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Giambattista Vico: Opere
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IV-2: La Scienza Nuova (II) (giusta l'edizione del 1744)
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Principj di Scienza Nuova
LIBRO TERZO della discoverta del vero Omero

LIBRO TERZO della discoverta del vero Omero

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[SEZIONE PRIMA] [Ricerca del vero Omero]


[Introduzione]

[780] Quantunque la sapienza poetica, nel libro precedente giá dimostrata essere stata la sapienza volgare de’ popoli della Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici, debba ella portare di séguito necessario che la sapienza d’Omero non sia stata di spezie punto diversa; però, perché Platone ne lasciò troppo altamente impressa l’oppenione che fusse egli fornito di sublime sapienza riposta (onde l’hanno seguíto a tutta voga tutti gli altri filosofi, e sopra gli altri Plutarco ne ha lavorato un intiero libro), noi qui particolarmente ci daremo ad esaminare se Omero mai fusse stato filosofo; sul qual dubbio scrisse un altro intiero libro Dionigi Longino, il quale da Diogene Laerzio nella Vita di Pirrone sta mentovato.

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[Capitolo Primo]
Della sapienza riposta c’hanno oppinato d’Omero

[781] Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesi dare, ch’Omero dovette andare a seconda de’ sensi tutti volgari, e perciò de’ volgari costumi della Grecia, a’ suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi dánno le propie materie a’ poeti. E perciò gli si conceda quello che narra: — estimarsi gli dèi dalla forza, — come dalla somma sua forza Giove vuol dimostrare, nella favola della gran catena, ch’esso sia lo re degli uomini e degli dèi, come si è sopra osservato; sulla qual volgar oppenione fa credibile che Diomede ferisce Venere e Marte con l’aiuto portatogli da Minerva, la quale, nella contesa degli dèi, e spoglia Venere e percuote Marte con un colpo di sasso (tanto Minerva nella volgar credenza era dea della filosofia! e sí ben usa armadura degna della sapienza di Giove!). Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tralle nazioni), che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è creduto avere sparso l’umanitá per lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse per ciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli inseppolti per pasto de’ corvi e cani (onde tanto costò all’infelice Priamo il riscatto del cadavero di Ettorre da Achille, che, pure nudo, legato al suo carro, l’aveva tre giorni strascinato d’intorno alle mura di Troia).

[782] Però, essendo il fine della poesia d’addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d’uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiú. Non era d’uom saggio al volgo villano destar piacere delle

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villanie degli dèi nonché degli eroi, come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria «mosca canina» a Minerva, Minerva dá un pugno a Diana, Achille ed Agamennone, uno il massimo de’ greci eroi, l’altro il principe della greca lega, entrambi re, s’ingiuriano l’un l’altro «cani», ch’appena ora direbbesi da’ servidori nelle commedie.

[783] Ma, per Dio! qual nome piú propio che di «stoltezza» merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev’essere costretto da Achille a far suo dovere di restituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d’Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell’esercito greco con una crudelissima pestilenza? e, stimando d’esservi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi in onore con usar una giustizia ch’andasse di séguito a sí fatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, il qual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustato dipartendosi con le sue genti e con le sue navi, Ettorre facesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati? Ecco l’Omero finor creduto ordinatore della greca polizia o sia civiltá, che da tal fatto incomincia il filo con cui tesse tutta l’Iliade, i cui principali personaggi sono un tal capitano ed un tal eroe, quale noi facemmo vedere Achille ove ragionammo dell’Eroismo de’ primi popoli! Ecco l’Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poetici, come qui dentro il farem vedere, de’ quali gli piú grandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umana civil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapporto alla natura eroica, come si è sopra detto, de’ puntigliosi.

[784] Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d’animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo!

[785] Fanno risentire lo Scaligero quasi tutte le comparazioni prese dalle fiere e da altre selvagge cose. Ma concedasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi meglio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotanto riuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, non è certamente d’ingegno addimesticato

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ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sí varie e sanguinose battaglie, tante, sí diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d’ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimitá dell’Iliade.

[786] La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de’ filosofi, non poteva fingere gli dèi e gli eroi cotanto leggieri, ch’altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, s’acquetano e si tranquillano; — altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d’Italia — nel fin della quale provenne Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie — si legge che Cola di Rienzo — la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero, — mentre mentova l’infelice stato romano oppresso da’ potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime); — al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de’ guai e tutti si sciogliono in allegria; — altri, tutti riposati e quieti, ad un innocente detto d’altrui che lor non vada all’umore, si risentono cotanto e montano in sí cieca collera, che minacciano presente atroce morte a chi ’l disse. Come quel fatto d’Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il quale di notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campo de’ greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar il cadavero, com’altra volta abbiam detto, di Ettorre), l’ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale non gli va a seconda, ch’all’infelicissimo padre cadde innavvedutamente di bocca per la pietá d’un sí valoroso figliuolo, — dimenticato delle santissime leggi dell’ospitalitá; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venuto tutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo; nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re, nulla dalla pietá di tal padre, nulla dalla venerazione

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d’un tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che piú vaglia a muover compatimento; — montato in una collera bestiale, gl’intuona sopra «volergli mozzar la testa»! Nello stesso tempo ch’empiamente ostinato di non rimettere una privata offesa fattagli da Agamennone (la quale, benché stata fuss’ella grave, non era giusto di vendicare con la rovina della patria e di tutta la sua nazione), si compiace, chi porta seco i fati di Troia, che vadano in rovina tutti i greci, battuti miseramente da Ettorre; né pietá di patria, né gloria di nazione il muovono a portar loro soccorso, il quale non porta finalmente che per soddisfare un suo privato dolore, d’aver Ettorre ucciso il suo Patroclo! E della Briseide toltagli nemmeno morto si placa, senonsé l’infelice bellissima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc’anzi ricco e potente Priamo, divenuta misera schiava, fusse sagrificata innanzi al di lui sepolcro, e le di lui ceneri, assetate di vendetta, non insuppasse dell’ultima sua goccia di sangue! Per tacer affatto di quello che non può intendersi: ch’avesse gravitá ed acconcezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in truovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fanciulli, di quante Omero affollò l’altro poema dell’Odissea.

[787] Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi, quali nel libro secondo dimostrammo ne’ Corollari della natura eroica, non posson essere che d’uomini per debolezza di menti quasi fanciulli, per robustezza di fantasia come di femmine, per bollore di passioni come di violentissimi giovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienza riposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per le quali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nella necessitá per la ricerca del vero Omero.

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[Capitolo Secondo]
Della patria d’Omero

[788] Tal fu la sapienza riposta finor creduta d’Omero; ora vediamo della patria. Per la quale contesero quasi tutte le cittá della Grecia, anzi non mancarono di coloro che ’l vollero greco d’Italia, e per determinarla Leone Allacci (De patria Homeri) invano vi s’affatica. Ma, perché non ci è giunto scrittore che sia piú antico d’Omero, come risolutamente il sostiene Giuseffo contro Appione gramatico, e gli scrittori vennero per lunga etá dopo lui, siamo necessitati con la nostra critica metafisica, come sopra un autore di nazione, qual egli è stato tenuto di quella di Grecia, di ritruovarne il vero, e della etá e della patria, da esso Omero medesimo.

[789] Certamente, di Omero autore dell’Odissea siamo assicurati essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodí da quel luogo d’oro dove Alcinoo, re de’ feaci (ora Corfú) ad Ulisse, che vuol partire, offerisce una ben corredata nave de’ suoi vassalli, i quali dice essere spertissimi marinai, che ’l porterebbero, se bisognasse, fin in Eubea (or Negroponto), la quale, coloro ch’avevano per fortuna veduto, dicevano essere lontanissima, come se fusse l’ultima Tule del mondo greco. Dal qual luogo si dimostra con evidenza Omero dell’Odissea essere stato altro da quello che fu autor dell’Iliade; perocché Eubea non era molto lontana da Troia, ch’era posta nell’Asia lungo la riviera dell’Ellesponto, nel cui angustissimo stretto son ora due fortezze che chiamano Dardanelli, e fin al dí d’oggi conservano l’origine della voce «Dardania», che fu l’antico territorio di Troia. E certamente appo Seneca si ha essere stata celebre quistione tra’ greci gramatici: se l’Iliade e l’Odissea fussero d’un medesimo autore.

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[790] La contesa delle greche cittá per l’onore d’aver ciascuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasi ogniuna osservava ne’ di lui poemi e voci e frasi e dialetti ch’eran volgari di ciascheduna.

[791] Lo che qui detto serve per la discoverta del vero Omero.

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[Capitolo Terzo]
Dell’etá d’Omero

[792] Ci assicurano dell’etá d’Omero le seguenti autoritá de’ di lui poemi:

i

[793] Achille ne’ funerali di Patroclo dá a vedere quasi tutte le spezie de’ giuochi, che poi negli olimpici celebrò la coltissima Grecia.

ii

[794] Eransi giá ritruovate l’arti di fondere in bassirilievi, d’intagliar in metalli, come, fralle altre cose, si dimostra con lo scudo d’Achille ch’abbiamo sopra osservato. La pittura non erasi ancor truovata. Perché la fonderia astrae le superficie con qualche rilevatezza, l’intagliatura fa lo stesso con qualche profonditá; ma la pittura astrae le superficie assolute, ch’è difficilissimo lavoro d’ingegno. Onde né Omero né Mosè mentovano cose dipinte giammai: argomento della loro antichitá.

iii

[795] Le delizie de’ giardini d’Alcinoo, la magnificenza della sua reggia e la lautezza delle sue cene ci appruovano che giá i greci ammiravano lusso e fasto.

iv

[796] I fenici giá portavano nelle greche marine avolio, porpora, incenso arabico, di che odora la grotta di Venere; oltracciò, bisso piú sottile della secca membrana d’una cipolla, vesti

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ricamate, e, tra’ doni de’ proci, una da rigalarsi a Penelope, che reggeva sopra una macchina cosí di dilicate molle contesta, che ne’ luoghi spaziosi la dilargassero, e l’assettassero negli angusti. Ritruovato degno della mollezza de’ nostri tempi!

v

[797] Il cocchio di Priamo, con cui si porta ad Achille, fatto di cedro, e l’antro di Calipso ne odora ancor di profumi, il qual è un buon gusto de’ sensi, che non intese il piacer romano quando piú infuriava a disperdere le sostanze nel lusso sotto i Neroni e gli Eliogabali.

vi

[798] Si descrivono dilicatissimi bagni appo Circe.

vii

[799] I servetti de’ proci, belli, leggiadri e di chiome bionde, quali appunto si vogliono nell’amenitá de’ nostri costumi presenti.

viii

[800] Gli uomini come femmine curano la zazzera; lo che Ettorre e Diomede rinfacciano a Paride effemminato.

ix

[801] E, quantunque egli narri i suoi eroi sempre cibarsi di carni arroste, il qual cibo è ’l piú semplice e schietto di tutti gli altri, perché non ha d’altro bisogno che delle brace: il qual costume restò dopo ne’ sagrifizi, e ne restarono a’ romani dette «prosiicia» le carni delle vittime arroste sopra gli altari, che poi si tagliavano per dividersi a’ convitati, quantunque poscia si arrostirono, come le profane, con gli schidoni. Ond’è che Achille, ove dá la cena a Priamo, esso fende l’agnello e

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Patroclo poi l’arroste, apparecchia la mensa e vi pone sopra il pane dentro i canestri; perché gli eroi non celebravano banchetti che non fussero sagrifizi, dov’essi dovevan esser i sacerdoti. E ne restarono a’ latini «epulae», ch’erano lauti banchetti e, per lo piú, che celebravano i grandi; ed «epulum», che dal pubblico si dava al popolo, e la «cena sagra», in cui banchettavano i sacerdoti detti «epulones». Perciò Agamennone esso uccide i due agnelli, col qual sagrifizio consagra i patti della guerra con Priamo. Tanto allora era magnifica cotal idea, ch’ora ci sembra essere di beccaio! Appresso dovettero venire le carni allesse, ch’oltre al fuoco hanno di bisogno dell’acqua, del caldaio e, con ciò, del treppiedi; delle quali Virgilio fa anco cibar i suoi eroi, e gli fa con gli schidoni arrostir le carni. Vennero finalmente i cibi conditi, i quali, oltre a tutte le cose che si son dette, han bisogno de’ condimenti. — Ora, per ritornar alle cene eroiche d’Omero, benché lo piú dilicato cibo de’ greci eroi egli descriva esser farina con cascio e mèle, però per due comparazioni si serve della pescagione; ed Ulisse, fintosi poverello, domandando la limosina ad un de’ proci, gli dice che gli dèi agli re ospitali, o sien caritatevoli co’ poveri viandanti, dánno i mari pescosi, o sia abbondanti di pesci, che fanno la delizia maggior delle cene.

x

[802] Finalmente (quel che piú importa al nostro proposito) Omero sembra esser venuto in tempi ch’era giá caduto in Grecia il diritto eroico e ’ncominciata a celebrarsi la libertá popolare, perché gli eroi contraggono matrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle successioni de’ regni. E cosí dovett’andar la bisogna, perché, lungo tempo innanzi, Ercole, tinto dal sangue del brutto centauro Nesso, e quindi uscito in furore, era morto; cioè, come si è nel libro secondo spiegato, era finito il diritto eroico.

[803] Adunque, volendo noi d’intorno all’etá d’Omero non disprezzare punto l’autoritá, per tutte queste cose osservate e

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raccolte da’ di lui poemi medesimi, e, piú che dall’Iliade, da quello dell’Odissea, che Dionigi Longino stima aver Omero essendo vecchio composto, avvaloriamo l’oppenion di coloro che ’l pongono lontanissimo dalla guerra troiana; il qual tempo corre per lo spazio di quattrocensessant’anni, che vien ad essere circa i tempi di Numa. E pure crediamo di far loro piacere in ciò, che nol poniamo a’ tempi piú a noi vicini, perché dopo i tempi di Numa dicono che Psammetico aprí a’ greci l’Egitto, i quali, per infiniti luoghi dell’Odissea particolarmente, avevano da lungo tempo aperto il commerzio nella loro Grecia a’ fenici; delle relazioni de’ quali, niente meno che delle mercatanzie, com’ora gli europei di quelle dell’Indie, eran i popoli greci giá usi di dilettarsi. Laonde convengano queste due cose: e che Omero egli non vide l’Egitto, e che narra tante cose e di Egitto e di Libia, e di Fenicia e dell’Asia, e sopra tutto d’Italia e di Sicilia, per le relazioni ch’i greci avute n’avevano da’ fenici.

[804] Ma non veggiamo se questi tanti e sí dilicati costumi ben si convengono con quanti e quali selvaggi e fieri egli nello stesso tempo narra de’ suoi eroi, e particolarmente nell’Iliade. Talché,

ne placidis coëant immitia,

sembrano tai poemi essere stati per piú etá e da piú mani lavorati e condotti.

[805] Cosí, con queste cose qui dette della patria e dell’etá del finora creduto, si avanzano i dubbi per la ricerca del vero Omero.

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[Capitolo Quarto]
Dell’innarrivabile facultá poetica eroica d’Omero

[806] Ma la niuna filosofia, che noi abbiamo sopra dimostrato d’Omero e le discoverte fatte della di lui patria ed etá, che ci pongono in un forte dubbio che non forse egli sia stato un uomo affatto volgare, troppo ci son avvalorate dalla disperata difficultá, che propone Orazio nell’Arte poetica, di potersi dopo Omero fingere caratteri, ovvero personaggi di tragedie, di getto nuovi, ond’esso a’ poeti dá quel consiglio di prenderglisi da’ poemi d’Omero. Ora cotal disperata difficultá si combini con quello: ch’i personaggi della commedia nuova son pur tutti di getto finti, anzi per una legge ateniese dovette la commedia nuova comparire ne’ teatri con personaggi tutti finti di getto; e sí felicemente i greci vi riuscirono, ch’i latini, nel loro fasto, a giudizio di Fabio Quintiliano, ne disperarono anco la competenza, dicendo: «Cum graecis de comoedia non contendimus».

[807] A tal difficultá d’Orazio aggiugniamo in piú ampia distesa quest’altre due. Delle quali una è: come Omero, ch’era venuto innanzi, fu egli tanto innimitabil poeta eroico, e la tragedia, che nacque dopo, cominciò cosí rozza, com’ogniun sa e noi piú a minuto qui appresso l’osserveremo? L’altra è: come Omero, venuto innanzi alle filosofie ed alle arti poetiche e critiche, fu egli il piú sublime di tutti gli piú sublimi poeti, quali sono gli eroici, e, dopo ritruovate le filosofie e le poetiche e critiche arti, non vi fu poeta, il quale [non] potesse che per lunghissimi spazi tenergli dietro? Ma, lasciando queste due nostre, la difficultá d’Orazio, combinata con quello ch’abbiamo detto della commedia nuova, doveva pure porre in ricerca i Patrizi, gli Scaligeri, i Castelvetri ed altri valenti maestri d’arte poetica d’investigarne la ragion della differenza.

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[808] Cotal ragione non può rifondersi altrove che nell’origine della poesia, sopra qui scoverta nella Sapienza poetica, e ’n conseguenza nella discoverta de’ caratteri poetici, ne’ quali unicamente consiste l’essenza della medesima poesia. Perché la commedia nuova propone ritratti de’ nostri presenti costumi umani, sopra i quali aveva meditato la socratica filosofia, donde dalle di lei massime generali d’intorno all’umana morale poterono i greci poeti, in quella addottrinati profondamente (quale Menandro, a petto di cui Terenzio da essi latini fu detto «Menandro dimezzato»); poterono, dico, fingersi cert’esempli luminosi di uomini d’idea, al lume e splendor de’ quali si potesse destar il volgo, il quale tanto è docile ad apprendere da’ forti esempli quanto è incapace d’apparare per massime ragionate. La commedia antica prendeva argomenti ovvero subietti veri e gli metteva in favola quali essi erano, come per una il cattivo Aristofane mise in favola il buonissimo Socrate e ’l rovinò. Ma la tragedia caccia fuori in iscena odi, sdegni, collere, vendette eroiche (ch’escano da nature sublimi, dalle quali naturalmente provengano sentimenti, parlari, azioni in genere, di ferocia, di crudezza, di atrocitá) vestiti di maraviglia; e tutte queste cose sommamente conformi tra loro ed uniformi ne’ lor subietti, i quali lavori si seppero unicamente fare da’ greci ne’ loro tempi dell’eroismo, nel fine de’ quali dovette venir Omero. Lo che con questa critica metafisica si dimostra: che le favole, le quali sul loro nascere eran uscite diritte e convenevoli, elleno ad Omero giunsero e torte e sconce; come si può osservare per tutta la Sapienza poetica sopra qui ragionata, che tutte dapprima furono vere storie, che tratto tratto s’alterarono e si corruppero, e cosí corrotte finalmente ad Omero pervennero. Ond’egli è da porsi nella terza etá de’ poeti eroici: dopo la prima, che ritruovò tali favole in uso di vere narrazioni, nella prima propia significazione della voce μῦθος, che da essi greci è diffinita «vera narrazione»; la seconda di quelli che l’alterarono e le corruppero; la terza, finalmente, d’Omero, che cosí corrotte le ricevé.

[809] Ma, per richiamarci al nostro proponimento, per la ragione

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da noi di tal effetto assegnata, Aristotile nella Poetica dice che le bugie poetiche si seppero unicamente ritruovare da Omero, perché i di lui caratteri poetici, che in una sublime acconcezza sono incomparabili, quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici, quali sopra si sono nella Metafisica poetica diffiniti, a’ quali i popoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun d’essi generi. Come ad Achille, ch’è ’l subbietto dell’Iliade, attaccarono tutte le propietá della virtú eroica e tutt’i sensi e costumi uscenti da tali propietá di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici, implacabili, violenti, ch’arrogano tutta la ragione alla forza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descrive il carattere. Ad Ulisse, ch’è ’l subbietto dell’Odissea, appiccarono tutti quelli dell’eroica sapienza, cioè tutti i costumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, ingannevoli, salva sempre la propietá delle parole e l’indifferenza dell’azioni, ond’altri da se stessi entrasser in errore e s’ingannassero da se stessi. E ad entrambi tali caratteri attaccarono l’azioni de’ particolari, secondo ciascun de’ due generi, piú strepitose, le qual’i greci, ancora storditi e stupidi, avessero potuto destar e muover ad avvertirle e rapportarle a’ loro generi. I quali due caratteri, avendogli formati tutta una nazione, non potevano non fingersi che naturalmente uniformi (nella quale uniformitá, convenevole al senso comune di tutta una nazione, consiste unicamente il decoro, o sia la bellezza e leggiadria d’una favola); e, perché si fingevano da fortissime immaginative, non si potevano fingere che sublimi. Di che rimasero due eterne propietá in poesia: delle quali una è che ’l sublime poetico debba sempre andar unito al popolaresco; l’altra, ch’i popoli, i quali prima si lavoraron essi i caratteri eroici, ora non avvertono a’ costumi umani altrimente che per caratteri strepitosi di luminosissimi esempli.
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[Capitolo Quinto]
Pruove filosofiche per la discoverta del vero Omero

[810] Le quali cose stando cosí, vi si combinino queste pruove filosofiche:

i

[811] Quella che si è sopra tralle Degnitá noverata: che gli uomini sono naturalmente portati a conservare le memorie degli ordini e delle leggi che gli tengono dentro le loro societá.

ii

[812] Quella veritá ch’intese Lodovico Castelvetro: che prima dovette nascere l’istoria, dopo la poesia; perché la storia è una semplice enonziazione del vero, ma la poesia è una imitazione di piú. E l’uomo, per altro acutissimo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri princípi della poesia, col combinarvi questa pruova filosofica, che qui si pone per

iii

[813] Ch’essendo stati i poeti certamente innanzi agli storici volgari, la prima storia debba essere la poetica.

iv

[814] Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde μῦθος, la favola, fu diffinita «vera narratio», come abbiamo sopra piú volte detto); le quali nacquero dapprima per lo piú sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di lá

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scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultá delle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto il secondo libro.

v

[815] E, come nel medesimo libro si è dimostrato, cosí guaste e corrotte da Omero furono ricevute.

vi

[816] Che i caratteri poetici, ne’ quali consiste l’essenza delle favole, nacquero da necessitá di natura, incapace d’astrarne le forme e le propietá da’ subbietti; e, ’n conseguenza, dovett’essere maniera di pensare d’intieri popoli, che fussero stati messi dentro tal necessitá di natura, ch’è ne’ tempi della loro maggior barbarie. Delle quali è eterna propietá d’ingrandir sempre l’idee de’ particolari: di che vi ha un bel luogo d’Aristotile ne’ Libri morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d’ogni particolare fan massime. Del qual detto dev’essere la ragione: perché la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de’ sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia ingrandir essi particolari. Onde forse, appresso i poeti greci egualmente e latini, le immagini come degli dèi cosí degli eroi compariscono sempre maggiori di quelle degli uomini; e ne’ tempi barbari ritornati le dipinture, particolarmente del Padre eterno, di Gesú Cristo, della Vergine Maria, si veggono d’una eccedente grandezza.

vii

[817] Perché i barbari mancano di riflessione, la qual, mal usata, è madre della menzogna, i primi poeti latini eroici cantaron istorie vere, cioè le guerre romane. E ne’ tempi barbari ritornati, per sí fatta natura della barbarie, gli stessi poeti latini

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non cantaron altro che istorie, come furon i Gunteri, i Guglielmi pugliesi ed altri; e i romanzieri de’ medesimi tempi credettero di scriver istorie vere: onde il Boiardo, l’Ariosto, venuti in tempi illuminati dalle filosofie, presero i subbietti de’ lor poemi dalla storia di Turpino, vescovo di Parigi. E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond’ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de’ trappassati, e perciò diede al poema il titolo di «commedia», qual fu l’antica de’ greci, che, come sopra abbiam detto, poneva persone vere in favola. E Dante somigliò in questo l’Omero dell’Iliade, la quale Dionigi Longino dice essere tutta «dramatica» o sia rappresentativa, come tutta «narrativa» essere l’Odissea. E Francesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne’ Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie. E qui nasce una luminosa pruova di ciò: che le prime favole furon istorie. Perché la satira diceva male di persone non solo vere, ma, di piú, conosciute; la tragedia prendeva per argomenti personaggi della storia poetica; la commedia antica poneva in favola chiari personaggi viventi; la commedia nuova, nata a’ tempi della piú scorta riflessione, finalmente finse personaggi tutti di getto (siccome nella lingua italiana non ritornò la commedia nuova che incominciando il secolo a maraviglia addottrinato del Cinquecento): né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio che fusse il principale subbietto d’una tragedia. E ’l gusto del volgo gravemente lo ci conferma, che non vuole drami per musica, de’ quali gli argomenti son tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intanto sopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, essendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri.
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viii

[818] Essendo tali stati i caratteri poetici, di necessitá le loro poetiche allegorie, come si è sopra dimostro per tutta la Sapienza poetica, devon unicamente contenere significati istorici de’ primi tempi di Grecia.

ix

[819] Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da’ comuni de’ popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare (come piú volte sopra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a’ loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultá appartengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò «memoria» dicesi da’ latini (come appo Terenzio truovasi «memorabile» in significato di «cosa da potersi immaginare», e volgarmente «comminisci» per «fingere», ch’è propio della fantasia, ond’è «commentum», ch’è un ritruovato finto); e «fantasia» altresí prendesi per l’ingegno (come ne’ tempi barbari ritornati si disse «uomo fantastico» per significar «uomo d’ingegno», come si dice essere stato Cola di Rienzo dall’autore contemporaneo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differenze: ch’è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l’altera e contrafá; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagioni i poeti teologi chiamarono la Memoria «madre delle muse».

21 ―

x

[820] Perciò i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni: ch’è quello ond’il Castelvetro non seppe far uso del suo detto per rinvenire le vere origini della poesia; ché ed esso e tutti gli altri che ne han ragionato (infino da Aristotile e da Platone) potevano facilmente avvertire che tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princípi, come l’abbiamo nelle Degnitá proposto e nella Sapienza poetica dimostrato.

xi

[821] Che la ragion poetica determina esser impossibil cosa ch’alcuno sia e poeta e metafisico egualmente sublime, perché la metafisica astrae la mente da’ sensi, la facultá poetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi; la metafisica s’innalza sopra gli universali, la facultá poetica deve profondarsi dentro i particolari.

xii

[822] Che, ’n forza di quella degnitá sopra posta: — che ’n ogni facultá può riuscire con l’industria chi non vi ha la natura, ma in poesia è affatto niegato a chi non vi ha la natura di potervi riuscir con l’industria, — l’arti poetiche e l’arti critiche servono a fare colti gl’ingegni, non grandi. Perché la dilicatezza è una minuta virtú, e la grandezza naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi, come grande rovinoso torrente non può far di meno di non portar seco torbide l’acque e rotolare e sassi e tronchi con la violenza del corso, cosí sono le cose vili dette, che si truovano sí spesso in Omero.

xiii

[823] Ma queste non fanno che Omero egli non sia il padre e ’l principe di tutti i sublimi poeti.

22 ―

xiv

[824] Perché udimmo Aristotile stimar innarrivabili le bugie omeriche; ch’è lo stesso che Orazio stima innimitabili i di lui caratteri.

xv

[825] Egli è infin al cielo sublime nelle sentenze poetiche, ch’abbiam dimostrato, ne’ Corollari della natura eroica nel libro secondo, dover esser concetti di passioni vere o che in forza d’un’accesa fantasia ci si facciano veramente sentire, e perciò debbon esser individuate in coloro che le sentono. Onde diffinimmo che le massime di vita, perché sono generali, sono sentenze di filosofi; e le riflessioni sopra le passioni medesime sono di falsi e freddi poeti.

xvi

[826] Le comparazioni poetiche prese da cose fiere e selvagge, quali sopra osservammo, sono incomparabili certamente in Omero.

xvii

[827] L’atrocitá delle battaglie omeriche e delle morti, come pur sopra vedemmo, fanno all’Iliade tutta la maraviglia.

xviii

[828] Ma tali sentenze, tali comparazioni, tali descrizioni pur sopra pruovammo non aver potuto essere naturali di riposato, ingentilito e mansueto filosofo.

xix

[829] Che i costumi degli eroi omerici sono di fanciulli per la leggerezza delle menti, di femmine per la robustezza della fantasia,

23 ―
di violentissimi giovani per lo fervente bollor della collera, come pur sopra si è dimostrato, e, ’n conseguenza, impossibili da un filosofo fingersi con tanta naturalezza e felicitá.

xx

[830] Che l’inezie e sconcezze sono, come pur si è qui sopra pruovato, effetti dell’infelicitá, di che avevano travagliato, nella somma povertá della loro lingua, mentre la si formavano, i popoli greci, a spiegarsi.

xxi

[831] E contengansi pure gli piú sublimi misteri della sapienza riposta, i quali abbiamo dimostrato nella Sapienza poetica non contenere certamente: come suonano, non posson essere stati concetti di mente diritta, ordinata e grave, qual a filosofo si conviene.

xxii

[832] Che la favella eroica, come si è sopra veduto nel libro secondo, nell’Origini delle lingue, fu una favella per simiglianze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi e di spezie, ch’abbisognano per diffinire le cose con propietá, e, ’n conseguenza, nata per necessitá di natura comune ad intieri popoli.

xxiii

[833] Che per necessitá di natura, come anco nel libro secondo si è detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare piú facilmente le loro storie famigliari e civili.

24 ―

xxiv

[834] Che tali favole, tali sentenze, tali costumi, tal favella, tal verso si dissero tutti «eroici», e si celebrarono ne’ tempi ne’ quali la storia ci ha collocato gli eroi, com’appieno si è dimostrato sopra nella Sapienza poetica.

xxv

[835] Adunque tutte l’anzidette furono propietá d’intieri popoli e, ’n conseguenza, comuni a tutti i particolari uomini di tali popoli.

xxvi

[836] Ma noi, per essa natura, dalla quale son uscite tutte l’anzidette propietá, per le quali egli fu il massimo de’ poeti, niegammo che Omero fusse mai stato filosofo.

xxvii

[837] Altronde dimostrammo sopra nella Sapienza poetica che i sensi di sapienza riposta da’ filosofi, i quali vennero appresso, s’intrusero dentro le favole omeriche.

xxviii

[838] Ma, siccome la sapienza riposta non è che di pochi uomini particolari, cosí il solo decoro de’ caratteri poetici eroici, ne’ quali consiste tutta l’essenza delle favole eroiche, abbiamo testé veduto che non posson oggi conseguirsi da uomini dottissimi in filosofie, arti poetiche ed arti critiche. Per lo qual decoro dá Aristotile il privilegio ad Omero d’esser innarrivabili le di lui bugie; ch’è lo stesso che quello, che gli dá Orazio, d’esser innimitabili i di lui caratteri.

25 ―

[Capitolo Sesto]
Pruove filologiche per la discoverta del vero Omero

[839] Con questo gran numero di pruove filosofiche, fatte buona parte in forza della critica metafisica sopra gli autori delle nazioni gentili, nel qual numero è da porsi Omero, perocché non abbiamo certamente scrittor profano che sia piú antico di lui, come risolutamente il sostiene Giuseffo ebreo, si congiugnan ora queste pruove filologiche:

i

[840] Che tutte l’antiche storie profane hanno favolosi i princípi.

ii

[841] Che i popoli barbari, chiusi a tutte l’altre nazioni del mondo, come furono i Germani antichi e gli americani, furono ritruovati conservar in versi i princípi delle loro storie, conforme si è sopra veduto.

iii

[842] Che la storia romana si cominciò a scrivere da’ poeti.

iv

[843] Che ne’ tempi barbari ritornati i poeti latini ne scrissero l’istorie.

26 ―

v

[844] Che Maneto, pontefice massimo egizio, portò l’antichissima storia egiziaca scritta per geroglifici ad una sublime teologia naturale.

vi

[845] E nella Sapienza poetica tale dimostrammo aver fatto i greci filosofi dell’antichissima storia greca narrata per favole.

vii

[846] Onde noi sopra, nella Sapienza poetica, abbiam dovuto tenere un cammino affatto retrogrado da quello ch’aveva tenuto Maneto, e dai sensi mistici restituir alle favole i loro natii sensi storici; e la naturalezza e facilitá, senza sforzi, raggiri e contorcimenti, con che l’abbiam fatto, appruova la propietá dell’allegorie storiche che contenevano.

viii

[847] Lo che gravemente appruova ciò che Strabone in un luogo d’oro afferma: prima d’Erodoto, anzi prima d’Ecateo milesio, tutta la storia de’ popoli della Grecia essere stata scritta da’ lor poeti.

ix

[848] E noi nel libro secondo dimostrammo i primi scrittori delle nazioni cosí antiche come moderne essere stati poeti.

x

[849] Vi sono due aurei luoghi nell’Odissea, dove, volendosi acclamar ad alcuno d’aver lui narrato ben un’istoria, si dice

27 ―
averla raccónta da musico e da cantore. Che dovetter esser appunto quelli che furon i suoi rapsodi, i quali furon uomini volgari, che partitamente conservavano a memoria i libri dei poemi omerici.

xi

[850] Che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi, come piú volte l’hacci detto risolutamente Flavio Giuseffo ebreo contro Appione, greco gramatico.

xii

[851] Ch’i rapsodi partitamente, chi uno, chi altro, andavano cantando i libri d’Omero nelle fiere e feste per le cittá della Grecia.

xiii

[852] Che dall’origini delle due voci, onde tal nome «rapsodi» è composto, erano «consarcinatori di canti», che dovettero aver raccolto non da altri certamente che da’ loro medesimi popoli: siccome ὅμηρος vogliono pur essersi detta da ὁμού,/ «simul», ed εἴρειν, «connectere», ove significa il «mallevadore», perocché leghi insieme il creditore col debitore. La qual origine è cotanto lontana e sforzata quanto è agiata e propia per significare l’Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore di favole.

xiv

[853] Che i Pisistratidi, tiranni d’Atene, eglino divisero e disposero, o fecero dividere e disponere, i poemi d’Omero nell’Iliade e nell’Odissea: onde s’intenda quanto innanzi dovevan essere stati una confusa congerie di cose, quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell’uno e dell’altro poema omerico.

28 ―

xv

[854] Che gli stessi Pisistratidi ordinarono ch’indi in poi da’ rapsodi fussero cantati nelle feste panatenaiche, come scrive Cicerone, De natura deorum, ed Eliano, in ciò seguíto dallo Scheffero.

xvi

[855] Ma i Pisistratidi furono cacciati da Atene pochi anni innanzi che lo furon i Tarquini da Roma: talché, ponendosi Omero a’ tempi di Numa, come abbiam sopra pruovato, pur dovette correre lunga etá appresso ch’i rapsodi avessero seguitato a conservar a memoria i di lui poemi. La qual tradizione toglie affatto il credito all’altra di Aristarco ch’a’ tempi de’ Pisistratidi avesse fatto cotal ripurga, divisione ed ordinamento de’ poemi d’Omero, perché ciò non si poté fare senza la scrittura volgare, e sí da indi in poi non vi era bisogno piú de’ rapsodi che gli cantassero per parti ed a mente.

xvii

[856] Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poiché non abbiamo autoritá che da’ rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, e da’ cronologi, con una vanissima diligenza, è posto trent’anni innanzi d’Omero, si dee porre dopo de’ Pisistratidi. Se non pure, qual’i rapsodi omerici, tali furono i poeti ciclici, che conservarono tutta la storia favolosa de’ greci dal principio de’ loro dèi fin al ritorno d’Ulisse in Itaca. I quali poeti, dalla voce κύκλος, non poteron esser altri ch’uomini idioti che cantassero le favole a gente volgare raccolta in cerchio il dí di festa; qual cerchio è quell’appunto che Orazio nell’Arte dice «vilem patulumque orbem» che ’l Dacier punto non riman soddisfatto de’ commentatori, ch’Orazio ivi voglia dir «i lunghi episodi». E forse la ragione di punto non soddisfarsene ella è questa: perché non è necessario

29 ―
che l’episodio d’una favola, perocché sia lungo, debba ancor esser vile: come, per cagion d’esemplo, quelli delle delizie di Rinaldo con Armida nel giardino incantato e del ragionamento che fa il vecchio pastore ad Erminia sono lunghi bensí, ma pertanto non sono vili, perché l’uno è ornato, l’altro è tenue o dilicato, entrambi nobili. Ma ivi Orazio, avendo dato l’avviso a’ poeti tragici di prendersi gli argomenti da’ poemi di Omero, va incontro alla difficultá, ch’in tal guisa essi non sarebbon poeti, perché le favole sarebbero le ritruovate da Omero. Però Orazio risponde loro che le favole epiche d’Omero diverranno favole tragiche propie, se essi staranno sopra questi tre avvisi. De’ quali il primo è: se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l’Orlando furioso o innamorato o altro romanzo in rima a’ vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dí delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con piú parole; — il secondo, se non ne saranno fedeli traduttori; — il terzo ed ultimo avviso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori, ma, seguitando i costumi ch’Omero attribuisce a’ suoi eroi, eglino da tali stessi costumi faranno uscire altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sí circa i medesimi subietti saranno altri poeti da Omero. Cosí nella stess’Arte lo stesso Orazio chiama «poeta ciclico» un poeta triviale e da fiera. Sí fatti autori ordinariamente si leggono detti κύκλιοι ed ἐγκύκλιοι e la loro raccolta ne fu detta κύκλος ἐπικός, κύκλια ἔπη, ποίημα ἐγκύκλικον e, senz’aggiunta alcuna, talora κύκλος, come osserva Gerardo Langbenio nella sua prefazione a Dionigi Longino. Talché di questa maniera può essere ch’Esiodo, il quale contiene tutte favole di dèi, egli fusse stato innanzi d’Omero.

xviii

[857] Per questa ragione lo stesso è da dirsi d’Ippocrate, il quale lasciò molte e grandi opere scritte non giá in verso ma in prosa, che perciò naturalmente non si potevano conservar a memoria: ond’egli è da porsi circa i tempi d’Erodoto.

30 ―

xix

[858] Per tutto ciò il Vossio troppo di buona fede ha creduto confutare Giuseffo con tre iscrizioni eroiche, una d’Anfitrione, la seconda d’Ippocoonte, la terza di Laomedonte (imposture somiglianti a quelle che fanno tuttavia i falsatori delle medaglie); e Martino Scoockio assiste a Giuseffo contro del Vossio.

xx

[859] A cui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di lettere greche volgari, e la lettera da Preto scritta ad Euria, insidiosa a Bellerofonte, come abbiamo altra volta sopra osservato, dice essere stata scritta per σήματα.^/

xxi

[860] Che Aristarco emendò i poemi d’Omero, i quali pure ritengono tanta varietá di dialetti, tante sconcezze di favellari, che deon essere stati vari idiotismi de’ popoli della Grecia e tante licenze eziandio di misure.

xxii

[861] Di Omero non si sa la patria, come si è sopra notato.

xxiii

[862] Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino, come si è osservato pur sopra.

xxiv

[863] Sopra si son arrecate forti congetture l’Omero dell’Odissea essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodí, e quello dell’Iliade essere stato dell’oriente verso settentrione.

31 ―

xxv

[864] Non se ne sa nemmeno l’etá.

xxvi

[865] E l’oppenioni ne sono sí molte e cotanto varie, che ’l divario è lo spazio di quattrocensessant’anni, ponendolo, dalle sommamente opposte tra loro, una a’ tempi della guerra di Troia, l’altra verso i tempi di Numa.

xxvii

[866] Dionigi Longino, non potendo dissimulare la gran diversitá degli stili de’ due poemi, dice che Omero essendo giovine compose l’Iliade e vecchio poi l’Odissea: particolaritá invero da sapersi di chi non si seppero le due cose piú rilevanti nella storia, che sono prima il tempo e poi il luogo, delle quali ci ha lasciato al buio, ove ci narra del maggior lume di Grecia.

xxviii

[867] Lo che dee togliere tutta la fede ad Erodoto, o chi altro ne sia l’autore, nella Vita d’Omero, ove ne racconta tante belle varie minute cose, che n’empie un giusto volume; ed alla Vita che ne scrisse Plutarco, il qual, essendo filosofo, ne parlò con maggiore sobrietá.

xxix

[868] Ma forse Longino formò cotal congettura, perché Omero spiega nell’Iliade la collera e l’orgoglio d’Achille, che sono propietá di giovani, e nell’Odissea narra le doppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi di vecchi.

32 ―

xxx

[869] È pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecitá prese sí fatto nome, ch’in lingua ionica vuol dir «cieco».

xxxi

[870] Ed Omero stesso narra ciechi i poeti che cantano nelle cene de’ grandi, come cieco colui che canta in quella che dá Alcinoo ad Ulisse, e pur cieco l’altro che canta nella cena de’ proci.

xxxii

[871] Ed è propietá di natura umana ch’i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria.

xxxiii

[872] E finalmente ch’egli fu povero e andò per gli mercati di Grecia cantando i suoi propi poemi.

33 ―

[SEZIONE SECONDA] Discoverta del vero Omero


[Introduzione]

[873] Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate da altri d’intorno ad Omero e i di lui poemi, senza punto averloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno avevamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo col quale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi ingegni d’uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, con leggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospettarono che Omero finor creduto non fusse vero: tutte queste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che tale sia adivenuto di Omero appunto quale della guerra troiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de’ tempi alla storia, pur i critici piú avveduti giudicano che quella non mai siesi fatta nel mondo. E certamente, se, come della guerra troiana, cosí di Omero non fussero certi grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, a tante difficultá si direbbe che Omero fusse stato un poeta d’idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Ma tali e tante difficultá, e insiememente i poemi di lui pervenutici, sembrano farci cotal forza d’affermarlo per la metá: che quest’Omero sia egli stato un’idea ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie.

34 ―

[Capitolo Primo]
Le sconcezze e inverisimiglianze dell’Omero finor creduto divengono nell’Omero qui scoverto convenevolezze e necessitá.

[874] Per sí fatta discoverta tutte le cose e discorse e narrate, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell’Omero finor creduto, divengono nell’Omero qui ritruovato tutte convenevolezze e necessitá. E primieramente le stesse cose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano a dire:

i

[875] Che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest’Omero.

ii

[876] Che perciò varino cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui etá, perché un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocensessant’anni.

iii

[877] E la cecitá

iv

[878] e la povertá d’Omero furono de’ rapsodi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse «omèro», prevalevano

35 ―
nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le cittá della Grecia, de’ quali essi eran autori, perch’erano parte di que’ popoli che vi avevano composte le loro istorie.

v

[879] Cosí Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, ’n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generositá; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocitá: a’ tempi d’Omero vecchio giá gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultá poté tanto nel divino Platone, che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, cosí, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltá, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella piú s’avacciassero.

vi

[880] In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliade avere di molt’etá preceduto l’Omero autore dell’Odissea.

36 ―

vii

[881] Si dimostra che quello fu dell’oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell’occidente di Grecia verso mezzodí, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo regno.

viii

[882] Cosí Omero, sperduto dentro la folla de’ greci popoli, si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da’ critici, e particolarmente:

ix

[883] delle vili sentenze,

x

[884] de’ villani costumi,

xi

[885] delle crude comparazioni,

xii

[886] degl’idiotismi,

xiii

[887] delle licenze de’ metri,

xiv

[888] dell’incostante varietá de’ dialetti,

37 ―

xv

[889] e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini.

[890] Le quali favole Dionigi Longino non si fida di sostenere che co’ puntelli dell’allegorie filosofiche; cioè a dire che, come suonano cantate a’ greci, non possono avergli produtto la gloria d’essere stato l’ordinatore della greca civiltá. La qual difficultá ricorre in Omero la stessa, che noi sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica facemmo contro d’Orfeo, detto il fondatore dell’umanitá della Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietá di essi popoli greci, e particolarmente l’ultima: ché, nel fondarsi, come la teogonia naturale sopra l’ha dimostrato, i greci di sé, pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnanimi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni, con l’oscurarsi le favole e col corrompersi de’ costumi, come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé, dissoluti estimaron gli dèi, — per quella degnitá, la qual è stata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attirano le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilitá, — perché temevano gli dèi contrari a’ loro voti, se fussero stati contrari a’ di loro costumi, com’altra volta si è detto.

xvi

[891] Ma di piú appartengono ad Omero per giustizia i due grandi privilegi, che ’n fatti son uno, che gli dánno Aristotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratteri eroici solamente si seppero finger da Omero. Onde Orazio stesso si professa di non esser poeta, perché o non può o non sa osservare quelli che chiama «colores operum», che tanto suona quanto le «bugie poetiche», le quali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge «obtinere colorem» nel sentimento di «dir bugia che per tutti gli aspetti abbia faccia di veritá», qual dev’esser la buona favola.

38 ―

[892] Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privilegi, ch’a lui dánno tutti i maestri d’arte poetica, d’essere stato incomparabile:

xvii

[893] in quelle sue selvagge e fiere comparazioni,

xviii

[894] in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti,

xix

[895] in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi,

xx

[896] in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono propietá dell’etá eroica de’ greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta; perché, nell’etá della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo.

xxi

[897] Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, poterono far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero.

[898] E, quel ch’è piú, egli fa certo acquisto degli tre immortali elogi, che gli son dati:

xxii

[899] primo, d’essere stato l’ordinatore della greca polizia o sia civiltá;

39 ―

xxiii

[900] secondo, d’essere stato il padre di tutti gli altri poeti;

xxiv

[901] terzo, d’essere stato il fonte di tutte le greche filosofie: niuno de’ quali all’Omero finor creduto poteva darsi. Non lo primo, perché, da’ tempi di Deucalione e Pirra, vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi incominciata co’ matrimoni a fondare la greca civiltá, come si è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poetica che la fondò. Non lo secondo, perché prima d’Omero fiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri, tra’ quali i cronologi han posto Esiodo e fattolo di trent’anni prevenir ad Omero; altri poeti eroici innanzi d’Omero sono affermati da Cicerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazione evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demodoco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente il terzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appieno nella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favole omeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro filosofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, diede l’occasioni a’ filosofi di meditare le lor altissime veritá, e diede altresí le comoditá di spiegarle, conforme il promettemmo nel di lui principio e ’l facemmo vedere per tutto il libro secondo.

40 ―

[Capitolo Secondo]
I poemi d’Omero si truovano due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.

[902] Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne una sfolgorantissima lode:

xxv

[903] d’esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilitá;

xxvi

[904] onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salire nell’alto credito d’essere due grandi tesori de’ costumi dell’antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avvenuto de’ poemi d’Omero, che avvenne della legge delle XII Tavole: perché, come queste, essendo state credute leggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venute a’ romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia del diritto naturale delle genti eroiche del Lazio; cosí, perché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d’un uomo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta finor nascosta l’istoria del diritto naturale delle genti di Grecia.

41 ―

[APPENDICE]
Istoria de’ poeti dramatici e lirici ragionata

[905] Giá dimostrammo sopra tre essere state l’etá de’ poeti innanzi d’Omero: la prima de’ poeti teologi, ch’i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda, de’ poeti eroici, che l’alterarono e le corruppero; la terza d’Omero, ch’alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell’oscurissima antichitá, ovvero la spiegazione dell’idee ch’andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de’ poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filosofi.

[906] Essi pongono tra’ lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de’ tempi eroici, e ch’egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che ’l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch’Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l’autore, ove nell’Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l’«Omero de’ tragici»; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama τραγικώτατον. Dicono che dentro la medesima etá provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprí la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la

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commedia d’Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de’ tragici, altri in quello de’ lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne’ tempi de’ sette savi di Grecia.

[907] La qual difficultá per solversi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.

[908] I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl’inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d’Omero, tessuti in verso eroico. Dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra’ latini i primi poeti furono gli autori de’ versi saliari, ch’erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da’ sacerdoti chiamati «salii» (forse detti cosí dal saltare, come saltando in giro s’introdusse il primo coro tra’ greci), i frantumi de’ quali versi sono le piú antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c’hanno un’aria di verso eroico, com’abbiam sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi princípi dell’umanitá delle nazioni, che ne primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a’ tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch’i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne’ tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d’eroi, come gli cantò Achille. Cosí di tal sorta di lirici sagri dovett’esser Anfione metinneo, il qual altresí fu autore del ditirambo; e il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e sí il ditirambo d’Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia.

[909] I nuovi furono i lirici melici, de’ quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso dovette venire dopo

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del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l’eroico. Cosí Pindaro venne ne’ tempi della virtú pomposa di Grecia, ammirata ne’ giuochi olimpici, ne’ quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a’ tempi piú sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne’ di lei tempi piú inteneriti e piú molli.

[910] I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co’ personaggi de’ satiri, ch’in quella rozzezza e semplicitá dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e ’l petto di fecce d’uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente «cornuti»); e sí può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie. E tutto ciò convenevolmente a’ tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d’uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Cosí è forte congettura che, anzi da tal maschera che da ciò: — che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si dice τράγος, — avesse preso il nome la tragedia, e ch’ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest’eterna propietá, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, cosí rozzamente mascherati sopra i carri co’ quali portavano l’uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanza di Bacco», di dire villanie a’ signori. Quindi s’intenda con quanto di veritá poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché πᾶν significa «tutto», ficcarono la mitologia filosofica che significhi l’universo, e che le parti basse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l’elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono

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la mitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse «lex per satyram» quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch’ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de’ latini né de’ greci ce n’è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a’ romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento.

[911] Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d’Anfione, ch’era coro di satiri, in coro d’uomini. E la tragedia mezzana dovett’esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finí la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non piú intervenirvi il coro, ch’è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche.

[912] In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d’esemplo, quando i popoli greci giá parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch’è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch’Orazio chiama «presto» (lo che in una degnitá si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l’acerbezza de’ versi avesse ridutti la figliuola col padre alla disperazion d’afforcarsi: che

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dev’esser un’istoria di contesa eroica d’intorno a’ connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole.

[913] Quindi esce quel mostro d’arte poetica, ch’un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima piú grande dell’epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenitá.

[914] Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tragici» fecero porre Ippocrate a’ tempi de’ sette savi; il quale dev’esser posto circa i tempi d’Erodoto, perché venne in tempi ch’ancora si parlava buona parte per favole (com’è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co’ quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto.

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