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Giambattista Vico: Opere
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IV-2: La Scienza Nuova (II) (giusta l'edizione del 1744)
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Appendice
Il Fine
II [CMA3] Ragionamento secondo

II [CMA3] Ragionamento secondo

d’intorno alla legge regia di Triboniano
[Capitolo Primo]
[D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie]

[1455] Ma non altronde si può con maggior evidenza intendere questa gran veritá: ch’ove si parla con falsi princípi, perché dal falso non può nascere che piú enorme falso, non vi ha cosa tanto sconcia, ridevole, mostruosa, la qual non si dica seriosamente e si riceva con gravitá. Tutti gl’interpetri eruditi delle leggi romane, senza punto riflettere alla Storia augusta e senza combinarla con la favola della legge regia, da Triboniano detta una volta apertamente nell’Istituta, un’altra volta nascosta sotto la maschera di Ulpiano nelli Digesti (il qual grecuzzo fu piú ignorante delle cose romane che non fu Pietro, Martino ed altri primi barbari glossatori), hanno ricevuto con tanta sicurezza con l’odiosissima nominazione di «regia» (errore affatto somigliante a quell’altro della legge detta «tribunizia» da Pomponio, con la quale Giunio Bruto dichiarò gli re eternalmente discacciati da Roma, il quale errore abbiamo noi sopra giá confutato); quando apertamente Cornelio Tacito, parlando di Augusto, dice da lui «non regno neque dictatura, sed principis nomine rempublicam constitutam>», ben avvisato il saggio principe che la dittatura fu infausta a Cesare e che ’l nome di «re» era tanto da’ romani abborrito, che, mentre, per concertato tra loro,

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Marc’Antonio vuol coronar Cesare nella ringhiera onde questi ragionava al popolo, per fare sperienza come il ricevesse il popolo romano, nella ragunanza, nella quale, per Triboniano, egli comandò la legge regia, se n’udi tanto fremito, che Cesare, temendo, ne fece accortamente un disdegnoso rifiuto. Perché, fin da’ tempi de’ tiranni Tarquini cacciati da Roma, il nome di «re» e la corona reale tanto pubblicamente furono condennati, che per la sola certezza della religione «re delle cose sagre» ne restò detto il capo de’ feciali, ma per altro tenuto a vilissimo conto; e i sacerdoti, i quali appo tutte le nazioni antiche andarono coronati, indi in poi usarono cingersi il capo d’un sottil filo di lana, dal quale vogliono i latini etimologi essere poi stati detti «flamines», quasi «filamines».

[1456] E non per altro lo stesso politico narra l’ultime cose d’Augusto che per cominciare gli Annali dallo stato monarchico, il quale si stabilí in Roma co’ trent’anni di pace che fece Augusto godere a tutto il mondo romano; per dare gli avvisi necessari a’ principi come nelle repubbliche libere, tutte guaste e corrotte dalle civili guerre, possano stabilirsi monarchi: tra’ quali avvisi importantissimo è quello che serbino «eadem magistratuum vocabula», perch’è natura del volgo di risentirsi al nuovo suono delle parole e di nulla penetrar nelle cose. Perlocché Augusto non si prese altro titolo che di «tribunizia potestá», la quale dasse ad intendere che fusse una possanza di fatto, con cui egli era protettore della romana libertá, per non ingelosir il popolo ch’egli gli attentasse nulla della ragion dell’imperio, siccome i tribuni della plebe non ebber alcun imperio giammai, conforme si è nell’opera dimostrato. Ed esso Augusto ed i principi romani per gli primi tempi con la «tribunizia potestá» numeravano gli anni del principato; e, lunga etá appresso, come Tacito il narra espressamente di Otone, non di altro erano soleciti gl’imperadori che dal senato fusse loro cotal titolo decretato, per legittimarsi giusti successori dell’imperio. Anzi Tiberio, avendogli il senato offerto il titolo di «dominus», perché gli donava ciò che non era suo e ’l dono era invidioso al popolo, l’accorto principe, perché questi non se n’offendesse, faccendo sembiante di modesto, nol volle ricevere, dicendo ch’esso era principe di cittadini, non signore di schiavi. E la natura istessa delle cose civili diede agl’imperadori un titolo cosí fatto di «protettori della popolare libertá de’ romani». Imperciocché, la civil libertá conservandosi con le leggi, per quel detto di Cicerone veramente

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d’oro: «ideo legum servi sumus, ut liberi esse possimus» — la qual libertá il popolo romano aveva perduto, perché aveva fatto le leggi servir all’armi, con le quali s’andava a perdere nelle guerre civili, — essi romani principi, da Augusto incominciando, si posero in mano la forza dell’armi per far goder a’ romani l’ugualitá delle leggi (ch’è una delle massime propietá della monarchia: che sieno i potenti a’ deboli con le leggi uguagliati e ’l solo monarca vi sia in civil natura distinto); con la qual ugualitá quelli romani, ch’in pochi altri anni si sarebbero tutti spenti con altre guerre civili, si salvarono e vissero tanti secoli appresso in luminosissima nazione. Ch’è l’eterna natural legge regia ch’abbiamo ragionata nel quarto libro, con cui le nazioni dentro essoloro medesime vanno a fondarsi le monarchie.

[1457] Perché ’l marmo capitolino, ch’arrecano per pruovare tal favola altro non contiene ch’una formola di giuramento di fedeltá che ’l senato dava agl’imperadori (e quindi a poco vedremo con quanta libertá se ’l facesse). Se non pure, prima il senato portava ne’ rostri le formole delle leggi che ’l popolo voleva comandare: in questa il popolo portò la formola nella curia, acciocché la comandasse il senato. E quindi si veda che assurdo: che, mentre gli eruditi si sforzano col marmo capitolino legittimare la monarchia, fanno la romana repubblica da libera popolare divenir aristocratica!

[1458] Ma essi, da un certo senso occulto rimorsi, non soddisfaccendosi del marmo capitolino, si disperano che non truovano una qualche medaglia che gli accertasse del tempo di cotal legge. Poiché altri, niegandolo di quelli d’Augusto, la vogliono comandata a’ tempi di Tiberio, sotto di cui gli piú nobili romani vilissimamente inchinavano l’atroce fasto di un gentilominuzzo di Volsena, Elio Seiano; altri la richiamano a’ tempi di Claudio, sotto il quale i signori delle piú splendide case romane si recavano a somma fortuna di far la corte a tre vilissimi schiavi: Narciso, Pallante e Licino, affranchiti da quello stolido imperadore; altri la vogliono comandata ne’ tempi dopo Nerone, sotto il quale il senato, non che caduto in vilissimi ossequi (per gli quali assai minori, molto innanzi, lo stesso Tiberio, il qual odiava a morte la veritá, con forte disdegno, in uscire dal senato una volta, disse ad alta voce: — «O homines ad servitutem paratos!» — volendo dire che erano gli schiavi giá per natura che dice Aristotile, i quali naturalmente non possono viver liberi), ma precipitato

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nel fondo delle piú scellerate adulazioni, ch’i rendimenti di grazie, le quali prima soleva determinare agli dèi per grandi benefizi da quelli fatti al popolo romano, sotto quel mostro de’ principi le decretavano per le piú orrende scelleratezze da lui commesse, come, per cagion d’esemplo, d’aver fatto uccider empiamente la sua madre Agrippina. Di questa libertá era signor il senato, la quale col marmo capitolino trasferí negl’imperadori!

[1459] E, dopoché l’imperio romano, al dire di Galba appo Tacito, era stato come retaggio della casa de’ Cesari per cinque imperadori, e ’l popolo aveva pazientemente sopportato le funeste malincolie di Tiberio, i rovinosi furori di Caligola, le perniziose scempiezze di Claudio e le in sommo grado vergognose ed immani dissolutezze di Domizio Nerone; dopo le tre sanguinose tempeste per le quali aveva naufragato in un mare di sangue civile nelle guerre di Galba, Otone e Vitellio, e che non per altro aveva ucciso Galba per Otone che perché questi somigliava Nerone e nel sembiante e ne’ costumi dissolutissimi; — come stata fusse una tradizione d’un podere, vogliono con la formola di cotal legge cautelato Vespasiano, che con la sua virtú e sapienza fermò il romano imperio pericolante, tanto che per augurio di felicitá gl’imperadori appresso presero il di lui cognome di Flavio; — dopo tutto ciò, diciamo, il vollero cautelato con la formola di cotal legge di avergli trasferito il romano imperio, del qual esso co’ costumi e co’ fatti (co’ quali si sperimenta e da’ quali si estima il diritto natural delle genti) fin da’ tempi d’Augusto se n’era di giá spogliato. Il quale Tacito, sappientissimo del gius pubblico (la qual scienza bisognava per essere, qual fu, gran politico) legittima monarca con la natural legge regia che nel quarto libro abbiamo noi ragionata, conceputa in quel motto: «qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis (non giá con la formola cautelata di Triboniano) sub imperium accepit>». Che gliel’aveva offerto e dato essa repubblica per truovar rimedio a’ suoi propi gravissimi mali, da’ quali era guasta e corrotta in tutte le parti sue; che pur Tacito dice: «non aliud discordantis patriae remedium quam ut ab uno regeretur». E cosí infatti col senso comune del gener umano, il qual è ’l giusto estimatore del diritto natural delle genti, tutte le nazioni convengono Augusto aver fondato la monarchia de’ romani.

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[Capitolo Secondo]
Corollari

[1460] Da questo Ragionamento escon i seguenti corollari, i quali contengono veritá le piú importanti di tutte l’altre, che si son intese in quest’opera.

i

[1461] Confutato il grande comun errore de’ dottori, i quali ragionano del gius pubblico con le regole del gius privato.

ii

[1462] Che l’imperio delle leggi va di séguito all’imperio dell’armi, non, come volgarmente si è oppinato, al rovescio.

iii

[1463] Che perciò con un comun senso umano tutte le nazioni conferiscono maggior onori alla milizia armata ch’alla milizia palatina.

iv

[1464] Che ’l gius civile si celebra tra’ cittadini, perché sono soggetti ad un sommo imperio d’armi comune, e perciò non resta loro altro che contendere di ragione.

v

[1465] Che ’l diritto natural delle genti è un diritto della forza pubblica, il quale corre tra le civili potestá, le quali non hanno un diritto civile comune.

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vi

[1466] Ch’i trattati de’ principi tra essoloro sono materia del diritto natural delle genti, perché sono sostenuti dalla forza ch’essi principi esercitano tra loro, ed altre potenze non se ne risentono; e molto piú se vi convengon anch’esse, e piú di tutto se esse li garantiscono.

vii

[1467] Che i regni e gl’imperi non, come le private servitú, s’introducono con la pazienza de’ sudditi, ma che essi sudditi, co’ loro costumi (i quali sono segni della nostra volontá piú deliberati e gravi che non sono le parole e le loro formole, perché sono tanto volontari che niuna cosa piace piú che celebrare i propi costumi), essi vi convengono e gli stabiliscono; e quello: «pauci bona libertatis in cassum disserere» sono velleitá, perché la volontá efficace è quella con la quale, per celebrar i loro costumi, vivono soggetti al monarca.

viii

[1468] Che non si può far forza ad un intiero popolo libero (il quale non è intiero se non sono tutti o la maggior parte di tutti), il qual ha quella magnanima disgiontiva spiegata con quella sublime espressione: «aut vivere aut occumbere liberos»; come il mostrano quattromila numantini, non piú, d’una picciola cittá smurata, i quali disfecero piú romani eserciti, e rendettero il loro nome sí spaventoso a’ romani ch’in udir «numantino» fuggivano; talché fu di bisogno d’uno Scipione affricano (ch’aveva in Cartagine vinta stabilito a Roma l’imperio del mondo) per vincerla, e pure non ne riportò altro in trionfo ch’un mucchio di ceneri inzuppato del sangue di quelli eroi.

ix

[1469] Che l’eroismo de’ primi padri sulle famiglie de’ famoli nello stato di natura e poi de’ nobili sulle plebi de’ primi popoli nello stato delle cittá (che perciò nacquero aristocratiche), egli, nelle

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repubbliche popolari conservato col comandare le buone leggi (ch’Aristotile ci disse essere volontá di eroi scevere di passioni), dissipato poi e disperso con le guerre civili, si riunisce nella persona de’ principi ch’indi provengono, i quali perciò son i soli distinti in civil natura, che con le leggi tengono tutti i soggetti uguagliati.

x

[1470] Esser falso che nella setta de’ tempi umani il diritto naturale tenga in dovere le nazioni col pudore; ma che tal setta solamente gliele fa intendere per esserne obbligate, perché, se gli uomini non l’adempiono, si costringono con le leggi giudiziarie. Ma i sovrani principi sono soli quelli che, non potendo esser costretti dentro da niuna umana forza, sono menati dal lor pudore ad osservare le leggi, perché essi soli sono tenuti dal diritto natural delle genti, fuori con la forza dell’armi, e dentro col pudor naturale. Lo che Tacito, sappientissimo di cotal diritto, ben avvertí ove, trattandosi in senato di moderare con le leggi suntuarie il lusso profusissimo delle cene, Tiberio rispose che non abbisognavano, con quel motto pieno d’una elegantissima sapienza civile: «Pauperes necessitas, divites satietas, nos pudor in melius vertet». Che è la profonda e finor nascosta ragione della legge «Digna vox».

xi

[1471] Perciò esser falso quello:

Regis ad exemplum totus componitur orbis,

ma esser vero tutto il contrario; perché i sovrani principi, che per lo corollario precedente sono per natura civile gentilissimi, si vergognano di vivere diversamente dalla maniera con la quale vivon i popoli: onde in un luogo di questi libri dicemmo che i pubblici e veri (e, perché pubblici, veri) maestri de’ principi son essi popoli. Nerone ed altri cattivi imperadori vennero dissolutissimi e fierissimi, perché nacquero in tempi ch’eran all’eccesso dissoluti e fieri i romani, i quali gli agi, le dilicatezze, i lussi avevano renduto vilissimi; e quindi, codardi, con volti finti di traditori ed assassini, simulavano l’amicizie per farsi la fortuna sopra le teste mozze e le case rovinate de’ lor amici. I quali scellerati costumi, perché uscivano da nature affatto guaste e corrotte, le

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quali co’ pravi esempli si formavano loro dalla fanciullezza e si fermavano con l’etá, i principi buoni con gli esempli buoni loro non emmendavano, ma, quasi corrente di furioso fiume, riprimevano a gran pena per lo lor tempo. Lo che è tanto vero che, se continovarono piú di questi, quelli piú violentemente proruppero, onde uscirono principi piú cattivi: come, dopo i buoni Vespasiano e Tito, videsi rinnato Nerone in Domiziano; da’ buoni Nerva, Traiano, Antonino Pio, Marc’Aurelio filosofo venne il brutto di Commodo; tramò alla vita del bellicoso Pertinace un «sacerdote della santa giustizia» (per dirlo con la frase di Ulpiano), qual egli fu il giureconsulto Didio Giuliano, il quale con immense ricchezze porta a vilissimo mercato e si compera il romano imperio; al conquistatore Severo affricano succede Caracalla, fratricida del fratello Geta; e finalmente venne Elagabalo dall’effeminata mollissima Siria, che fu l’orrore del gener umano.

xii

[1472] Che la fortuna degli auspíci, i quali sono tanto propi de’ principi, che, per lo diritto natural delle genti, come sta in quest’opera pienamente pruovato, non posson essi trasferirgli nella persona de’ lor medesimi capitani generali (i quali perciò si dicono guerreggiare con la loro condotta e comando, ma vincere con la fortuna de’ loro sovrani, onde ad essi naturalmente ritorna la gloria delle conquiste); — tal fortuna degli auspíci, diciamo, legittima le guerre ingiuste e i principati sopra i popoli liberi, ch’è ’l principio della giustizia esterna delle guerre e de’ regni che dice Grozio. La qual Tacito, sappientissimo di tal diritto, pone in bocca d’Otone, c’ha volte l’armi de’ soldati pretoriani contro il suo e loro imperadore Galba, e ’l suo infame attentato pubblicamente nell’adunanza de’ soldati medesimi chiama «consilium quod non potest laudare nisi peractum», cioè se la provvedenza divina nol prospera con l’evento; onde Niccolò Macchiavelli, nelle Lezioni di Livio, ove tratta delle congiure, dice che le piú sono state infelici, pochissime prosperate, niuna onesta.

Nunc dimittis servum tuum, Domine

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