione, dánno in quella grave offesa alla romana generositá,
con cui dicono ch’i rigori, le solennitá, gli scrupoli, le sottigliezze delle parole e finalmente il segreto delle medesime leggi furon imposture de’ nobili, per aver essi le leggi in mano, che fanno una gran parte della potenza nelle cittá.[953] Ma tanto sí fatte pratiche furono da ogn’impostura lontane, che furono costumi usciti dalle lor istesse nature, le quali, con tali costumi, produssero tali Stati, che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. Perché, nel tempo della somma fierezza del loro primo gener umano, essendo la religione l’unico potente mezzo d’addimesticarla, la provvedenza, come si è veduto sopra, dispose che vivessero gli uomini sotto governi divini e dappertutto regnassero leggi sagre, ch’è tanto dire quanto arcane e segrete al volgo de’ popoli; le quali, nello stato delle famiglie, tanto lo erano state naturalmente, che si custodivano con lingue mutole, le quali si spiegavano con consagrate solennitá (che poi restarono negli atti legittimi), le quali tanto da quelle menti balorde erano credute abbisognate per accertarsi uno della volontá efficace dell’altro d’intorno a comunicare l’utilitá, quanto ora, in questa naturale intelligenza delle nostre, basta accertarsene con semplici parole ed anche con nudi cenni. Dipoi succedettero i governi umani di Stati civili aristocratici, e, per natura perseverando a celebrarsi i costumi religiosi, con essa religione seguitarono a custodirsi le leggi arcane o segrete (il qual arcano è l’anima con cui vivono le repubbliche aristocratiche), e con tal religione si osservarono severamente le leggi; ch’è ’l rigore della civil equitá, la quale principalmente conserva l’aristocrazie. Appresso, avendo a venire le repubbliche popolari, che naturalmente son aperte, generose e magnanime (dovendovi comandare la moltitudine, ch’abbiam dimostro naturalmente intendersi dell’equitá naturale), vennero con gli stessi passi le lingue e le lettere che si dicon «volgari» (delle quali, come sopra dicemmo, è signora la moltitudine), e con quelle comandarono e scrisser le leggi, e naturalmente se n’andò a pubblicar il segreto: ch’è ’l «ius latens», che Pomponio narra non avere sofferto piú la plebe romana, onde volle le leggi descritte in tavole, poich’eran venute le
lettere volgari da’ greci in Roma, come si è sopra detto. Tal ordine di cose umane civili finalmente si truovò apparecchiato per gli Stati monarchici, ne’ qual’i monarchi vogliono ministrate le leggi secondo l’equitá naturale e, ’n conseguenza, conforme l’intende la moltitudine, e perciò adeguino in ragione i potenti co’ deboli: lo che fa unicamente la monarchia. E l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi sappienti di ragion pubblica e, con la sua eterna propietá, è serbata arcana dentro de’ gabinetti.[SEZIONE DECIMA] Tre spezie di giudizi
[Capitolo Primo]
[Prima spezie: giudizi divini]
[954] Le spezie de’ giudizi furono tre.
[955] La prima di giudizi divini, ne’ quali, nello stato che dicesi «di natura» (che fu quello delle famiglie), non essendo imperi civili di leggi, i padri di famiglia si richiamavano agli dèi de’ torti ch’erano stati lor fatti (che fu, prima e propiamente, «implorare deorum fidem»), chiamavano in testimoni della loro ragion essi dèi (che fu, prima e propiamente, «deos obtestari»). E tali accuse o difese furono, con natia propietá, le prime orazioni del mondo, come restò a’ latini «oratio» per «accusa» o «difesa». Di che vi sono bellissimi luoghi in Plauto e ’n Terenzio, e ne serbò due luoghi d’oro la legge delle XII Tavole, che sono «furto orare» e «pacto orare» (non «adorare», come legge Lipsio), nel primo per «agere» e nel secondo per «excipere». Talché da queste orazioni restaron a’ latini detti «oratores» coloro ch’arringano le cause in giudizio. Tali richiami agli dèi si facevano dapprima dalle genti semplici e rozze, sulla credulitá ch’essi eran uditi dagli dèi, ch’immaginavano starsi sulle cime de’ monti, siccome Omero gli narra su quella del monte Olimpo; e Tacito ne scrive tra gli ermonduri e catti una guerra con tal superstizione: che dagli dèi se non dall’alte cime de’ monti «preces mortalium nusquam propius audiri».
[956] Le ragioni, le quali s’arrecavano in tali divini giudizi, eran essi dèi, siccome ne’ tempi ne’ quali i gentili tutte le cose immaginavano esser dèi: come «Lar» per lo dominio della casa, «dii Hospitales» per la ragion dell’albergo, «dii Penates» per la paterna potestá, «deus Genius» per lo diritto del matrimonio, «deus Terminus» per lo dominio del podere, «dii Manes» per la ragion del sepolcro; di che restò nella legge delle XII Tavole un aureo vestigio: «ius deorum manium».
[957] Dopo tali orazioni (ovvero obsecrazioni, ovvero implorazioni) e dopo tali obtestazioni, venivan all’atto di esegrare essi rei; onde appo i greci, come certamente in Argo, vi furono i templi di essa esegrazione, e tali esegrati si dicevano ἀναθήματα,/ che noi diciamo «scomunicati». E contro loro concepivano i voti (che fu il primo «nuncupare vota», che significa far voti solenni ovvero con formole consagrate) e gli consagravano alle Furie (che furono veramente «diris devoti»), e poi gli uccidevano (ch’era quello degli sciti, lo che sopra osservammo, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravan per dio, e poi uccidevano l’uomo). E i latini tal uccidere dissero col verbo «mactare», che restò vocabolo sagro che si usava ne’ sagrifizi; onde agli spagnuoli restò «matar» ed agl’italiani altresí «ammazzare» per «uccidere». E sopra vedemmo ch’appo i greci restò ἄρα per significar il «corpo che danneggia», il «voto» e la «furia»; ed appo i latini «ara» significò e l’«altare» e la «vittima». Quindi restò appo tutte le nazioni una spezie di scomunica: della quale, tra’ Galli, ne lasciò Cesare un’assai spiegata memoria; e tra’ romani restonne l’interdetto dell’acqua e fuoco, come sopra si è ragionato. Delle quali consagrazioni molte passarono nella legge delle XII Tavole: come «consagrato a Giove» chi aveva violato un tribuno della plebe, «consagrato agli dèi de’ padri» il figliuolo empio, «consagrato a Cerere» chi aveva dato fuoco alle biade altrui, il quale fusse bruciato vivo (si veda crudeltá di pene divine, somigliante all’immanitá, ch’abbiamo nelle Degnitá detto, dell’immanissime streghe!), che debbon essere state quelle sopra da Plauto dette «Saturni hostiae».
[958] Con questi giudizi praticati privatamente, usciron i popoli a far le guerre che si dissero «pura et pia bella»; e si facevano «pro aris et focis», per le cose civili come pubbliche cosí private, col qual aspetto di divine si guardavano tutte le cose umane. Onde le guerre eroiche tutt’erano di religione, perché gli araldi, nell’intimarle, dalle cittá, alle quali le portavano, chiamavan fuori gli dèi e consagravano i nimici agli dèi. Onde gli re trionfati erano da’ romani presentati a Giove Feretrio nel Campidoglio e dappoi s’uccidevano, sull’esemplo de’ violenti empi, ch’erano state le prime ostie, le prime vittime, ch’aveva consagrato Vesta sulle prime are del mondo. E i popoli arresi erano considerati uomini senza dèi, sull’esemplo de’ primi famoli: onde gli schiavi, come cose inanimate, in lingua romana si dissero «mancipia» ed in romana giurisprudenza si tennero «loco rerum».
[Capitolo Secondo]
Corollario
de’ duelli e delle ripresaglie
[959] Talché furon una spezie di giudizi divini, nella barbarie delle nazioni, i duelli, che dovettero nascere sotto il governo antichissimo degli dèi e condursi per lunga etá dentro le repubbliche eroiche. Delle quali riferimmo nelle Degnitá quel luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir i torti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsa oppenione finor avuta dalla boria de’ dotti d’intorno all’eroismo filosofico de’ primi popoli, il quale andasse di séguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si è creduto finora.
[960] Certamente, tra’ romani furono tardi introdutti, e pur dal pretore, cosí l’interdetto «Unde vi» come le azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», come altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie ultima, le ripresaglie private durarono fin a’ tempi di Bartolo, che dovetter essere «condiczioni», o «azioni personali» degli antichi romani, perché «condicere», secondo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre di famiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiustamente tolto ciò ch’era suo, che glielo restituisse, per poi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solennitá dell’azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acutamente fu inteso.
[961] Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché si facevano in re praesenti, non avevano bisogno della dinonzia; onde restarono le vindiciae, le quali, tolte all’ingiusto possessore con una finta forza, che Aulo Gellio chiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza vera, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciae»), si dovevano portare dal giudice, per dire, in quella «gleba» o zolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Quindi coloro che scrivono i duelli
essersi introdutti per difetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difetto di leggi giudiziarie. Perché certamente Frotone, re di Danimarca, comandò che tutte le contese si terminassero per mezzo degli abbattimenti, e sí vietò che si diffinissero con giudizi legittimi. E, per non terminarle con giudizi legittimi, sono di duelli piene le leggi de’ longobardi, salii, inghilesi, borghignoni, normanni, danesi, alemanni. Per lo che Cuiacio ne’ Feudi dice: «Et hoc genere purgationis diu usi sunt christiani tam in civilibus quam in criminalibus caussis, re omni duello commissa». Di che è restato che in Lamagna professano scienza di duello coloro che si dicon «reistri», i quali obbligano quelli c’hanno da duellare a dire la veritá, perocché i duelli, ammessivi i testimoni, e perciò dovendovi intervenire i giudici, passerebbero in giudizi o criminali o civili.[962] Non si è creduto della barbarie prima, perché non ce ne sono giunte memorie, ch’avesse praticato i duelli. Ma non sappiamo intendere come in questa parte sieno stati, nonché umani, sofferenti di torti i polifemi d’Omero, ne’ quali riconosce gli antichissimi padri delle famiglie, nello stato di natura, Platone. Certamente Aristotile ne ha detto nelle Degnitá che nell’antichissime repubbliche, nonché nello stato delle famiglie, che furon innanzi delle cittá, non avevano leggi da emendar i torti e punire l’offese, con le qual’i cittadini s’oltraggiassero privatamente tra loro (e noi l’abbiamo testé dimostro della romana antica); e perciò Aristotile pur ci disse, nelle Degnitá, che tal costume era de’ popoli barbari, perché, come ivi avvertimmo, i popoli per ciò ne’ lor incominciamenti son barbari, perché non son addimesticati ancor con le leggi.
[963] Ma di essi duelli vi hanno due grandi vestigi — uno nella greca storia, un altro nella romana — ch’i popoli dovettero incominciar le guerre (che si dissero dagli antichi latini «duella») dagli abbattimenti di essi particolari offesi, quantunque fussero re, ed essendo entrambi i popoli spettatori, che pubblicamente volevano difendere o vendicare l’offese. Come, certamente, cosí la guerra troiana incomincia dall’abbattimento di Menelao e di Paride (questi ch’aveva, quegli a cui era stata rapita la
moglie Elena), il quale restando indeciso, seguitò poi a farsi tra greci e troiani la guerra; e noi sopra avvertimmo il costume istesso delle nazioni latine nella guerra de’ romani ed albani, che con l’abbattimento degli tre Orazi e degli tre Curiazi (uno de’ quali dovette rapire l’Orazia) si diffiní dello ’n tutto. In sí fatti giudizi armati estimarono la ragione dalla fortuna della vittoria: lo che fu consiglio della provvedenza divina, acciocché, tra genti barbare e di cortissimo raziocinio, che non intendevan ragione, da guerre non si seminassero guerre, e sí avessero idea della giustizia o ingiustizia degli uomini dall’aver essi propizi o pur contrari gli dèi: siccome i gentili schernivano il santo Giobbe dalla regale sua fortuna caduto, perocch’egli avesse contrario Dio. E, ne’ tempi barbari ritornati, perciò alla parte vinta, quantunque giusta, si tagliava barbaramente la destra.[964] Da sí fatto costume, privatamente da’ popoli celebrato, uscí fuori la giustizia esterna, ch’i morali teologi dicono, delle guerre, onde le nazioni riposassero sulla certezza de’ lor imperi. Cosí quelli auspíci, che fondarono gl’imperi paterni monarchici a’ padri nello stato delle famiglie e apparecchiarono e conservarono loro i regni aristocratici nell’eroiche cittá e, comunicati loro, produssero le repubbliche libere alle plebi de’ popoli (come la storia romana apertamente lo ci racconta), finalmente legittimano le conquiste, con la fortuna dell’armi, a’ felici conquistatori. Lo che tutto non può provenire altronde che dal concetto innato della provvedenza c’hanno universalmente le nazioni, alla quale si debbono conformare, ove vedono affliggersi i giusti e prosperarsi gli scellerati, come nell’Idea dell’opera altra volta si è detto.
[Capitolo Terzo]
[Seconda spezie: giudizi ordinari]
[965] I secondi giudizi, per la recente origine da’ giudizi divini, furono tutti ordinari, osservati con una somma scrupolositá di parole, che da’ giudizi, innanzi stati, divini dovette restar detta «religio verborum»; conforme le cose divine universalmente son concepute con formole consagrate, che non si possono d’una letteruccia alterare, onde delle antiche formole dell’azioni si diceva: «qui cadit virgula, caussa cadit». Ch’è ’l diritto naturale delle genti eroiche, osservato naturalmente dalla giurisprudenza romana antica, e fu il «fari» del pretore, ch’era un parlar innalterabile, dal quale furono detti «dies fasti» i giorni ne’ quali rendeva ragion il pretore. La quale, perché i soli eroi ne avevano la comunione nell’eroiche aristocrazie, dev’esser il «fas deorum» de’ tempi ne’ quali, come sopra abbiamo spiegato, gli eroi s’avevano preso il nome di «dèi», donde poi fu detto «Fatum» sopra le cose della natura l’ordine ineluttabile delle cagioni che le produce, perché tale sia il parlare di Dio: onde forse agl’italiani venne detto «ordinare», ed in ispezie in ragionamento di leggi, per «dare comandi che si devono necessariamente eseguire».
[966] Per cotal ordine (che, ’n ragionamento di giudizi, significa «solenne formola d’azione»), ch’aveva dettato la crudele e vil pena contro l’inclito reo d’Orazio, non potevano i duumviri essi stessi assolverlo, quantunque fussesi ritruovato innocente; e ’l popolo, a cui n’appellò, l’assolvette, come Livio il racconta, «magis admiratione virtutis quam iure caussae». E tal ordine di giudizi bisognò ne’ tempi d’Achille, che riponeva tutta la ragion nella forza, per quella propietá de’ potenti che descrive Plauto con la sua solita grazia: «pactum non pactum, non pactum pactum», ove le promesse non vanno a seconda delle lor
orgogliose voglie o non vogliono essi adempiere le promesse. Cosí, perché non prorompessero in piati, risse ed uccisioni, fu consiglio della provvedenza ch’avessero naturalmente tal oppenione del giusto, che tanto e tale fusse loro diritto quanto e quale si fusse spiegato con solenni formole di parole; onde la riputazione della giurisprudenza romana e de’ nostri antichi dottori fu in cautelare i clienti. Il qual diritto naturale delle genti eroiche diede gli argomenti a piú commedie di Plauto: nelle qual’i ruffiani, per inganni orditi loro da’ giovani innamorati delle loro schiave, ne sono ingiustamente fraudati, fatti da quelli innocentemente truovar rei d’una qualche formola delle leggi; e non solamente non isperimentano alcun’azione di dolo, ma altro rimborsa al doloso giovane il prezzo della schiava venduta, altro priega l’altro che si contenti della metá della pena, alla qual era tenuto, di furto non manifesto, altro si fugge dalla cittá per timore d’esser convinto d’aver corrotto lo schiavo altrui. Tanto a’ tempi di Plauto regnava ne’ giudizi l’equitá naturale![967] Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osservato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini credettero osservarsi da essi dèi anco ne’ lor giuramenti. Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch’è de’ giuramenti non sol testimone ma giudice, ch’essa non aveva solecitato Nettunno a muovere la tempesta contro i troiani, perocché ’l fece per mezzo dello dio Sonno; e Giove ne riman soddisfatto. Cosí Mercurio, finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l’inganna, sia Mercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plauto nell’Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch’insegnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo che meno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (il quale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimi principi della romana repubblica, co’ quali si dice Terenzio aver composte le sue commedie; il quale nell’Andria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l’uscio di Simone con le mani di Miside, acciocché, se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare d’averlovi posto esso.
[968] Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch’in Atene, cittá di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euripide, che Cicerone voltò in latino:
Iuravi lingua, mentem iniuratam habui,
gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perché naturalmente portavano oppenione che «uti lingua nuncupassit, ita ius esto», come comandava la legge delle XII Tavole. Tanto l’infelice Agamennone poteva assolversi del suo temerario voto, col quale consagrò ed uccise l’innocente e pia figliuola Ifigenia! Onde s’intenda che, perché sconobbe la provvedenza, perciò Lucrezio al fatto d’Agamennone fa quell’empia acclamazione:
Tantum relligio potuit suadere malorum!
che noi sopra nelle Degnitá proponemmo.
[969] Finalmente inchiovano al nostro proposito questo ragionamento queste due cose di giurisprudenza e d’istoria romana certa: una ch’a’ tempi ultimi Gallo Aquilio introdusse l’azione de dolo; l’altra, che Augusto diede la tavoletta a’ giudici d’assolvere gl’ingannati e sedutti.
[970] A tal costume avvezze in pace, le nazioni poi, nelle guerre essendo vinte, esse, con le leggi delle rese, o furono miserevolmente oppresse o felicemente schernirono l’ira de’ vincitori.
[971] Miserevolmente oppressi furon i cartaginesi, i quali dal Romano avevano ricevuta la pace sotto la legge che sarebbero loro salve la vita, la cittá e le sostanze, intendendo essi la «cittá» per gli «edifici», che da’ latini si dice «urbs». Ma, perché dal Romano si era usata la voce «civitas», che significa «comune di cittadini», quando poi, in esecuzion della legge, comandati di abbandonar la cittá posta al lido del mare e ritirarsi entro terra, ricusando essi ubbidire e di nuovo armandosi alla difesa, furono dal Romano dichiarati rubelli, e, per diritto di guerra eroico, presa Cartagine, barbaramente fu messa a fuoco.
I cartaginesi non s’acquetarono alla legge della pace data lor da’ romani, ch’essi non avevano inteso nel patteggiarla, perch’anzi tempo divenuti erano intelligenti, tra per l’acutezza affricana e per la negoziazione marittima, per la quale si fanno piú scorte le nazioni. Né pertanto i romani quella guerra tennero per ingiusta; perocché, quantunque alcuni stimino aver i romani incominciato a fare le guerre ingiuste da quella di Numanzia, che fu finita da esso Scipione Affricano, però tutti convengono aver loro dato principio da quella, che poi fecero, di Corinto.[972] Ma da’ tempi barbari ritornati si conferma meglio il nostro proposito. Corrado terzo imperadore, avendo dato la legge della resa a Veinsberga, la qual aveva fomentato il suo competitore dell’imperio: — che ne uscissero solamente salve le donne con quanto esse via ne portassero addosso fuora, — quivi le pie donne veinsbergesi si caricarono de’ loro figliuoli, mariti, padri; e, stando alla porta della cittá l’imperadore vittorioso, nell’atto dell’usar la vittoria (che per natura è solita insolentire), non ascoltò punto la collera (ch’è spaventosa ne’ grandi e dev’essere funestissima ove nasca da impedimento che lor si faccia di pervenire o di conservarsi la loro sovranitá), stando a capo dell’esercito, ch’era accinto, con le spade sguainate e le lance in resta, di far strage degli uomini veinsbergesi, se ’l vide e ’l sofferse che salvi gli passassero dinanzi tutti, ch’aveva voluto a fil di spada tutti passare. Tanto il diritto naturale della ragion umana spiegata di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio corse naturalmente per tutti i tempi in tutte le nazioni!
[973] Ciò che si è finor ragionato, e tutto ciò che ragionerassene appresso, esce da quelle diffinizioni che sopra, tralle Degnitá, abbiamo proposto d’intorno al vero ed al certo delle leggi e de’ patti; e che cosí a’ tempi barbari è naturale la ragion stretta osservata nelle parole, ch’è propiamente il «fas gentium», com’a’ tempi umani lo è la ragione benigna, estimata da essa uguale utilitá delle cause, che propiamente «fas naturae» dee dirsi, diritto immutabile dell’umanitá ragionevole, ch’è la vera e propia natura dell’uomo.
[Capitolo Quarto]
[Terza spezie: giudizi umani]
[974] I terzi giudizi sono tutti straordinari, ne’ quali signoreggia la veritá d’essi fatti, a’ quali, secondo i dettami della coscienza, soccorrono ad ogni uopo benignamente le leggi in tutto ciò che domanda essa uguale utilitá delle cause; — tutti aspersi di pudor naturale (ch’è parte dell’intelligenza), e garantiti perciò dalla buona fede (ch’è figliuola dell’umanitá), convenevole all’apertezza delle repubbliche popolari e molto piú alla generositá delle monarchie, ov’i monarchi, in questi giudizi, fan pompa d’esser superiori alle leggi e solamente soggetti alla loro coscienza e a Dio. E da questi giudizi, praticati negli ultimi tempi in pace, sono usciti, in guerra, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ne’ quali avendo osservato molti errori e difetti il padre Niccolò Concina ne ha meditato uno piú conforme alla buona filosofia e piú utile all’umana societá, che, con gloria dell’Italia, tuttavia insegna nell’inclita universitá di Padova, in séguito della metafisica, che primario lettor vi professa.
[SEZIONE UNDECIMA] Tre sètte di tempi
[Capitolo Unico]
[Sètte dei tempi religiosi, puntigliosi e civili]
[975] Tutte l’anzidette cose si sono praticate per tre sètte de’ tempi.
[976] Delle quali la prima fu de’ tempi religiosi, che si celebrò sotto i governi divini.
[977] La seconda, de’ puntigliosi, come di Achille; ch’a’ tempi barbari ritornati fu quella de’ duellisti.
[978] La terza, de’ tempi civili ovvero modesti, ne’ tempi del diritto naturale delle genti, che, nel diffinirlo, Ulpiano lo specifica con l’aggiunto d’«umane», dicendo «ius naturale gentium humanarum»; onde, appo gli scrittori latini sotto gl’imperadori, il dovere de’ sudditi si dice «officium civile», e ogni peccato, che si prende nell’interpetrazion delle leggi contro l’equitá naturale, si dice «incivile». Ed è l’ultima setta de’ tempi della giurisprudenza romana, cominciando dal tempo della libertá popolare. Onde prima i pretori, per accomodare le leggi alla natura, costumi, governo romano, di giá cangiati, dovetter addolcire la severitá ed ammollire la rigidezza della legge delle XII Tavole, comandata, quand’era naturale, ne’ tempi eroici di Roma; e dipoi gl’imperadori dovettero snudare di tutti i veli, di che l’avevano coverta i pretori, e far comparire tutta aperta e generosa, qual si conviene alla gentilezza alla quale le nazioni s’erano accostumate, l’equitá naturale.
[979] Per ciò i giureconsulti con la «setta de’ loro tempi» (come si posson osservare) giustificano ciò ch’essi ragionano d’intorno al giusto: perché queste sono le sètte propie della giurisprudenza romana, nelle quali convennero i romani con tutte l’altre nazioni del mondo, insegnate loro dalla provvedenza divina, ch’i romani giureconsulti stabiliscono per principio del diritto natural delle genti; non giá le sètte de’ filosofi, che vi hanno a forza intruso alcuni interpetri eruditi della romana ragione, come si è sopra detto nelle Degnitá. Ed essi imperadori, ove vogliono render ragione delle loro leggi o di altri ordinamenti dati da essoloro, dicono essere stati a ciò far indutti dalla «setta de’ loro tempi», come ne raccoglie i luoghi Barnaba Brissonio, De formulis romanorum: perocché la scuola de’ principi sono i costumi del secolo, siccome Tacito appella la setta guasta de’ tempi suoi, ove dice «corrumpere et corrumpi seculum vocatur», ch’or direbbesi «moda».
[SEZIONE DUODECIMA] Altre pruove tratte dalle propietá dell’aristocrazie eroiche
[Introduzione]
[980] Cosí costante perpetua ordinata successione di cose umane civili, dentro la forte catena di tante e tanto varie cagioni ed effetti che si sono osservati nel corso che fanno le nazioni, debbe strascinare le nostre menti a ricevere la veritá di questi princípi. Ma, per non lasciare verun luogo di dubitarne, aggiugniamo la spiegazione d’altri civili fenomeni, i quali non si possono spiegare che con la discoverta, la qual sopra si è fatta, delle repubbliche eroiche.
[Capitolo Primo]
Della custodia de’ confini
[981] Imperciocché le due eterne massime propietá delle repubbliche aristocratiche sono le due custodie, come sopra si è detto, una de’ confini, l’altra degli ordini.
[982] La custodia de’ confini cominciò ad osservarsi, come si è sopra veduto, con sanguinose religioni sotto i governi divini, perché si avevano da porre i termini a’ campi, che riparassero all’infame comunion delle cose dello stato bestiale; sopra i quali termini avevano a fermarsi i confini prima delle famiglie, poi delle genti o case, appresso de’ popoli e alfin delle nazioni. Onde i giganti, come dice Polifemo ad Ulisse, se ne stavano ciascuno con le loro mogli e figliuole dentro le loro grotte, né s’impacciavano nulla l’uno delle cose dell’altro, servando in ciò il vezzo dell’immane loro recente origine, e fieramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro i confini di ciascheduno, come voleva Polifemo fare d’Ulisse e de’ suoi compagni (nel qual gigante, come piú volte si è detto, Platone ravvisa i padri nello stato delle famiglie); onde sopra dimostrammo esser poi derivato il costume di guardarsi lunga stagione le cittá con l’aspetto di eterne nimiche tra loro. Tanto è soave la divisione de’ campi che narra Ermogeniano giureconsulto, e di buona fede si è ricevuta da tutti gl’interpetri della romana ragione! E da questo primo antichissimo principio di cose umane, donde ne incominciò la materia, sarebbe ragionevole incominciar ancor la dottrina ch’insegna De rerum divisione et acquirendo earum dominio. Tal custodia de’ confini è naturalmente osservata nelle repubbliche aristocratiche, le quali, come avvertono i politici, non sono fatte per le conquiste. Ma, poi che, dissipata affatto l’infame comunion delle cose, furono ben fermi i confini de’ popoli, vennero le repubbliche
popolari, che sono fatte per dilatare gl’imperi, e finalmente le monarchie, che vi vagliono molto piú.[983] Questa e non altra dev’essere la cagione perché la legge delle XII Tavole non conobbe nude possessioni; e l’usucapione ne’ tempi eroici serviva a solennizzare le tradizioni naturali, come i miglior interpetri ne leggono la diffinizione che dica «dominii adiectio», aggiunzione del dominio civile al naturale innanzi acquistato. Ma, nel tempo della libertá popolare, vennero, dopo, i pretori ed assisterono alle nude possessioni con gl’interdetti, e l’usucapione incominciò ad essere «dominii adeptio», modo d’acquistare da principio il dominio civile; e, quando prima le possessioni non comparivano affatto in giudizio, perché ne conosceva estragiudizialmente il pretore, per ciò che se n’è sopra detto, oggi i giudizi piú accertati sono quelli che si dicono «possessòri».
[984] Laonde, nella libertá popolare di Roma in gran parte, ed affatto sotto la monarchia, cadde quella distinzione di dominio bonitario, quiritario, ottimo e finalmente civile, i quali nelle lor origini portavano significazioni diversissime dalle significazioni presenti: il primo, di dominio naturale, che si conservava con la perpetua corporale possessione; — il secondo, di dominio che potevasi vindicare, che correva tra plebei, comunicato loro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, ma ch’a’ plebei dovevano vindicare, laudati in autori, essi nobili, da’ qual’i plebei avevano la cagion del dominio, come pienamente sopra si è dimostrato; — il terzo, di dominio libero d’ogni peso pubblico nonché privato, che celebrarono tra essoloro i patrizi innanzi d’ordinarsi il censo che fu pianta della libertá popolare, come si è sopra detto; — il quarto ed ultimo, di dominio ch’avevan esse cittá, ch’or si dice «eminente». Delle quali differenze, quella d’ottimo e di quiritario da essi tempi della libertá si era di giá oscurata, tanto che non n’ebbero niuna contezza i giureconsulti della giurisprudenza ultima. Ma sotto la monarchia quel che si dice «dominio bonitario» (nato dalla nuda tradizion naturale) e ’l detto «dominio quiritario» (nato dalla mancipazione o tradizion civile) affatto si confusero da
Giustiniano con le costituzioni De nudo iure quiritium tollendo e De usucapione transformanda, e la famosa differenza delle cose mancipi e nec mancipi si tolse affatto; e restarono «dominio civile» in significazione di dominio valevole a produrre revindicazione, e «dominio ottimo» in significazione di dominio non soggetto a veruno peso privato.[Capitolo Secondo]
Della custodia degli ordini
[985] La custodia degli ordini cominciò da’ tempi divini con le gelosie (onde vedemmo sopra esser gelosa Giunone, dea de’ matrimoni solenni), acciocché indi provenisse la certezza delle famiglie incontro la nefaria comunion delle donne. Tal custodia è propietá naturale delle repubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi, le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la potenza, dentro l’ordine de’ nobili; onde tardi vennero nelle nazioni le leggi testamentarie (siccome tra’ Germani antichi narra Tacito che non era alcun testamento): il perché, volendo il re Agide introdurle in Isparta, funne fatto strozzare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni, com’altra volta si è detto. Quindi s’intenda con quanto accorgimento gli adornatori della legge delle XII Tavole fissano nella tavola decimaprima il capo «Auspicia incommunicata plebi sunto», de’ quali dapprima furono dipendenze tutte le ragioni civili cosí pubbliche come private, che si conservavano tutte dentro l’ordine de’ nobili; e le private furono nozze, patria potestá, suitá, agnazioni, gentilitá, successioni legittime, testamenti e tutele, come sopra si è ragionato; — talché, dopo avere, nelle prime tavole, col comunicare tai ragioni tutte alla plebe, stabilite le leggi propie d’una repubblica popolare, particolarmente con la legge testamentaria, dappoi, nella tavola decimaprima, in un sol capo la formano tutta aristocratica. Ma, in tanta confusione di cose, dicono pur questo, quantunque indovinando, di vero: che nelle due ultime tavole passarono in leggi alcune costumanze antiche d’essi romani; il qual detto avvera che lo Stato romano antico fu aristocratico.
[986] Ora, ritornando al proposito, poi che fu fermato dappertutto il gener umano con la solennitá de’ matrimoni, vennero le
repubbliche popolari e, molto piú appresso, le monarchie; nelle quali, per mezzo de’ parentadi con le plebi de’ popoli e delle successioni testamentarie, se ne turbarono gli ordini della nobiltá, e quindi andarono tratto tratto uscendo le ricchezze dalle case nobili. Perché appieno sopra si è dimostrato ch’i plebei romani sin al trecento e nove di Roma, che riportarono da’ patrizi finalmente comunicati i connubi, o sia la ragione di contrarre nozze solenni, essi contrassero matrimoni naturali; né, in quello stato sí miserevole quasi di vilissimi schiavi, come la storia romana pure gli ci racconta, potevano pretendere d’imparentare con essi nobili. Ch’è una delle cose massime, onde dicevamo in quest’opera la prima volta stampata che, se non si dánno questi princípi alla giurisprudenza romana, la romana storia è piú incredibile della favolosa de’ greci, quale finora ci è stata ella narrata. Perché di questa non sapevamo che si avesse voluto dire; ma, della romana, sentiamo nella nostra natura l’ordine de’ disidèri umani esser tutto contrario: che uomini miserabilissimi pretendessero prima nobiltá nella contesa de’ connubi, poi onori con quella che loro comunicassesi il consolato, finalmente ricchezze con l’ultima pretensione che fecero de’ sacerdozi; quando, per eterna comune civil natura, gli uomini prima disiderano ricchezze, dopo di queste onori, e per ultimo nobiltá.[987] Laonde s’ha necessariamente a dire ch’avendo i plebei riportato da’ nobili il dominio certo de’ campi con la legge delle XII Tavole (che noi sopra dimostrammo essere stata la seconda agraria del mondo) ed essendo ancora stranieri (perché tal dominio puossi concedere agli stranieri), con la sperienza furono fatti accorti che non potevano lasciargli ab intestato a’ loro congionti, perché, non contraendo nozze solenni tra essoloro, non avevano suitá, agnazioni, gentilitá; molto meno in testamento, non essendo cittadini. Né è maraviglia, essendo stati uomini di niuna o pochissima intelligenza, come lo ci appruovano le leggi furia, voconia e falcidia, che tutte e tre furono plebisciti; e tante ve n’abbisognarono perché con la legge falcidia si fermasse finalmente la disiderata utilitá ch’i retaggi
non si assorbissero da’ legati. Perciò, con le morti d’essi plebei ch’eran avvenute in tre anni, accortisi che, per tal via, i campi loro assegnati ritornavano a’ nobili, coi connubi pretesero la cittadinanza, come sopra si è ragionato. Ma i gramatici, confusi da tutti i politici, ch’immaginarono Roma essere stata fondata da Romolo sullo stato nel quale ora stanno le cittá, non seppero che le plebi delle cittá eroiche per piú secoli furono tenute per istraniere, e quindi contrassero matrimoni naturali tra loro; e perciò essi non avvertirono ch’era una, quanto in fatti sconcia, tanto nelle parole men latina espressione quella della storia: che «plebei tentarunt connubia patrum», ch’arebbe dovuto dire «cum patribus» (perché le leggi connubiali parlan cosí per esemplo: «patruus non habet cum fratris filia connubium»), come si è sopra detto. Che, se avessero ciò avvertito, avrebbono certamente inteso ch’i plebei non pretesero aver diritto d’imparentare co’ nobili, ma di contrarre nozze solenni, il qual diritto era de’ nobili.[988] Quindi, se si considerano le successioni legittime, ovvero le comandate dalla legge delle XII Tavole: — ch’al padre di famiglia difonto succedessero in primo luogo i suoi, in lor difetto gli agnati e ’n mancanza di questi i gentili, — sembra la legge delle XII Tavole essere stata appunto una legge salica de’ romani; la quale ne’ suoi primi tempi si osservò ancora per la Germania (onde si può congetturare lo stesso per l’altre nazioni prime della ritornata barbarie), e finalmente si ristò nella Francia e, fuori di Francia, nella Savoia. Il qual diritto di successioni Baldo, assai acconciamente al nostro proposito, chiama «ius gentium Gallorum»: alla qual istessa fatta, cotal diritto romano di successioni agnatizie e gentilizie si può con ragion chiamare «ius gentium romanarum», aggiontavi la voce «heroicarum», e, per dirla con piú acconcezza, «romanum»; che sarebbe appunto «ius quiritium romanorum», che noi provammo qui sopra essere stato il diritto naturale comune a tutte le genti eroiche.
[989] Né ciò, come sembra, egli turba punto le cose da noi qui dette d’intorno alla legge salica, in quanto esclude le femmine
dalla successione de’ regni: che Tanaquille, femmina, governò il regno romano. Perché ciò fu detto, con frase eroica, ch’egli fu un re d’animo debole, che si fece regolare dallo scaltrito di Servio Tullio, il qual invase il regno romano col favor della plebe, alla qual aveva portato la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato. Alla qual fatta di Tanaquille, per la stessa maniera di parlar eroico, ricorsa ne’ tempi barbari ritornati, Giovanni papa fu detto femmina (contro la qual favola Lione Allacci scrisse un intiero libro), perché mostrò la gran debolezza di ceder a Fozio, patriarca di Costantinopoli, come ben avvisa il Baronio e, dopo di lui, lo Spondano.[990] Sciolta adunque sí fatta difficultá, diciamo ch’alla stessa maniera che prima si era detto «ius quiritium romanorum», nel significato di «ius naturale gentium heroicarum romanarum», non altrimente sotto gl’imperadori, quando Ulpiano il diffinisce, con peso di parole dice «ius naturale gentium humanarum», che corre nelle repubbliche libere e molto piú sotto le monarchie. E per tutto ciò il titolo dell’Instituta sembra doversi leggere: De iure naturali gentium civili, non solo, con Ermanno Vulteio, togliendo la virgola tralle voci «naturali» «gentium» (supplita, con Ulpiano, la seconda «humanarum»), ma anco la particella «et» innanzi alla voce «civili». Perché i romani dovetter attendere al diritto loro propio, come, dall’etá di Saturno introdutto, l’avevano conservato prima coi costumi e poi con le leggi, siccome Varrone, nella grand’opera Rerum divinarum et humanarum, trattò le cose romane per origini tutte quante natie, nulla mescolandovi di straniere.
[991] Ora, ritornando alle successioni eroiche romane, abbiamo assai molti e troppo forti motivi di dubitare se, ne’ tempi romani antichi, di tutte le donne succedessero le figliuole; perché non abbiamo nessuno motivo di credere ch’i padri eroi n’avessero sentito punto di tenerezza, anzi n’abbiamo ben molti e grandi tutti contrari. Imperciocché la legge delle XII Tavole chiamava un agnato anco in settimo grado ad escludere un figliuolo, che trovavasi emancipato, dalla succession di suo padre. Perché i padri di famiglia avevano un sovrano diritto di vita
e morte, e quindi un dominio dispotico sopra gli acquisti d’essi figliuoli: essi contraevano i parentadi per gli medesimi, per far entrar femmine nelle loro case degne delle lor case (la qual istoria ci è narrata da esso verbo «spondere», ch’è, propiamente, «promettere per altrui», onde vengono detti «sponsalia»); consideravano le adozioni quanto le medesime nozze, perché rinforzassero le cadenti famiglie con eleggere strani allievi che fussero generosi; tenevano l’emancipazioni a luogo di castigo e di pena; non intendevano legittimazioni, perché i concubinati non erano che con affranchite e straniere, con le quali ne’ tempi eroici non si contraevano matrimoni solenni, onde i figliuoli degenerassero dalla nobiltá de’ lor avoli; i loro testamenti per ogni frivola ragione o erano nulli o s’annullavano o si rompevano o non conseguivano il loro effetto, acciocché ricorressero le successioni legittime. Tanto furono naturalmente abbagliati dalla chiarezza de’ loro privati nomi, onde furono per natura infiammati per la gloria del comun nome romano! Tutti costumi propi di repubbliche aristocratiche, quali furono le repubbliche eroiche, le quali tutte sono propietá confaccenti all’eroismo de’ primi popoli.[992] Ed è degno di riflessione questo sconcissimo errore preso da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole, i quali vogliono essersi portata da Atene in Roma: che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato, per tutto il tempo innanzi di portarvi tal legge le successioni testamentarie e legittime, dovettero andare nelle spezie delle cose che sono dette nullius. Ma la provvedenza dispose che, perché ’l mondo non ricadesse nell’infame comunion delle cose, la certezza de’ domíni si conservasse con essa e per essa forma delle repubbliche aristocratiche. Onde tali successioni legittime per tutte le prime nazioni naturalmente si dovettero celebrare innanzi d’intendersi i testamenti, che sono propi delle repubbliche popolari e molto piú delle monarchie, siccome de’ Germani antichi (i quali ci dánno luogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari) apertamente da Tacito ci è narrato; onde testé congetturammo la legge salica, la quale certamente fu celebrata
nella Germania, essere stata osservata universalmente dalle nazioni nel tempo della seconda barbarie.[993] Però i giureconsulti della giurisprudenza ultima, per quel fonte d’innumerabili errori (i quali si sono notati in quest’opera) d’estimare le cose de’ tempi primi non conosciuti da quelle de’ loro tempi ultimi, han creduto che la legge delle XII Tavole avesse chiamate le figliuole di famiglia all’ereditá de’ loro padri, che morti fussero ab intestato, con la parola «suus», su quella massima che ’l genere maschile contenga ancora le donne. Ma la giurisprudenza eroica, della quale tanto in questi libri si è ragionato, prendeva le parole delle leggi nella propissima loro significazione; talché la voce «suus» non significasse altro che ’l figliuol di famiglia. Di che con un’invitta pruova ne convince la formola dell’istituzione de’ postumi, introdutta tanti secoli dopo da Gallo Aquilio, la quale sta cosí conceputa: «Si quis natus natave erit», per dubbio che nella sola voce «natus» la postuma non s’intendesse compresa. Onde, per ignorazione di queste cose, Giustiniano nell’Istituta dice che la legge delle XII Tavole con la voce «adgnatus» avesse chiamati egualmente gli agnati maschi e l’agnate femmine, e che poi la giurisprudenza mezzana avesse irrigidito essa legge, restringendola alle sole sorelle consanguinee; lo che dev’esser avvenuto tutto il contrario, e che prima avesse steso la parola «suus» alle figliuole ancor di famiglia, e dipoi la voce «adgnatus» alle sorelle consanguinee. Ove a caso, ma però bene, tal giurisprudenza vien detta «media», perch’ella da questi casi incominciò a rallentare i rigori della legge delle XII Tavole: la qual venne dopo la giurisprudenza antica, la quale n’aveva custodito con somma scrupolositá le parole, siccome dell’una e dell’altra appieno si è sopra detto.
[994] Ma, essendo passato l’imperio da’ nobili al popolo, perché la plebe pone tutte le sue forze, tutte le sue ricchezze, tutta la sua potenza nella moltitudine de’ figliuoli, s’incominciò a sentire la tenerezza del sangue, ch’innanzi i plebei delle cittá eroiche non avevano dovuto sentire, perché generavano i figliuoli per fargli schiavi de’ nobili, da’ quali erano posti a
generare in tempo ch’i parti provenissero nella stagione di primavera, perché nascessero non solo sani, ma ancor robusti (onde se ne dissero «vernae», come vogliono i latini etimologi, da’ quali, come si è detto sopra, le lingue volgari furono dette «vernaculae»), e le madri dovevano odiargli anzi che no, siccome quelli de’ quali sentivano il solo dolore nel partorirgli e le sole molestie nel lattargli, senza prenderne alcun piacere d’utilitá nella vita. Ma, perché la moltitudine de’ plebei, quanto era stata pericolosa alle repubbliche aristocratiche, che sono e si dicon di pochi, tanto ingrandiva le popolari, e molto piú le monarchiche (onde sono i tanti favori che fanno le leggi imperiali alle donne per gli pericoli e dolori del parto), quindi da’ tempi della popolar libertá cominciaron i pretori a considerare i diritti del sangue ed a riguardarlo con le bonorum possessioni; cominciaron a sanare co’ loro rimedi i vizi o difetti de’ testamenti, perché si divolgassero le ricchezze, le quali sole son ammirate dal volgo.[995] Finalmente, venuti gl’imperadori, a’ quali faceva ombra lo splendore della nobiltá, si dieder a promuovere le ragioni dell’umana natura, comune cosí a’ plebei com’a’ nobili, incominciando da Augusto, il quale applicò a proteggere i fedecommessi (per gli quali, con la puntualitá degli eredi gravati, erano innanzi passati i beni agl’incapaci d’ereditá), e lor assisté tanto, che nella sua vita passarono in necessitá di ragione di costrignere gli eredi a mandargli in effetto. Succedettero tanti senaticonsulti, co’ quali i cognati entrarono nell’ordine degli agnati; finché venne Giustiniano e tolse le differenze de’ legati e de’ fedecommessi, confuse le quarte falcidia e trebellianica, di poco distinse i testamenti da’ codicilli e, ab intestato, adeguò gli agnati e i cognati in tutto e per tutto. E tanto le leggi romane ultime si profusero in favorire l’ultime volontá, che, quando anticamente per ogni leggier motivo si viziavano, oggi si devono sempre interpetrar in maniera che reggano piú tosto che cadano.
[996] Per l’umanitá de’ tempi (ché le repubbliche popolari amano i figliuoli, e le monarchie vogliono i padri occupati nell’amor
de’ figliuoli), essendo giá caduto il diritto ciclopico ch’avevano i padri delle famiglie sopra le persone, perché cadesse anco quello sopra gli acquisti de’ lor figliuoli, gl’imperadori introdussero prima il peculio castrense per invitar i figliuoli alla guerra, poi lo stesero al quasi castrense per invitargli alla milizia palatina, e finalmente, per tener contenti i figliuoli che né eran soldati né letterati, introdussero il peculio avventizio. Tolsero l’effetto della patria potestá all’adozioni, le quali non si contengono ristrette dentro pochi congionti. Appruovarono universalmente le arrogazioni, difficili alquanto ch’i cittadini, di padri di famiglia propia, divengano soggetti nelle famiglie d’altrui. Riputarono l’emancipazioni per benefizi. Diedero alle legittimazioni che dicono «per subsequens matrimonium» tutto il vigore delle nozze solenni. Ma sopra tutto, perché sembrava scemare la loro maestá quell’«imperium paternum», il disposero a chiamarsi «patria potestá»; sul lor esemplo, introdutto con grand’avvedimento da Augusto, che, per non ingelosire il popolo che volessegli togliere punto dell’imperio, si prese il titolo di «potestá tribunizia», o sia di protettore della romana libertá, che ne’ tribuni della plebe era stata una potestá di fatto, perch’essi non ebbero giammai imperio nella repubblica: come ne’ tempi del medesimo Augusto, avendo un tribuno della plebe ordinato a Labeone che comparisse avanti di lui, questo principe d’una delle due sètte de’ romani giureconsulti ragionevolmente ricusò d’ubbidire, perché i tribuni della plebe non avessero imperio. Talché né da’ gramatici né da’ politici né da’ giureconsulti è stato osservato il perché, nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi di comunicarle punto d’imperio, fecero quell’uscita di criare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cum consulari potestate», come sempre legge la storia, non giá «cum imperio consulari», che la storia non legge mai.[997] Onde la repubblica romana libera si concepí tutta con questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus autoritas», «populi imperium», «tribunorum plebis potestas». E queste due voci restarono nelle leggi con tali loro native eleganze: che l’«imperio»
si dice de’ maggiori maestrati, come de’ consoli, de’ pretori, e si stende fino a poter condennare di morte; la «potestá» si dice de’ maestrati minori, come degli edili, e «modica coërcitione continetur».[998] Finalmente, spiegando i romani principi tutta la loro clemenza verso l’umanitá, presero a favorire la schiavitú e raffrenarono la crudeltá de’ signori contro i loro miseri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle solennitá le manomessioni; e la cittadinanza, che prima non si dava ch’a’ grandi stranieri benemeriti del popolo romano, diedero ad ogniuno ch’anco di padre schiavo, purché da madre libera (nonché nata, affranchita) nascesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nelle cittá, il diritto naturale, ch’innanzi dicevasi «delle genti» o delle case nobili (perché ne’ tempi eroici erano state tutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propio cotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennero le repubbliche popolari (nelle quali l’intiere nazioni sono signore degl’imperi) e quindi le monarchie (dove i monarchi rappresentano l’intiere nazioni loro soggette), restò detto «diritto naturale delle nazioni».
[Capitolo Terzo]
Della custodia delle leggi
[999] La custodia degli ordini porta di séguito quella de’ maestrati e de’ sacerdozi, e quindi quella ancor delle leggi e della scienza d’interpetrarle. Ond’è che si legge nella storia romana, a’ tempi ne’ quali era quella repubblica aristocratica, che dentro l’ordine senatorio (ch’allora era tutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sacerdozi, e dentro il collegio de’ pontefici (nel quale non si ammettevano che patrizi), come appo tutte l’altre nazioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che sono lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra’ romani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, al narrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono detti «viri», che tanto in que’ tempi a’ latini significò quanto a’ greci significarono «eroi», e con tal nome s’appellarono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici, come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremo della custodia delle leggi, siccome quella ch’era una massima propietá dell’aristocrazie eroiche; onde fu l’ultima ad essere da’ patrizi comunicata alla plebe.
[1000] Tal custodia scrupolosamente si osservò ne’ tempi divini; talché l’osservanza delle leggi divine se ne chiama «religione», la quale si perpetuò per tutti i governi appresso, ne’ quali le leggi divine si devon osservare con certe innalterabili formole di consagrate parole e di cerimonie solenni. La qual custodia delle leggi è tanto propia delle repubbliche aristocratiche che nulla piú. Perciò Atene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le cittá della Grecia) andò prestamente alla libertá popolare, per quello che gli spartani (ch’erano di repubblica aristocratica) dicevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne scrivevano, e le poche ch’erano in Isparta si osservavano.
[1001] Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto
che da Tacito funne detta «finis omnis aequi iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertá (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sopra dimostra, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis aequi iuris», perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodí comandava delle leggi singolari, perché d’universali ella non è capace. Al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le Quistioni perpetue; ma, rinnunziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politici l’avvertiscono, non vi è via piú spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti principi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertá popolare si custodirono sí severamente le formole dell’azioni, che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene», perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolar d’equitá fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l’equitá naturale. Cosí, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertá popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch’i principi non fann’altro che concedere privilegi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piú conforme alla natural equitá. Anzi tutte l’eccezioni, ch’oggi si dánno alle leggi, si può con veritá dire che sono privilegi dettati dal particolar merito de’ fatti, il quale gli tragge fuori dalla comun disposizion delle leggi.[1002] Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane; tanto che in Francia era con gravi pene punito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiunque nella sua causa n’avesse allegato alcuna. Certamente, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i lor affari con le leggi romane e professavano soggiacere alle longobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de’ lor costumi, praticavano alcuni diritti romani in forza di consuetudini: ch’è la cagione onde il corpo delle leggi di Giustiniano ed altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romano orientale tra’ greci si seppellirono. Ma poi, rinnate le monarchie e rintrodutta la libertá popolare, il diritto romano compreso ne’ libri di Giustiniano è stato ricevuto universalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa.
[1003] Però qui è da ammirare la romana gravitá e sapienza: che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsulti si studiarono a tutto loro potere che di quanto meno e con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principalmente l’imperio romano cotanto s’ingrandí e durò: perché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto potere di star fermo sopra i suoi princípi, che furono gli stessi che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i politici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di durar e d’ingrandire gli Stati. Cosí la cagione, che produsse a’ romani la piú saggia giurisprudenza del mondo (di che sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezza romana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nella religione de’ nobili, al contrario Macchiavello nella magnanimitá della plebe, e Plutarco, invidioso della romana virtú e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libro De fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritte Torquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta.
[SEZIONE DECIMATERZA]
[Capitolo Primo]
Altre pruove prese dal temperamento delle repubbliche, fatto degli stati delle seconde coi governi delle primiere.
[1004] Per tutte le cose che in questo libro si sono dette, con evidenza si è dimostrato che, per tutta l’intiera vita onde vivon le nazioni, esse corrono con quest’ordine sopra queste tre spezie di repubbliche, o sia di Stati civili, e non piú: che tutti mettono capo ne’ primi, che furon i divini governi; da’ quali, appo tutte, incominciando (per le degnitá sopra poste come princípi della storia ideal eterna), debbe correre questa serie di cose umane, prima in repubbliche d’ottimati, poi nelle libere popolari e finalmente sotto le monarchie. Onde Tacito, quantunque non le veda con tal ordine, dice (quale nell’Idea dell’opera l’avvisammo) che, oltre a queste tre forme di Stati pubblici, ordinate dalla natura de’ popoli, l’altre di queste tre, mescolate per umano provvedimento, sono piú da disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conseguire, e, se per sorte ve n’hanno, non sono punto durevoli. Ma, per non trallasciare punto di dubbio d’intorno a tal naturale successione di Stati politici o sien civili, secondo questa ritruoverassi le repubbliche mescolarsi naturalmente, non giá di forme (che sarebbero mostri), ma di forme seconde mescolate coi governi delle primiere; il qual
mescolamento è fondato sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempo l’impressione del loro vezzo primiero.[1005] Perciò diciamo che, come i primi padri gentili, venuti dalla vita lor bestiale all’umana, eglino, a’ tempi religiosi, nello stato di natura, sotto i divini governi, ritennero molto di fierezza e d’immanitá della lor fresca origine (onde Platone riconosce ne’ polifemi d’Omero i primi padri di famiglia del mondo); cosí, nel formarsi le prime repubbliche aristocratiche, restaron intieri gl’imperi sovrani privati a’ padri delle famiglie, quali gli avevano essi avuto nello stato giá di natura; e, per lo loro sommo orgoglio, non dovendo niuno ceder ad altri, perch’erano tutti uguali, con la forma aristocratica s’assoggettirono all’imperio sovrano pubblico d’essi ordini loro regnanti; onde il dominio alto privato di ciascun padre di famiglia andò a comporre il dominio alto superiore pubblico d’essi senati, siccome delle potestá sovrane private, ch’avevano sopra le loro famiglie, essi composero la potestá sovrana civile de’ loro medesimi ordini. Fuori della qual guisa, è impossibil intendere come altrimente delle famiglie si composero le cittá, le quali, perciò, ne dovettero nascere repubbliche aristocratiche, naturalmente mescolate d’imperi famigliari sovrani.
[1006] Mentre i padri si conservarono cotal autoritá di dominio dentro gli ordini loro regnanti, finché le plebi de’ loro popoli eroici, per leggi di essi padri, riportarono comunicati loro il dominio certo de’ campi, i connubi, gl’imperi, i sacerdozi e, co’ sacerdozi, la scienza ancor delle leggi, le repubbliche durarono aristocratiche. Ma, poi che esse plebi dell’eroiche cittá, divenute numerose ed anco agguerrite (che mettevano paura a’ padri, che nelle repubbliche di pochi debbon essere pochi) ed assistite dalla forza (ch’è la loro moltitudine), cominciarono a comandare leggi senza autoritá de’ senati, si cangiarono le repubbliche, e da aristocratiche divennero popolari: perché non potevano pur un momento vivere ciascuna con due potestá somme legislatrici, senza essere distinte di subbietti, di tempi, di territori, d’intorno a’ quali, ne’ quali e dentro i quali dovessero
comandare le leggi: come con la legge publilia, perciò, Filone dittatore dichiarò la repubblica romana essersi per natura fatta giá popolare. In tal cangiamento, perché l’autoritá di dominio ritenesse ciò che poteva della cangiata sua forma, ella naturalmente divenne autoritá di tutela (siccome la potestá c’hanno i padri sopra i loro figliuoli impuberi, morti essi, diviene in altri autoritá di tutori); per la quale autoritá, i popoli liberi, signori de’ lor imperi, quasi pupilli regnanti, essendo di debole consiglio pubblico, essi naturalmente si fanno governare, come da’ tutori, da’ lor senati; e sí furono repubbliche libere per natura, governate aristocraticamente. Ma, poi che i potenti delle repubbliche popolari ordinarono tal consiglio pubblico a’ privati interessi della loro potenza, e i popoli liberi, per fini di private utilitá, si fecero da’ potenti sedurre ad assoggettire la loro pubblica libertá all’ambizione di quelli, con dividersi in partiti, sedizioni, guerre civili, in eccidio delle loro medesime nazioni, s’introdusse la forma monarchica.[Capitolo Secondo]
D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie
[1007] E tal forma monarchica s’introdusse con questa eterna natural legge regia, la qual sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani. La qual legge non han veduto gl’interpetri della romana ragione, occupati tutti d’intorno alla favola della «legge regia» di Triboniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano nelle Pandette. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani, che seppero bene del diritto naturale delle genti, per ciò che Pomponio, nella brieve storia del diritto romano, ragionando di cotal legge, con quella ben intesa espressione ci lasciò scritto: «rebus ipsis dictantibus, regna condita».
[1008] Cotal legge regia naturale è conceputa con questa formola naturale di eterna utilitá: che, poiché nelle repubbliche libere tutti guardano a’ loro privati interessi, a’ quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio delle loro nazioni, perché si conservin le nazioni, vi surga un solo (come tra’ romani un Augusto), che con la forza dell’armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci a’ soggetti curarsi le loro cose private, e tale e tanta cura abbiano delle pubbliche qual e quanta il monarca lor ne permetta; e cosí si salvino i popoli, ch’anderebbono altrimente a distruggersi. Nella qual veritá convengono i volgari dottori, ove dicono che «universitates sub rege habentur loco privatorum», perché la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico. Lo che Tacito, sappientissimo del diritto natural delle genti, negli Annali, dentro la sola famiglia de’ Cesari l’insegna con quest’ordine d’idee umane civili: avvicinandosi al fine Augusto, «pauci bona libertatis incassum
disserere»; tosto venuto Tiberio, «omnes principis iussa adspectare»; sotto gli tre Cesari appresso, prima venne «incuria» e finalmente «ignorantia reipublicae tanquam alienae»: onde, essendo i cittadini divenuti quasi stranieri delle loro nazioni, è necessario ch’i monarchi nelle loro persone le reggano e rappresentino. Ora, perché nelle repubbliche libere per portarsi un potente alla monarchia vi deve parteggiare il popolo, perciò le monarchie per natura si governano popolarmente: prima con le leggi, con le quali i monarchi vogliono i soggetti tutti uguagliati; dipoi per quella propietá monarchica, ch’i sovrani, con umiliar i potenti, tengono libera e sicura la moltitudine dalle lor oppressioni; appresso per quell’altra di mantenerla soddisfatta e contenta circa il sustentamento che bisogna alla vita e circa gli usi della libertá naturale; e finalmente co’ privilegi, ch’i monarchi concedono o ad intieri ordini (che si chiamano «privilegi di libertá») o a particolari persone, con promuovere fuori d’ordine uomini di straordinario merito agli onori civili (che sono leggi singolari dettate dalla natural equitá). Onde le monarchie sono le piú conformi all’umana natura della piú spiegata ragione, com’altra volta si è detto.[Capitolo Terzo]
Confutazione de’ princípi della dottrina politica
fatta sopra il sistema di Giovanni Bodino
[1009] Dallo che si è fino qui ragionato s’intenda quanto Gian Bodino stabilí con iscienza i princípi della sua dottrina politica, che dispone le forme degli Stati civili con sí fatt’ordine: che prima furono monarchici, dipoi per le tirannie passati in liberi popolari, e finalmente vennero gli aristocratici. Qui basterebbe averlo appien confutato con la natural successione delle forme politiche, spezialmente in questo libro a tante innumerabili pruove dimostrata di fatto. Ma ci piace, ad exuberantiam, confutarlo dagl’impossibili e dagli assurdi di cotal sua posizione.
[1010] Esso, certamente, conviene in quello ch’è vero: che sopra le famiglie si composero le cittá. Altronde, per comun errore, che si è qui sopra ripreso, ha creduto che le famiglie sol fussero di figliuoli. Or il domandiamo: come sopra tali famiglie potevano surger le monarchie?
[1011] Due sono i mezzi: o la forza o la froda.
[1012] Per forza, come un padre di famiglia poteva manomettere gli altri? Perché, se nelle repubbliche libere (che, per esso, vennero dopo le tirannie) i padri di famiglia consagravano sé e le loro famiglie per le loro patrie, che loro conservavano le famiglie (e, per esso, erano quelli giá stati addimesticati alle monarchie), quanto è da stimarsi ch’i padri di famiglia, allor polifemi, nella recente origine della loro ferocissima libertá bestiale, si arebbono tutti con le lor intiere famiglie fatti piú tosto uccidere che sopportar inegualitá?
[1013] Per froda, ella è adoperata da coloro ch’affettano il regno nelle repubbliche libere, con proporre a’ sedutti o libertá o potenza o ricchezze. Se libertá, nello stato delle famiglie i padri erano tutti sovrani. Se potenza, la natura de’ polifemi era di
starsi tutti soli nelle loro grotte e curare le lor famiglie, e nulla impacciarsi di quelle ch’eran d’altrui, convenevolmente al vezzo della lor origine immane. Se ricchezze, in quella semplicitá e parsimonia de’ primi tempi non s’intendevano affatto.[1014] Cresce a dismisura la difficultá, perché ne’ tempi barbari primi non vi eran fortezze, e le cittá eroiche, le quali si composero dalle famiglie, furono lungo tempo smurate, come ce n’accertò sopra Tucidide. E, nelle gelosie di Stato, che furono funestissime nell’aristocrazie eroiche che sopra abbiam detto, Valerio Publicola, per aversi fabbricato una casa in alto, venutone in sospetto d’affettata tirannide, affin di giustificarsene, in una notte fecela smantellare, e ’l giorno appresso, chiamata pubblica ragunanza, fece da’ littori gittar i fasci consolari a’ piedi del popolo. E ’l costume delle cittá smurate piú durò ove furono piú feroci le nazioni; talché in Lamagna si legge ch’Arrigo detto l’uccellatore fu il primo che ’ncominciasse a ridurre i popoli, da’ villaggi dove innanzi avevano vivuto dispersi, a celebrar le cittá ed a cingere le cittá di muraglie. Tanto i primi fondatori delle cittá essi furono quelli che con l’aratro vi disegnarono le mura e le porte: ch’i latini etimologi dicono essersi cosí dette a «portando aratro», perché l’avessero portato alto, ove volevano che si aprisser le porte! Quindi, tra per la ferocia de’ tempi barbari e per la poca sicurtá delle regge, nella corte di Spagna in sessant’anni furon uccisi piú di ottanta reali; talché i padri del concilio illiberitano, uno degli piú antichi della Chiesa latina, con gravi scomuniche ne condennarono la tanto frequentata scelleratezza.
[1015] Ma giugne la difficultá all’infinito, poste le famiglie sol di figliuoli. Ché o per forza o per froda debbon i figliuoli essere stati i ministri dell’altrui ambizione, e o tradire o uccidere i propi padri; talché le prime sarebbono state, non giá monarchie, ma empie e scellerate tirannidi. Come i giovani nobili in Roma congiurarono contro i lor propi padri a favore del tiranno Tarquinio, per l’odio ch’avevano al rigor delle leggi, propio delle repubbliche aristocratiche (come le benigne sono delle repubbliche popolari, le clementi de’ regni legittimi, le
dissolute sotto i tiranni); ed essi giovani congiurati le sperimentarono a costo delle propie lor vite; e, tra quelli, due figliuoli di Bruto, dettando esso padre la severissima pena, furon entrambi decapitati. Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare![1016] Per tali e tante difficultá debbe Bodino (e con lui tutti gli altri politici) riconoscere le monarchie famigliari nello stato delle famiglie che si sono qui dimostrate, e riconoscere le famiglie, oltre de’ figliuoli, ancora de’ famoli (da’ quali principalmente si dissero le famiglie), i quali si sono qui truovati che abbozzi furono degli schiavi, i quali vennero dopo le cittá con le guerre. E ’n cotal guisa sono la materia delle repubbliche uomini liberi e servi, i quali il Bodino pone per materia delle repubbliche, ma, per la sua posizione, non posson esserlo.
[1017] Per tale difficultá di poter essere uomini liberi e servi materia delle repubbliche con la sua posizione, si maraviglia esso Bodino che la sua nazione sia stata detta di «franchi», i quali osserva essere stati ne’ loro primi tempi trattati da vilissimi schiavi; perché, per la sua posizione, non poté vedere che sugli sciolti dal nodo della legge petelia si compierono le nazioni. Talché i franchi, de’ quali si maraviglia il Bodino, sono gli stessi che [gli] «homines», de’ quali si maraviglia Ottomano essere stati detti i vassalli rustici, de’ quali, come in questi libri si è dimostrato, si composero le plebi de’ primi popoli, i quali eran d’eroi. Le quali moltitudini, come pure si è dimostrato, trassero l’aristocrazie alla libertá popolare e, finalmente, alle monarchie; e ciò, in forza della lingua volgare, con cui, in ogniuno dei due ultimi Stati, si concepiscon le leggi, come sopra si è ragionato. Onde da’ latini si disse «vernacula» la volgar lingua, perocché venne da questi servi nati in casa, ché tanto «verna» significa, non «fatti in guerra»; quali sopra dimostrammo essere stati per tutte le nazioni antiche fin dallo stato delle famiglie. Il perché i greci non si dissero piú «achivi» (onde da Omero si dicono «filii achivorum» gli eroi), ma si dissero «elleni» da Elleno, che ’ncominciò la lingua greca volgare; appunto come non piú si dissero «filii Israël», come ne’ tempi
primi, ma restò detto «popolo ebreo», da Eber, che i padri vogliono essere stato il propagator della lingua santa. Tanto Bodino, e tutti gli altri c’hanno scritto di dottrina politica, videro questa luminosissima veritá, la quale per tutta quest’opera, particolarmente con la storia romana, ad evidenza si è dimostrata: che le plebi de’ popoli, sempre ed in tutte le nazioni, han cangiato gli Stati da aristocratici in popolari, da popolari in monarchici, e che, come elleno fondarono le lingue volgari (come sopra appieno si è pruovato nell’Origini delle lingue), cosí hanno dato i nomi alle nazioni, conforme testé si è veduto! E sí gli antichi franchi, de’ quali il Bodino si maraviglia, il diedero alla sua Francia.[1018] Finalmente gli Stati aristocratici, per la sperienza ch’ora n’abbiamo, sono pochissimi, rimastici da essi tempi della barbarie, che sono Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, perocché gli altri sono Stati popolari governati aristocraticamente. Laonde lo stesso Bodino — che, sulla sua posizione, vuole il regno romano monarchico, e, cacciati indi i tiranni, vuole in Roma introdutta la popolar libertá, — non vedendo ne’ tempi primi di Roma libera riuscirgli gli effetti conformi al disegno de’ suoi princípi (perch’eran propi di repubblica aristocratica), osservammo sopra che, per uscirne onestamente, dice prima che Roma fu popolare di Stato ma di governo aristocratico, ma poi, essendo costretto dalla forza del vero, in altro luogo, con brutta incostanza, confessa essere stata aristocratica, nonché di governo, di Stato.
[1019] Tali errori nella dottrina politica sono nati da quelle tre voci non diffinite, ch’altre volte abbiamo sopra osservato: «popolo», «regno» e «libertá». E si è creduto i primi popoli comporsi di cittadini cosí plebei come nobili, i quali a mille pruove qui si sono truovati essere stati di soli nobili. Si è creduto libertá popolare di Roma antica, cioè libertá del popolo da’ signori, quella che qui si è truovata libertá signorile, cioè libertá de’ signori da’ tiranni Tarquini; onde agli uccisori di tai tiranni s’ergevano le statue, perché gli uccidevano per
ordine di essi senati regnanti. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli e nella mala sicurtá delle regge, furono aristocratici, quali i due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor di dubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poi furono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chiama «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamento fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professa che ’l regno romano di nulla fu mutato d’intorno alla regal potestá; come l’abbiamo sopra osservato che da questi re annali, durante il loro regno, vi era l’appellagione al popolo, e, quello finito, dovevano render conto del regno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflettemmo che, ne’ tempi eroici, gli re tutto giorno si cacciavano di sedia l’un l’altro, come ci disse Tucidide; co’ quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne’ quali non si legge cosa piú incerta e varia che la fortuna de’ regni. Ponderammo Tacito (che nella propietá ed energia di esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che ’ncomincia gli Annali con questo motto: «Urbem Romam principio reges habuere», ch’è la piú debole spezie di possessione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quando dicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce «urbem», che, propiamente, son gli edifici, per significare una possessione conservata col corpo: non disse «civitatem», ch’è ’l comune de’ cittadini, i quali tutti, o la maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica.[SEZIONE DECIMAQUARTA] Ultime pruove le quali confermano tal corso di nazioni
[Capitolo Primo]
[Pene, guerre, ordine dei numeri]
[1020] Vi sono altre convenevolezze di effetti con le cagioni che lor assegna questa Scienza ne’ suoi princípi, per confermare il natural corso che fanno nella lor vita le nazioni. La maggior parte delle quali sparsamente sopra e senz’ordine si sono dette, e qui, dentro tal naturale successione di cose umane civili, si uniscono e si dispongono.
[1021] Come le pene, che nel tempo delle famiglie erano crudelissime quanto erano quelle de’ polifemi, nel quale stato Apollo scortica vivo Marsia. E seguitarono nelle repubbliche aristocratiche; onde Perseo col suo scudo, come sopra spiegammo, insassiva coloro che ’l riguardavano. E le pene se ne dissero da’ greci παραδείγματα, nello stesso senso che da’ latini si chiamarono «exempla», in senso di «castighi esemplari»; e da’ tempi barbari ritornati, come si è anco osservato sopra, «pene ordinarie» si dissero le pene di morte. Onde le leggi di Sparta, repubblica a tante pruove da noi dimostrata aristocratica, elleno, selvagge e crude cosí da Platone come da Aristotile giudicate, vollero un chiarissimo re, Agide, fatto strozzare dagli efori; e quelle di Roma, mentre fu di stato aristocratico,
volevano un inclito Orazio vittorioso battuto nudo con le bacchette e quindi all’albero infelice afforcato, come l’un e l’altro sopra si è detto ad altro proposito. Dalla legge delle XII Tavole condennati ad esser bruciati vivi coloro ch’avevano dato fuoco alle biade altrui, precipitati giú dal monte Tarpeo li falsi testimoni, fatti vivi in brani i debitori falliti: la qual pena Tullo Ostilio non aveva risparmiato a Mezio Fuffezio, re di Alba, suo pari, che gli aveva mancato la fede dell’alleanza; [ed] esso Romolo, innanzi, fu fatto in brani da’ padri per un semplice sospetto di Stato. Lo che sia detto per coloro i quali vogliono che tal pena non fu mai praticata in Roma.[1022] Appresso vennero le pene benigne, praticate nelle repubbliche popolari, dove comanda la moltitudine, la quale, perché di deboli, è naturalmente alla compassione inchinata; e quella pena — della qual Orazio (inclito reo d’una collera eroica, con cui aveva ucciso la sorella, la qual esso vedeva piangere alla pubblica felicitá) il popolo romano assolvette «magis admiratione virtutis quam iure caussae» (conforme all’elegante espressione di Livio, altra volta sopra osservata), — nella mansuetudine della di lui libertá popolare, come Platone ed Aristotile, ne’ tempi d’Atene libera, poco fa udimmo riprendere le leggi spartane, cosí Cicerone grida esser inumana e crudele, per darsi ad un privato cavaliere romano, Rabirio, ch’era reo di ribellione. Finalmente si venne alle monarchie, nelle qual’i principi godono di udire il grazioso titolo di «clementi».
[1023] Come dalle guerre barbare de’ tempi eroici, che si rovinavano le cittá vinte, e gli arresi, cangiati in greggi di giornalieri, erano dispersi per le campagne a coltivar i campi per gli popoli vincitori (che, come sopra ragionammo, furono le colonie eroiche mediterranee) — quindi per la magnanimitá delle repubbliche popolari, le quali, finché si fecero regolare da’ lor senati, toglievano a’ vinti il diritto delle genti eroiche e lasciavano loro tutti liberi gli usi del diritto natural delle genti umane ch’Ulpiano diceva (onde, [con] la distesa delle conquiste, si ristrinsero a’ cittadini romani tutte le ragioni, che poi si dissero «propriae civium romanorum», come sono nozze, patria
potestá, suitá, agnazione, gentilitá, dominio quiritario o sia civile, mancipazioni, usucapioni, stipulazioni, testamenti, tutele ed ereditá; le quali ragioni civili tutte, innanzi d’esser soggette, dovettero aver propie loro le libere nazioni) — si venne finalmente alle monarchie, che vogliono, sotto Antonino Pio, di tutto il mondo romano fatta una sola Roma. Perch’è voto propio de’ gran monarchi di far una cittá sola di tutto il mondo, come diceva Alessandro magno che tutto il mondo era per lui una cittá, della qual era ròcca la sua falange. Onde il diritto natural delle nazioni, promosso da’ pretori romani nelle provincie, venne, a capo di lunga etá, a dar le leggi in casa d’essi romani; perché cadde il diritto eroico de’ romani sulle provincie, perché i monarchi vogliono tutti i soggetti uguagliati con le lor leggi. E la giurisprudenza romana, la quale ne’ tempi eroici tutta si celebrò sulla legge delle XII Tavole, e poi, fin da’ tempi di Cicerone (com’egli il riferisce in un libro De legibus), era incominciata a praticarsi sopra l’editto del romano pretore, finalmente, dall’imperador Adriano in poi, tutta s’occupò d’intorno all’Editto perpetuo, composto ed ordinato da Salvio Giuliano quasi tutto d’editti provinciali.[1024] Come da’ piccioli distretti, che convengono a ben governarsi le repubbliche aristocratiche, poi per le conquiste, alle quali sono ben disposte le repubbliche libere, si viene finalmente alle monarchie, le quali, quanto sono piú grandi, sono piú belle e magnifiche.
[1025] Come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposare sotto le monarchie.
[1026] Ma ci piace finalmente di dimostrare come sopra quest’ordine di cose umane civili, corpolento e composto, vi convenga l’ordine de’ numeri, che sono cose astratte e purissime. Incominciarono i governi dall’uno, con le monarchie famigliari; indi passarono a’ pochi, con l’aristocrazie eroiche; s’innoltrarono ai molti e tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all’uno nelle monarchie civili. Né nella natura de’
numeri si può intendere divisione piú adeguata né con altr’ordine che uno, pochi, molti e tutti, e che i pochi, molti e tutti ritengano, ciascheduno nella sua spezie, la ragione dell’uno; siccome i numeri consistono in indivisibili, al dir d’Aristotile, e, oltrepassando i tutti, si debba ricominciare dall’uno. E sí l’umanitá si contiene tutta tralle monarchie famigliari e civili.[Capitolo Secondo]
Corollario
Il diritto romano antico fu un serioso poema e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia, dentro la quale si truovano i primi dirozzamenti della legal metafisica, e come a’ greci dalle leggi uscí la filosofia.
[1027] Vi sono altri ben molti e ben grandi effetti, particolarmente nella giurisprudenza romana, i quali non truovano le loro cagioni che ’n questi stessi princípi. E sopra tutto per quella degnitá: — che, perocché sono gli uomini naturalmente portati al conseguimento del vero, per lo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s’attengono al certo, — quindi le mancipazioni cominciarono con vera mano, per dire con «vera forza», perché «forza» è astratto, «mano» è sensibile. E la mano appo tutte le nazioni significò «potestá»; onde sono le «chirotesie» e le «chirotonie» che dicon i greci, delle quali quelle erano criazioni che si facevano con le imposizioni delle mani sopra il capo di colui ch’aveva da eleggersi in potestá, queste eran acclamazioni delle potestá giá criate fatte con alzare le mani in alto. Solennitá propie de’ tempi mutoli, conforme a’ tempi barbari ritornati cosí acclamavano all’elezioni de’ re. Tal mancipazion vera è l’occupazione, primo gran fonte naturale di tutti i domíni, ch’a’ romani detta poi restò nelle guerre; ond’e gli schiavi furono detti «mancipia», e le prede e le conquiste «res mancipi» de’ romani, divenute con le vittorie «res nec mancipi» ad essi vinti. Tanto la mancipazione nacque dentro le mura della sola cittá di Roma per modo d’acquistar il dominio civile ne’ commerzi privati d’essi romani!
[1028] A tal mancipazione andò di séguito una conforme vera usucapione, cioè acquisto di dominio (ché tanto suona «capio»)
con vero uso (in senso che la voce «usus» significa «possessio»). E le possessioni dapprima si celebrarono col continuo ingombramento de’ corpi sopra esse cose possedute, talché «possessio» dev’essere stata detta quasi «porro sessio» (per lo quale proseguito atto di sedere o star fermo i domicili latinamente restaron chiamati «sedes»), e non giá «pedum positio», come dicono i latini etimologi, perché il pretore assiste a quella e non a questa possessione e la mantiene con gl’interdetti. Dalla qual posizione, detta θέσις da’ greci, dovette chiamarsi Teseo, non dalla bella sua positura, come dicono gli etimologi greci, perché uomini d’Attica fondaron Atene con lo stare lungo tempo ivi fermi; ch’è l’usucapione, la qual legittima appo tutte le nazioni gli Stati.[1029] Ancora, in quelle repubbliche eroiche d’Aristotile che non avevano leggi da ammendar i torti privati, vedemmo, sopra, le revindicazioni esercitarsi con vera forza (che furono i primi duelli o private guerre del mondo), e le condiczioni essere state le ripresaglie private, che dalla barbarie ricorsa duraron fin a’ tempi di Bartolo.
[1030] Imperciocché, essendosi incominciata ad addimesticare la ferocia de’ tempi e, con le leggi giudiziarie, incominciate a proibirsi le violenze private, tutte le private forze andandosi ad unire nella forza pubblica, che si dice «imperio civile», i primi popoli, per natura poeti, dovettero naturalmente imitare quelle forze vere, ch’avevan innanzi usate per conservarsi i loro diritti e ragioni. E cosí fecero una favola della mancipazion naturale, e ne fecero la solenne tradizion civile, la quale si rappresentava con la consegna d’un nodo finto, per imitare la catena con la qual Giove aveva incatenati i giganti alle prime terre vacue, e poi essi v’incatenarono i loro clienti ovvero famoli; e, con tal mancipazione favoleggiata, celebrarono tutte le loro civili utilitá con gli atti legittimi, che dovetter essere cerimonie solenni de’ popoli ancora mutoli. Poscia (essendosi la favella articolata formata appresso), per accertarsi l’uno della volontá dell’altro nel contrarre tra loro, vollero ch’i patti, nell’atto della consegna di esso nodo, si vestissero
con parole solenni, delle quali fussero concepute stipulazioni certe e precise; e cosí dappoi in guerra concepivano le leggi con le quali si facevano le rese delle vinte cittá, le quali si dissero «paci» da «pacio», che lo stesso suona che «pactum». Di che restò un gran vestigio nella formola con la quale fu conceputa la resa di Collazia, che, qual è riferita da Livio, ella è un contratto recettizio fatto con solenni interrogazioni e risposte; onde con tutta propietá gli arresi ne furon detti «recepti», conforme l’araldo romano disse agli oratori collatini: — «Et ego recipio». — Tanto la stipulazione ne’ tempi eroici fu de’ soli cittadini romani! e tanto con buon senno si è finora creduto che Tarquinio Prisco, nella formola con cui fu resa Collazia, avesse ordinato alle nazioni com’avesser a fare le rese![1031] In cotal guisa il diritto delle genti eroiche del Lazio restò fisso nel famoso capo della legge delle XII Tavole cosí conceputo: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch’è il gran fonte di tutto il diritto romano antico, ch’i pareggiatori del diritto attico confessano non esser venuto da Atene in Roma.
[1032] L’usucapione procedé con la possessione presa col corpo, e poi, finta, ritenersi con l’animo. Alla stessa fatta favoleggiarono con una pur finta forza le vindicazioni; e le ripresaglie eroiche passarono dappoi in azioni personali, serbata la solennitá di dinonziarla a coloro ch’erano debitori. Né poté usar altro consiglio la fanciullezza del mondo, poiché i fanciulli, come se n’è proposta una degnitá, vagliono potentemente nell’imitar il vero di che sono capaci, nella qual facultá consiste la poesia, ch’altro non è ch’imitazione.
[1033] Si portarono in piazza tante maschere quante son le persone, ché «persona» non altro propiamente vuol dire che «maschera», e quanti sono i nomi, i quali, ne’ tempi de’ parlari mutoli, che si facevan con parole reali, dovetter essere l’insegne delle famiglie, con le quali furono ritruovati distinguere le famiglie loro gli americani, come sopra si è detto; e sotto la persona o maschera d’un padre d’una famiglia si nascondevano tutti i figliuoli e tutti i servi di quella, sotto un nome reale
ovvero insegna di casa si nascondevano tutti gli agnati e tutti i gentili della medesima. Onde vedemmo ed Aiace torre de’ greci, ed Orazio solo sostenere sul ponte tutta Toscana, ed a’ tempi barbari ritornati rincontrammo quaranta normanni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di saraceni; e quindi furono credute le stupende forze de’ paladini di Francia (che erano sovrani principi, come restarono cosí detti nella Germania) e, sopra tutti, del conte Rolando, poi detto Orlando. La cui ragione esce da’ princípi della poesia che si sono sopra truovati: che gli autori del diritto romano, nell’etá che non potevano intendere universali intelligibili, ne fecero universali fantastici; e come poi i poeti, per arte, ne portarono i personaggi e le maschere nel teatro, cosí essi, per natura, innanzi avevano portato i «nomi» e le «persone» nel fòro.[1034] Perché «persona» non dev’essere stata detta da «personare», che significa «risuonar dappertutto» — lo che non bisognava ne’ teatri assai piccioli delle prime cittá (quando, come dice Orazio, i popoli spettatori erano piccioli che si potevano numerare) che le maschere si usassero, perché ivi dentro talmente risuonasse la voce ch’empiesse un ampio teatro; né vi acconsente la quantitá della sillaba, la quale, da «sono», debb’esser brieve; — ma dev’esser venuto da «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato «vestir pelli di fiere» (lo che non era lecito ch’a’ soli eroi), e ci è rimasto il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne salvaggine cacciate», che dovetter essere le prime mense opime, qual’appunto de’ suoi eroi le descrive Virgilio. Onde le prime spoglie opime dovetter essere tali pelli di fiere uccise, che riportarono dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come sopra si è ragionato, e i poeti di tali pelli fanno vestire gli eroi e, sopra tutti, di quella del lione, Ercole. E da tal origine del verbo «personari», nel suo primiero significato che gli abbiamo restituito, congetturiamo che gl’italiani dicono «personaggi» gli uomini d’alto stato e di grande rappresentazione.
[1035] Per questi stessi princípi, perché non intendevano forme astratte, ne immaginarono forme corporee, e l’immaginarono, dalla loro natura, animate. E finsero l’ereditá signora delle robe ereditarie, ed in ogni particolar cosa ereditaria la ravvisavano tutta intiera: appunto come una gleba o zolla del podere, che presentavano al giudice, con la formola della revindicazione essi dicevano «hunc fundum». E cosí, se non intesero, sentirono rozzamente almeno ch’i diritti fussero indivisibili.
[1036] In conformitá di tali nature, l’antica giurisprudenza tutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti ereditá; introdusse tante maschere vane senza subbietti, che si dissero «iura imaginaria», ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in truovare sí fatte favole ch’alle leggi serbassero la gravitá ed ai fatti ministrassero la ragione. Talché tutte le finzioni dell’antica giurisprudenza furono veritá mascherate; e le formole con le quali parlavan le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali parole — né piú, né meno, né altre, — si dissero «carmina», come sopra udimmo dirsi da Livio quella che dettava la pena contro di Orazio. Lo che vien confermato con un luogo d’oro di Plauto nell’Asinaria, dove Diabolo dice il parasito esser un gran poeta, perché sappia piú di tutti ritruovare cautele o formole, le quali or si è veduto che si dicevano «carmina».
[1037] Talché tutto il diritto romano antico fu un serioso poema, che si rappresentava da’ romani nel fòro, e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia. Ch’è quello che, troppo acconciamente al nostro proposito, Giustiniano nel proemio dell’Istituta chiama «antiqui iuris fabulas»: il qual motto dev’essere stato d’alcun antico giureconsulto, ch’avesse inteso queste cose qui ragionate; ma egli l’usa per farne beffe. Ma da queste antiche favole richiama i suoi princípi, come qui si dimostra, la romana giurisprudenza; e dalle maschere, le quali usarono tali favole dramatiche e vere e severe, che furon dette «personae», derivano nella dottrina De iure personarum le prime origini.
[1038] Ma, venuti i tempi umani delle repubbliche popolari, s’incominciò nelle grandi adunanze a ravvisar intelletto; e le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». Il qual intelletto è della volontá che ’l legislatore ha spiegato nella sua legge (la qual volontá si appella «ius»), che fu la volontá de’ cittadini uniformati in un’idea d’una comune ragionevole utilitá, la qual dovettero intendere essere spirituale di sua natura, perché tutti que’ diritti che non hanno corpi dov’essi si esercitino (i quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi di corpolenza) dissero «in intellectu iuris consistere». Perché, adunque, son i diritti modi di sostanza spirituale, perciò son individui, e quindi son anco eterni, perché la corrozione non è altro che divisione di parti.
[1039] Gl’interpetri della romana ragione hanno riposta tutta la riputazione della legal metafisica in considerare l’indivisibilitá de’ diritti sopra la famosa materia De dividuis et individuis. Ma non ne considerarono l’altra non meno importante, ch’era l’eternitá, la qual dovevano pur avvertire in quelle due regole di ragione, che stabiliscono, la prima, che, «cessante fine legis, cessat lex»; ove non dicono «cessante ratione», perché il fine della legge è l’uguale utilitá delle cause, la qual può mancare; ma la ragione della legge è una conformazione della legge al fatto, vestito di tali circostanze, le quali, sempre che vestono il fatto, vi regna viva sopra la ragion della legge; — l’altra, che «tempus non est modus constituendi vel dissolvendi iuris» perché ’l tempo non può cominciare né finire l’eterno, e nell’usucapioni e prescrizioni il tempo non produce né finisce i diritti, ma è pruova che chi gli aveva abbia voluto spogliarsene; né, perché si dica «finire l’usufrutto», per cagion d’esemplo, il diritto finisce, ma dalla servitú si riceve alla primiera sua libertá. Dallo che escono questi due importantissimi corollari: il primo, ch’essendo i diritti eterni nel di lor intelletto, o sia nella lor idea, e gli uomini essendo in tempo, non posson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio; il secondo, che tutti gl’innumerabili vari diversi diritti, che sono stati, sono e saranno nel mondo, sono varie modificazioni diverse della potestá
del primo uomo, che fu il principe del gener umano, e del dominio ch’egli ebbe sopra tutta la terra.[1040] Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo i filosofi, egli è necessario che Socrate, dall’osservare ch’i cittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan ad unire in un’idea conforme d’un’ugual utilitá partitamente comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelligibili, ovvero gli universali astratti, con l’induzione, ch’è una raccolta di uniformi particolari, che vanno a comporre un genere di ciò nello che quei particolari sono uniformi tra loro.
[1041] Platone, dal riflettere che ’n tali ragunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del propio utile, si conformavano in un’idea spassionata di comune utilitá (ch’è quello che dicono: «gli uomini partitamente sono portati da’ loro interessi privati, ma in comune voglion giustizia»), s’alzò a meditare l’idee intelligibili ottime delle menti criate, divise da esse menti criate, le qual’in altri non posson esser che in Dio, e s’innalzò a formare l’eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni.
[1042] Onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò diffinita la buona legge: che sia una «volontá scevera di passioni», quanto è dire volontá d’eroe; intese la giustizia regina, la qual siede nell’animo dell’eroe e comanda a tutte l’altre virtú. Perché aveva osservato la giustizia legale (la qual siede nell’animo della civil potestá sovrana) comandar alla prudenza nel senato, alla fortezza negli eserciti, alla temperanza nelle feste, alla giustizia particolare, cosí distributiva negli erari, come per lo piú commutativa nel fòro, e la commutativa la proporzione aritmetica e la distributiva usare la geometrica. E dovette avvertire questa dal censo, ch’è la pianta delle repubbliche popolari, il quale distribuisce gli onori e i pesi con la proporzione geometrica, secondo i patrimoni de’ cittadini. Perché innanzi non si era inteso altro che la sola aritmetica; onde Astrea, la giustizia eroica, ci fu dipinta con la bilancia, e nella legge delle XII Tavole tutte le pene — le quali ora i filosofi, i morali teologi e dottori che scrivono de iure publico dicono
doversi dispensare dalla giustizia distributiva con la proporzione geometrica — tutte si leggono richiamate a «duplio» quelle in danaio e [a] «talio» l’afflittive del corpo. E, poiché la pena del taglione fu ritruovata da Radamanto, per cotal merito egli ne fu fatto giudice nell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene. E ’l taglione da Aristotile ne’ Libri morali fu detto «giusto pittagorico», ritrovato da quel Pittagora che si è qui truovato fondatore di nazione, i cui nobili della Magna Grecia si dissero pittagorici, come sopra abbiamo osservato: che sarebbe vergogna di Pittagora il quale poi divenne sublime filosofo e mattematico.[1043] Dallo che tutto si conchiude che dalla piazza d’Atene uscirono tali princípi di metafisica, di logica, di morale. E dall’avviso di Solone dato agli ateniesi: «Nosce te ipsum» (conforme ragionammo sopra in uno de’ corollari della Logica poetica) uscirono le repubbliche popolari, dalle repubbliche popolari le leggi, e dalle leggi uscí la filosofia; e Solone, da sappiente di sapienza volgare, fu creduto sappiente di sapienza riposta. Che sarebbe una particella della storia della filosofia narrata filosoficamente, ed ultima ripruova delle tante che ’n questi libri si son fatte contro Polibio, il qual diceva che, se vi fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Ché se non vi fussero state religioni, e quindi repubbliche, non sarebber affatto al mondo filosofi, e che se le cose umane non avesse cosí condotto la provvedenza divina, non si avrebbe niuna idea né di scienza né di virtú.
[1044] Ora, ritornando al proposito e [per] conchiudere l’argomento che ragioniamo, da questi tempi umani, ne’ quali provennero le repubbliche popolari e appresso le monarchie, intesero che le cause, le quali prima erano state formole cautelate di propie e precise parole (che a «cavendo» si dissero dapprima «cavissae», e poi restaron dette in accorcio «caussae»), fussero essi affari o negozi negli altri contratti (i qual’affari o negozi oggi solennizzano i patti, i quali nell’atto del contrarre son convenuti acciocché producano l’azioni); ed in quelli che sono valevoli titoli a trasferir il dominio, solennizzassero la natural
tradizione per farlo d’un in altro passare, e ne’ contratti soli che si dicono compiersi con le parole (che sono le stipulazioni), in quelli esse cautele fussero le «cause» nella lor antica propietá. Le quali cose qui dette illustrano vieppiú i princípi sopra posti dell’obbligazioni che nascono da’ contratti e da’ patti.[1045] Insomma — non essendo altro l’uomo, propiamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo — il certo d’intorno al giusto cominciò ne’ tempi muti dal corpo; dipoi, ritruovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell’idee d’intorno al giusto, determinate con la ragione dell’ultime circostanze de’ fatti. Ch’è una formola informe d’ogni forma particolare, che ’l dottissimo Varrone chiamava «formulam naturae», ch’a guisa di luce, di sé informa in tutte le ultime minutissime parti della lor superficie i corpi opachi de’ fatti sopra i quali ella è diffusa, siccome negli Elementi si è tutto ciò divisato.