[SEZIONE SECONDA] Discoverta del vero Omero
[Introduzione]
[873] Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate da altri d’intorno ad Omero e i di lui poemi, senza punto averloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno avevamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo col quale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi ingegni d’uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, con leggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospettarono che Omero finor creduto non fusse vero: tutte queste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che tale sia adivenuto di Omero appunto quale della guerra troiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de’ tempi alla storia, pur i critici piú avveduti giudicano che quella non mai siesi fatta nel mondo. E certamente, se, come della guerra troiana, cosí di Omero non fussero certi grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, a tante difficultá si direbbe che Omero fusse stato un poeta d’idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Ma tali e tante difficultá, e insiememente i poemi di lui pervenutici, sembrano farci cotal forza d’affermarlo per la metá: che quest’Omero sia egli stato un’idea ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie.
[Capitolo Primo]
Le sconcezze e inverisimiglianze dell’Omero finor creduto divengono nell’Omero qui scoverto convenevolezze e necessitá.
[874] Per sí fatta discoverta tutte le cose e discorse e narrate, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell’Omero finor creduto, divengono nell’Omero qui ritruovato tutte convenevolezze e necessitá. E primieramente le stesse cose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano a dire:
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[875] Che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest’Omero.
ii
[876] Che perciò varino cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui etá, perché un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocensessant’anni.
iii
[877] E la cecitá
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[878] e la povertá d’Omero furono de’ rapsodi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse «omèro», prevalevano
nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le cittá della Grecia, de’ quali essi eran autori, perch’erano parte di que’ popoli che vi avevano composte le loro istorie.v
[879] Cosí Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, ’n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generositá; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocitá: a’ tempi d’Omero vecchio giá gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultá poté tanto nel divino Platone, che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, cosí, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltá, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella piú s’avacciassero.
vi
[880] In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliade avere di molt’etá preceduto l’Omero autore dell’Odissea.
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[881] Si dimostra che quello fu dell’oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell’occidente di Grecia verso mezzodí, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo regno.
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[882] Cosí Omero, sperduto dentro la folla de’ greci popoli, si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da’ critici, e particolarmente:
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[883] delle vili sentenze,
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[884] de’ villani costumi,
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[885] delle crude comparazioni,
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[886] degl’idiotismi,
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[887] delle licenze de’ metri,
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[888] dell’incostante varietá de’ dialetti,
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[889] e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini.
[890] Le quali favole Dionigi Longino non si fida di sostenere che co’ puntelli dell’allegorie filosofiche; cioè a dire che, come suonano cantate a’ greci, non possono avergli produtto la gloria d’essere stato l’ordinatore della greca civiltá. La qual difficultá ricorre in Omero la stessa, che noi sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica facemmo contro d’Orfeo, detto il fondatore dell’umanitá della Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietá di essi popoli greci, e particolarmente l’ultima: ché, nel fondarsi, come la teogonia naturale sopra l’ha dimostrato, i greci di sé, pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnanimi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni, con l’oscurarsi le favole e col corrompersi de’ costumi, come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé, dissoluti estimaron gli dèi, — per quella degnitá, la qual è stata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attirano le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilitá, — perché temevano gli dèi contrari a’ loro voti, se fussero stati contrari a’ di loro costumi, com’altra volta si è detto.
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[891] Ma di piú appartengono ad Omero per giustizia i due grandi privilegi, che ’n fatti son uno, che gli dánno Aristotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratteri eroici solamente si seppero finger da Omero. Onde Orazio stesso si professa di non esser poeta, perché o non può o non sa osservare quelli che chiama «colores operum», che tanto suona quanto le «bugie poetiche», le quali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge «obtinere colorem» nel sentimento di «dir bugia che per tutti gli aspetti abbia faccia di veritá», qual dev’esser la buona favola.
[892] Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privilegi, ch’a lui dánno tutti i maestri d’arte poetica, d’essere stato incomparabile:
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[893] in quelle sue selvagge e fiere comparazioni,
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[894] in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti,
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[895] in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi,
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[896] in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono propietá dell’etá eroica de’ greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta; perché, nell’etá della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo.
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[897] Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, poterono far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero.
[898] E, quel ch’è piú, egli fa certo acquisto degli tre immortali elogi, che gli son dati:
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[899] primo, d’essere stato l’ordinatore della greca polizia o sia civiltá;
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[900] secondo, d’essere stato il padre di tutti gli altri poeti;
xxiv
[901] terzo, d’essere stato il fonte di tutte le greche filosofie: niuno de’ quali all’Omero finor creduto poteva darsi. Non lo primo, perché, da’ tempi di Deucalione e Pirra, vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi incominciata co’ matrimoni a fondare la greca civiltá, come si è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poetica che la fondò. Non lo secondo, perché prima d’Omero fiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri, tra’ quali i cronologi han posto Esiodo e fattolo di trent’anni prevenir ad Omero; altri poeti eroici innanzi d’Omero sono affermati da Cicerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazione evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demodoco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente il terzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appieno nella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favole omeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro filosofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, diede l’occasioni a’ filosofi di meditare le lor altissime veritá, e diede altresí le comoditá di spiegarle, conforme il promettemmo nel di lui principio e ’l facemmo vedere per tutto il libro secondo.
[Capitolo Secondo]
I poemi d’Omero si truovano due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.
[902] Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne una sfolgorantissima lode:
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[903] d’esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilitá;
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[904] onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salire nell’alto credito d’essere due grandi tesori de’ costumi dell’antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avvenuto de’ poemi d’Omero, che avvenne della legge delle XII Tavole: perché, come queste, essendo state credute leggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venute a’ romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia del diritto naturale delle genti eroiche del Lazio; cosí, perché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d’un uomo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta finor nascosta l’istoria del diritto naturale delle genti di Grecia.
[APPENDICE]
Istoria de’ poeti dramatici e lirici ragionata
[905] Giá dimostrammo sopra tre essere state l’etá de’ poeti innanzi d’Omero: la prima de’ poeti teologi, ch’i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda, de’ poeti eroici, che l’alterarono e le corruppero; la terza d’Omero, ch’alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell’oscurissima antichitá, ovvero la spiegazione dell’idee ch’andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de’ poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filosofi.
[906] Essi pongono tra’ lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de’ tempi eroici, e ch’egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che ’l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch’Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l’autore, ove nell’Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l’«Omero de’ tragici»; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama τραγικώτατον. Dicono che dentro la medesima etá provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprí la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la
commedia d’Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de’ tragici, altri in quello de’ lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne’ tempi de’ sette savi di Grecia.[907] La qual difficultá per solversi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.
[908] I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl’inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d’Omero, tessuti in verso eroico. Dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra’ latini i primi poeti furono gli autori de’ versi saliari, ch’erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da’ sacerdoti chiamati «salii» (forse detti cosí dal saltare, come saltando in giro s’introdusse il primo coro tra’ greci), i frantumi de’ quali versi sono le piú antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c’hanno un’aria di verso eroico, com’abbiam sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi princípi dell’umanitá delle nazioni, che ne primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a’ tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch’i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne’ tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d’eroi, come gli cantò Achille. Cosí di tal sorta di lirici sagri dovett’esser Anfione metinneo, il qual altresí fu autore del ditirambo; e il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e sí il ditirambo d’Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia.
[909] I nuovi furono i lirici melici, de’ quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso dovette venire dopo
del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l’eroico. Cosí Pindaro venne ne’ tempi della virtú pomposa di Grecia, ammirata ne’ giuochi olimpici, ne’ quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a’ tempi piú sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne’ di lei tempi piú inteneriti e piú molli.[910] I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co’ personaggi de’ satiri, ch’in quella rozzezza e semplicitá dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e ’l petto di fecce d’uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente «cornuti»); e sí può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie. E tutto ciò convenevolmente a’ tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d’uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Cosí è forte congettura che, anzi da tal maschera che da ciò: — che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si dice τράγος, — avesse preso il nome la tragedia, e ch’ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest’eterna propietá, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, cosí rozzamente mascherati sopra i carri co’ quali portavano l’uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanza di Bacco», di dire villanie a’ signori. Quindi s’intenda con quanto di veritá poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché πᾶν significa «tutto», ficcarono la mitologia filosofica che significhi l’universo, e che le parti basse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l’elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono
la mitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse «lex per satyram» quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch’ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de’ latini né de’ greci ce n’è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a’ romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento.[911] Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d’Anfione, ch’era coro di satiri, in coro d’uomini. E la tragedia mezzana dovett’esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finí la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non piú intervenirvi il coro, ch’è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche.
[912] In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d’esemplo, quando i popoli greci giá parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch’è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch’Orazio chiama «presto» (lo che in una degnitá si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l’acerbezza de’ versi avesse ridutti la figliuola col padre alla disperazion d’afforcarsi: che
dev’esser un’istoria di contesa eroica d’intorno a’ connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole.[913] Quindi esce quel mostro d’arte poetica, ch’un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima piú grande dell’epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenitá.
[914] Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tragici» fecero porre Ippocrate a’ tempi de’ sette savi; il quale dev’esser posto circa i tempi d’Erodoto, perché venne in tempi ch’ancora si parlava buona parte per favole (com’è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co’ quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto.