Appendice
Il Fine
[CMA3*]
Exegi monumentum aere perennius
I [CMA3] Ragionamento Primo
D’intorno alla legge delle XII Tavole venuta da fuori in Roma
[Introduzione]
[1412] Questa legge con la legge regia di Triboniano hanno corso un destino tutto contrario alle due leggi Publilia e Petelia. Perocché quelle han giaciuto finora oscure e neglette, le quali contenevano due mutazioni massime della romana repubblica; e queste han fatto tanto romore d’aver portato due mutazioni massime del romano stato e governo, e non sono giammai state nel mondo. E, con un fato comune ad entrambe, di una, ch’è la legge delle XII Tavole, si è tanto variato circa al luogo dond’ella sia venuta; dell’altra, ch’è la legge regia, si è variato tanto circa il tempo nel qual ella sia stata comandata: talché entrambe fanno l’Omero ch’è stato finor creduto. Del quale primo lume di Grecia la storia ci ha lasciato al buio d’intorno alle due sue piú importanti parti, che sono la cronologia e la geografia, e per lo tempo di quattrocensessant’anni ogni etá l’ha voluto suo contemporaneo; e sí, per la ragione del noverare geanologica, ne han fatto da presso a quattordici Omeri, e, per lo luogo, ogni cittá della Grecia avendolo voluto suo cittadino, ne han fatto Omeri senza numero.
[1413] Noi, in questo primo ragionamento, che sará d’intorno alla legge delle XII Tavole, ragioneremo di sette cose:
I. di esso fatto qual si racconta;
II. degli storici che ne scrissero;
III. degli autori i quali non la credettero;
IV. de’ danni c’ha fatti alla scienza del diritto, governo, istoria ed alla giurisprudenza romana;
V. dell’utilitá che ci ha intercettato d’intorno a’ princípi della scienza di questo mondo di nazioni;
VI. del vero che diede occasione e durata a sí fatta tradizione volgare;
VII. e finalmente de’ motivi onde tal vero restò seppellito tra tanto falso.
[Capitolo Primo]
D’intorno al fatto qual si racconta
[1414] Con tal fatto, qual si racconta, tutti gli eruditi al popolo principe del mondo per virtú e per sapienza, circa i princípi della sapienza han fatto un onore corrispondente all’altro che gli han fatto circa i princípi delle virtú. Ché, come per la virtú, l’han fatto venire da’ troiani, che fu una gente vinta e vagabonda; cosí, per la sapienza, come brutta ciurma d’eslegi venuti dall’infame vita ferina, gli han fatto andare vagabondi per le nazioni, cercando leggi da ordinare la loro repubblica, le quali tanto sappientemente seppero con l’interpetrazione custodire sopra que’ popoli i quali (lo che era stato piú) avevan avuto la mente di ritruovarle. E, da quarant’anni dopo essa legge venuta da Grecia oltramare — che i tarantini, greci d’Italia, non sapevano chi fussero i romani e donde fussero venuti ad approdare a’ loro lidi (la qual ignoranza fu la cagione di quella guerra), — tanto, non solo per la Grecia oltramare, ma anco per l’Asia, era celebre la fama di Roma, che da Efeso (magnifica cittá capitale dell’Ionia, che fece pompa del templo di Diana efesia, una delle sette maraviglie del mondo) Ermodoro, per consolarne l’esiglio, si eleggé Roma, che ancor non sapeva cosa fusse libero viver civile. A cui Eraclito, dal diserto dove se n’era ito a fare l’esiglio suo, per le poste per le quali aveva fatti tanti e sí lontani viaggi per tutta la terra Pittagora, scrive la ridevolissima lettera ad Ermodoro, la quale dagli eruditi si rapporta per uno de’ grandi elogi di lode dati alla legge delle XII Tavole, e con essolui si rallegra di avere sognato che tutte le nazioni del mondo venivano ad adorare le di lui leggi. La qual lettera è veramente un sogno, che rovina essi pareggiatori del diritto attico col romano che lo rapportano, perché ella fa Ermodoro autore di quella legge, della quale fu traduttore; ch’è un’adulazione indegna di un tanto filosofo a dirla e di un sí saggio e veloce principe d’ascoltarla, i quali Strabone riputò tanto, che stima gli efesi tutti degni d’essere strozzati infin all’ultimo per aver dato l’esiglio a tal’uomini. Dipoi i pareggiatori, onde credono
di sostenere tal favola, indi le fanno sopra cader la rovina; perché, se, per buona ventura, a capo di tre anni che stiede fuori l’ambasciaria per le leggi, non si ritruova vivo Ermodoro in Roma che gliele interpetri, i romani non sanno essi che fare delle leggi greche, le quali si avevano portato dentro delle balici. Non sono queste inezie piú ridevoli di quelle che d’intorno a questo fatto istesso racconta la Glossa del pazzo romano e del filosofo ateniese, posti a disputare tra loro d’intorno alle piú alte veritá rivelate della nostra santa religione, le quali noi qui ci vergognamo di riferire?[1415] Né i pareggiatori si salvan punto perocché Pomponio giureconsulto faccia Ermodoro, non interpetre, ma autor del consiglio a’ romani donde essi potevano mandare a domandare le leggi. Perché questo sarebbe stato un fatto somigliantissimo a quello d’Anacarsi scita, ricolmo d’innarrivabil sapienza barbaresca che dice l’Ornio; e, ritornato dalla Grecia nella sua Scizia, volendo addimesticare con le leggi quella barbara nazione, non le seppe esso trovar da sé con la filosofia barbaresca dell’Ornio, e, volendola ordinare con le leggi di Grecia, funne ucciso dal re Caduido, suo fratello. Cosí Ermodoro, principe di tanta virtú e sapienza, non seppe da sé dar le leggi a’ romani per ordinare tra essoloro la popolar libertá, e, come un viaggiatore mercadante, dá loro la notizia da quali cittá libere di Grecia potessero andarle a domandare.
[1416] La statova poi d’Ermodoro, che scrive Plinio essersi veduta a’ tempi suoi nel comizio, è da porsi nel museo dell’ignorante credulitá, insieme con la colonna dell’osservazioni celesti avantidiluviane mostrata a Giuseffo nella Siria, col treppiedi da Esiodo consagrato ad Apollo nel monte Elicona, con le statove di Laomedonte e Laocoonte iscritte con lettere volgari, che si videro per la Grecia (le quali antichitá sono state tutte da noi sopra confutate), e con tutte quelle de’ tempi barbari ricorsi, le quali tuttavia dal volgo delle cittá, ove si sono immaginate, si dimostrano agli stranieri: come presso l’antica Cuma la grotta della sibilla cumana, nel capo di Pausilippo la scuola dove Virgilio insegnava d’arte poetica, e in Napoli, in San Giovanni Maggiore, il sepolcro della sirena Partenope col segno della santa croce e iscritto con lettere gotiche.
[1417] Ora scorriamo brievemente esse tavole, e vediamo che diritto ateniese vi fu trapportato.
[1418] Nella tavola prima v’ha un capo: che «’l pretore abbia ferma la transazione della lite fatta tra ’l reo e l’attore mentre questo
menava quello da lui»; e Demostene, nell’orazione contro Panteneto, recita questa legge di Solone. Come se non l’avesse insegnato a tutte le nazioni la ragion naturale che si osservino i patti almeno per la difesa, la quale è da essa natural ragione dettata! 1. — In un altro capo: ch’«al tramontare del sole terminassero i giudici di conoscere le cause»; e Samuello Petito osserva che gli arbitri in Atene conoscevano le cause fin alla sera. Ma ogniun sa che tutti gli antichi infin a sera attendevano a’ negozi, e che poi andavano a’ bagni, e appresso cenavano: onde di essi le cene si leggono e non gli pranzi.[1419] Nella tavola seconda: che «’l ladro di notte in ogni modo, quel di giorno se si difendesse con armadura, fusse lecito uccidere»; la qual legge di Solone recita Demostene contro Timocrate. Ma questa fu anco legge giudiziaria degli ebrei, come osserva Rufino, pareggiatore delle leggi romane con le mosaiche; talché dovette Solone portarla agli ateniesi da Palestina.
[1420] Nella tavola ottava: che «i collegi delle arti non facciano leggi contrarie alle pubbliche»; e Samuello Petito e Claudio Salmasio ne rincontrano una legge di Solone. Perché, certamente, può vivere una repubblica nella quale i corpi dell’arti combattono con lo Stato!
[1421] Nella tavola nona: che «i giudizi criminali non sieno ordinati con leggi singolari»; e Giacomo Gotofredo ne ritruova una simile di Solone. Ma troppo di tempo vi volle che Lucio Silla con leggi criminali universali ordinasse le quistioni perpetue.
[1422] Nella tavola decima, per Giacomo Gotofredo, si proibisce il lusso de’ funerali; e Cicerone osserva che i decemviri il vietarono quasi con le stesse parole con le quali l’aveva proibito Solone. Perché se n’era introdutto in Roma il lusso alla moda greca: altrimenti, che sapienza sarebbe stata d’insegnarlo vietando? Lo che avvenne molto dopo questi tempi, e, per gli nostri princípi della logica poetica, ne fu appiccata cotal legge a’ decemviri.
[1423] Del gius prediatorio dice Gaio giureconsulto ch’i romani avevano una legge arbitraria ad esemplo d’una attica di Solone. Il qual gius era tanto tenuto a vile, che Quinto Muzio Scevola,
principe de’ giureconsulti della sua etá, ove n’era domandato, mandava per le risposte i litiganti a Furio e Cascellio prediatori, ch’erano com’oggi sono i tavolari del nostro Sacro Regio Consiglio.[1424] Di queste ed altre poche leggieri cose vennero le leggi da Atene in Roma, per comporre la gran contesa della plebe co’ padri, che per sedare, fu bisogno di cangiare la forma del governo e criare i decemviri, i quali la comandassero.
[1425] Ma, per Dio! vedemmo in quest’opera tutti gli ordini necessari allo stato monarchico essere stati osservati da Gian Bodino gli stessi affatto in sostanza tra gli ebrei, romani, turchi e francesi, e sol variare nel suono delle parole di tai quattro lingue diverse; né pertanto la legge regia di Samuello, con la quale per ordine di Dio fu Saulle ordinato re, fu portata d’una in altra all’anzidette nazioni.
[1426] Però questo pur è un ragionare da’ simiglianti. Prendiamo dalle viscere di essa cosa le pruove.
[1427] Essi pareggiatori attici non rincontrano le leggi di Solone con niuna di tutte quelle che fanno il maggior corpo del diritto romano, le quali sono d’intorno al connubio, alla patria potestá, alla suitá, agnazione, gentilitá, alle quindi provenienti successioni legittime, all’usucapione, alla mancipazione e stipulazione, le quali entrambe davano la forma a tutti gli atti legittimi, co’ quali i romani, fussero o tra vivi o nell’ultima volontá, celebravano tutte le loro civili faccende. I quali, perché nel Diritto universale si sono ridutti ad un’esatta divisione e spiegati con la loro propietá, ci piace qui rapportare.
[1428] Namque actus legitimi, de quibus neque lex decemviralis, neque lex ulla regia, neque consularis, neque tribunicia concepta est, sunt formulae agitandi romani iuris, a gentibus minoribus inventae, ad ius nexi mancipiique in legis XII Tabularum defluxum accommodatae; quos, a Papiniano confusim strictimque numeratos, sic omnes diggesseris et explicaveris. Ii autem sunt: manumissio, adoptio, tutoris datio, testamenti factio, cretio, optio, mancipatio, nexus traditio, acceptilatio, in iure cessio. Iis enim acquiritur vel potestas in se; idque agebatur vel manumissione, eaque vel una et vera, si servus, sin liber nempe filiusfamilias, trina et imaginaria; — vel acquiritur potestas in alios; eaque vel in uxores et filios, idque agebatur iustis nuptiis, vulgo per conventionem in manum, inter sacerdotes autem coëmptione et farre, quae utraque erat species mancipationis; — vel acquiritur potestas in filios tantum,>
idque agebatur adoptione; vel in servos, quod utrumque agebatur mancipatione; nempe hominum liberorum simulata, servorum vera; — vel acquiritur potestas in pupillos; idque agebatur tutoris datione; — vel acquiritur dominium rerum per universitatem, et agebatur testamenti factione per aes et libram, quae mancipatio quaedam erat (unde «familiae venditor» et «familiae empor» dicti); cui successit postea testamentum praetorium (inventa scriptura vulgari), uti ante legem XII Tabularum erat testamentum calatis comitiis, et ea acquisitio fiebat cretione, cui postea successit deliberatio, demum aditio; — vel acquiritur dominium rerum singularium ex ultima voluntate, idque agebatur rei legatae optione (praeter autem eam caussam, cetera legata cretione heredis legatariive acquirebantur); — vel acquiritur dominium rerum singularium inter vivos, et tunc id mancipatione et nexus traditione agebatur; alioqui usucapione opus erat anni vel biennii, prout res mobilis erat vel soli, et usucapio tunc erat dominii adiectio, qua dominio bonitario, acquisito ex naturali traditione, adiiciebatur dominium ex iure Quiritium usucapione; — vel acquiritur obligatio ex contractibus aut pactis, et in stipulationem erat transfundenda, quae postea acceptilatione tolleretur; — vel postremo acquiritur dominium adiudicatione, idque agebatur cessione in iure. Quapropter tales fuere, non alii, quia vel ad acquirendum vel ad solvendum alienandumve sive potestatem sive dominium sive obligationem iure optimo pertinebant; ideo nec plures nec pauciores, quia iis omne acquisitionis, solutionis et alienationis negotium iure optimo transigebatur>.[1429] Ora qui diamo a’ pareggiatori attici questa miserevole elezione: qual essi piú tosto vogliono delle due, se tutte queste leggi sieno state native del Lazio, o sien venute da Grecia. Se rispondon il primo, sono perduti, perché su queste leggi, donde era nato, crebbe in casa e si formò tutto il vasto corpo del diritto romano. Se rispondono il secondo, qui si veda, d’uomini per altro in erudizione chiarissimi e valenti critici degli scrittori, che cimmeria grotta di tenebre è la loro memoria, ond’esce una densissima notte di errore, ch’ingombrava loro l’intendimento! che mostro di assurdezza si nasconde nella lor fantasia (come sopra dicemmo di tutt’i critici sí fatti, nell’incominciar i princípi di questa Scienza)! che, senza niuna di quelle leggi le quali regolano l’iconomiche e civili faccende degli uomini, fanno viver i romani fin al trecento e tre di Roma, dentro il qual tempo avevano ingrandito un potente regno nel Lazio! Lo che non può farsi ragionevole che con la giustizia del secolo dell’oro, con la qual Ermogeniano ci disse in quest’opera essersi dapprima divis’i campi e custoditi i termini fino
che venissero le cittá, e che perciò i romani fussero stati gli eroi del mondo perché serbarono la giustizia dell’etá dell’oro fino che le leggi vi fussero portate da Atene! Ma — cotesto eroismo galante avendo noi in questi libri dimostrato esser una fola, una vanitá, e fattala veder sulla storia romana certa, dentro il tempo di cotesta finor cotanto ammirata romana virtú (stabilito da Livio fin alla guerra con Pirro, piú disteso da Sallustio fin alle guerre cartaginesi), co’ superbi, avari e crudeli costumi de’ nobili contro la povera plebe romana, — essi pareggiatori, ove credono di sporre i romani in comparsa di semidei, ne vanno a fare gli eslegi della vita bestiale e nefaria; onde debbono i deboli piú tosto esser ricorsi in Atene a salvare le loro vite dagli empi violenti di Obbes all’altare degli infelici di Teseo (com’abbiamo sopra spiegato) che all’Areopago per aver le leggi da ordinare la loro popolar libertá. Oltreché, qual libertá popolare era da ordinarsi in quella cittá, nella quale fin al trecento e nove (ch’è tanto dire quanto sei anni dopo esser venuta cotal legge da Atene) la plebe romana non era di cittadini, i quali lo ’ncominciaron ad essere col comunicarsi loro da’ padri il connubio, come sta pienamente in questi libri pruovato? E sono essi pareggiatori necessitati di convenirvi, i quali, dopo avere con minuta diligenza nelle [prime] dieci tavole ripartito le leggi confaccenti alla libertá popolare, e particolarmente la testamentaria (per la quale vedemmo sopra che Agide, re di Sparta, repubblica aristocratica, perché voleva comandarla a pro della plebe spartana, funne fatto impiccare dagli efori), [rapportano la legge che vieta ai plebei i connubi coi padri]. La qual legge Giacomo Gotofredo rapporta nella tavola undecima, in quel capo: «Auspicia incommunicata plebi sunto», e la rapporta in una delle due ultime, nelle quali conferirono molte delle leggi regie e molte romane costumanze. Perché la romana storia narra apertamente che Romolo aveva con gli auspíci fondato Roma, de’ quali auspíci noi per tutti questi libri abbiamo ad evidenza dimostrato essere state dipendenze tutte le parti del diritto cosí privato come pubblico de’ romani. E ’n conseguenza tutto il diritto civile romano in quel capo chiudesi dentro l’ordine de’ nobili; e cosí, d’una repubblica nelle prime dieci tavole ordinata popolare, con tal capo solo della tavola undecima, la fanno tutto ad un tratto severissima aristocratica.[1430] Non diciamo quanto sapesse del buon gusto ateniese quel capo: che «’l reo infermo, citato, egli sull’asinello o dentro la carriuola comparisse innanzi al pretore»! quanto esprimeva della dilicatezza
dell’arti greche l’azione «Tigni iuncti», come se allora gli uomini cominciassero a farsi le pergole e le capanne! di quant’acutezza di greco ingegno sfolgori quella coppia di pene duplio e talio, che Radamanto, per aver ritruovato questa del taglione, o sia del contrapasso, ne fu fatto giudice nell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene; la qual pena Aristotile ne’ Libri morali chiama «giusto pittagorico». Tanto Pittagora sul principio fu saccente di mattematica![1431] Di che abbiamo sopra ragionato alquanto: ora ne diremo questo di piú. Che cosí dovette procedere questa istoria d’umane idee d’intorno alle due proporzioni: che gli uomini prima intendessero il peso, il quale si estima con le forze, c’han pur troppo di corpolenza: ond’è a’ latini «pendere», «expendere» per «giudicare», ed Astrea nella storia eroica se ne descrive in cielo con la bilancia; — dipoi s’intese misura, che si estima con la vista, la qual ha piú dello spirito: ond’è a’ latini «arbitrari», che significa «spectare», come da Plauto si dicono «arbitri» gli spettatori della commedia, e n’abbiamo la frase «remotis arbitris», «sgombrati coloro i quali ne possano star a vedere» (il qual antichissimo costume eroico i romani serbarono ne’ senaticonsulti che dicevano farsi «per concessionem» o «discessionem», perocché, con lo star a vedere la quantitá de’ senatori, i quali «pedibus ibant» nella parte di quello ch’aveva detto il parere, estimavano gli piú o meno che stassero da quella parte); — finalmente s’intese il numero, il qual è astrattissimo, tanto che se ne disse l’«umana ragione». Quindi prima intesero proporzione aritmetica, perché si contiene entro tre termini (per cagion d’esemplo: come quattro è a sei, cosí è sei a dieci, onde sei è ’l mezzo di due e dieci: per lo che si prendano i due numeri avvanzato due ed avvanzante quattro e se ne faccia altro sei, che fa l’altrettanto); laonde in tali tempi ogni giustizia, cosí distributiva (a cui certamente s’appartengono le pene) come commutativa, procedeva con la proporzione aritmetica, che faceva l’equitá civile considerata dalla giurisprudenza antica; e cosí, per cagion d’esemplo, si aveva a cacciar un occhio a uno, quantunque nobile, per l’occhio che questi aveva cacciato ad un vilissimo plebeo. Dappoi s’intese proporzione geometrica, perché è infra quattro termini (per cagion d’esemplo: come uno è a tre, cosí quattro è a dodici). E vennero i filosofi e stabilirono dalla commutativa l’aritmetica e dalla distributiva doversi usare la geometrica proporzione.
[1432] Finalmente a’ tempi de’ Platoni, degli Alcibiadi, de’ Senofonti, ne’ quali Atene sfolgorava della piú civile e colta umanitá (come il proponemmo nella Tavola cronologica e l’avvertimmo nelle di lei Annotazioni), si porta in Roma la legge delle XII Tavole, tanto rozza quanto si è veduto del debitore infermo obbligato a comparire sull’asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore; tanto incivile, che, se ricusasse il reo di venire dal pretore, il creditore allora obtorto collo lo vi strascinasse; tanto immane, crudele e fiera, che chi a bella posta avesse appiccato il fuoco alle biade altrui fusse bruciato vivo; che ’l falso testimone e ’l giudice, che per froda giudicasse ingiustamente, fusse precipitato dal monte Tarpeo; che chi mietesse o pascolasse l’altrui biade ed erbaggi di notte, fusse appiccato (la qual Plinio riprende che piú gravemente punisca costui che chi abbia ucciso un uomo); e finalmente che ’l debitore fallito si segasse vivo e che i brani se ne dassero a’ creditori, siccome Romolo aveva punito uno re suo pari, Mezio Fuffezio, che gli aveva fallito la fede dell’allianza (la qual legge appo Aulo Gellio fa orrore al filosofo Favorino). Le quali tutte sono leggi degne di venire dalle grotte de’ polifemi, sparse per sotto i monti della, ne’ suoi primi antichissimi tempi, fiera e selvaggia Sicilia, non dalla cittá la quale, in questi tempi, in buon gusto era la piú riputata del mondo.
[Capitolo Secondo]
De’ primi storici che n’hanno scritto
[1433] Tal è esso fatto: veniamo agli storici i quali prima di tutt’altri ne scrissero. Eglino sono due: Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, i qual’entrambi vissero a’ tempi d’Augusto. De’ quali Livio scrive (reciteremo le sue parole) che «tribunorum aequandae libertatis desiderium patres non aspernabantur», e funne mandata l’ambasciaria, la qual portò in Roma le leggi. Dionigi, meglio di Livio informato, siccome colui che scrisse la sua Istoria istrutto delle memorie antiche, le quali ne serbava Marco Terenzio Varrone, comunemente acclamato «il dottissimo delle romane antichitá», scrive che, ritornata l’ambasciaria, i consoli di quell’anno, Caio Menenio e Publio Sestio, diedero mille remore e presero mille pretesti per non far comandare le leggi, e che, Sestio finalmente avendone riferito in senato, vi furono de’ senatori i quali erano di parere che si dovesse seguitar a vivere con le consuetudini e che non fusse mestieri che la cittá governassesi con le leggi. Di piú i consoli in quell’anno intimarono piú prestamente del solito le ragunanze consolari per liberarsi dalle moleste istanze de’ tribuni della plebe, e per l’anno appresso disegnarono uno de’ consoli Appio Claudio, d’una famiglia superbissima e (per dirla con esso Livio) sempre fatale a’ tribuni ed alla povera plebe (la qual, com’era nobilissima, cosí osservava il giuramento eroico, che dice Aristotile, d’esser eterna nimica a’ plebei); e che, dopo essere stati i consoli designati, Menenio e Sestio non diedero piú orecchio a’ tribuni, i quali, cosí bruttamente del loro desiderio falliti, non avevano dove voltarsi. Talché i custodi della romana libertá furono necessitati di ricorrere ad esso Appio, d’una casa (per dirla con Livio altresí) imperiosissima (finché pur finalmente giunse, presso a cinquecento anni dopo, nella persona di Tiberio Nerone, ad esser signora dell’imperio romano), e, per usare l’espressione di che esso Dionigi si serve, «gli offerirono la potenza», con la quale nell’anno appresso proruppe nella tirannide, e difatto i decemviri ne furono «diece tiranni» appellati. Queste cose sono narrate da Dionigi
d’Alicarnasso. Per le quali apertamente si vede quanto benignamente i padri avevano dato orecchio alla pretensione de’ tribuni di «adeguare (come Livio dice) la libertá», che vi dovetter avvenire de’ grandi mutamenti e rivolte, talché fu d’uopo di mutarsi la forma dello Stato e criarsi un maestrato sovrano di dieci, tra’ quali entrato, Appio Claudio (perché i potenti ambiziosi, per una degnitá sopraposta, col promuover le leggi si fanno la strada alla tirannide) finalmente fecela comandare![1434] Ora — poiché questi due soli sono gli piú antichi autori i quali scrivono di tal fatto, e ne scrivono presso a cinquecento anni dopo, e sono cotanto tra essoloro contrari; — e i romani, nazione ch’attese alla villereccia ed alla guerra, non ebbero il privilegio, che non poteron aver i greci, nazion di filosofi, i quali infin al tempo del padre di Tucidide, il quale fiorí ne’ tempi piú luminosi di Grecia, essi non seppero nulla delle loro propie antichitá; — e, oltre di ciò, questi due autori avendoci lasciati incerti d’una delle due cose piú importanti alla storia, ch’è la geografia; ond’è venuta tanta varietá d’oppenioni, ch’altri l’han fatto venire da altre cittá del Lazio, e nominatamente dagli equicoli (forse indutti a crederlo dalla voce di «coltivatori dell’equitá»), altri da altre cittá d’Italia, Triboniano nell’Istituta la fa venire e da Atene e da Sparta; e tutto ciò perché i due primi autori non si accordano in questa parte (faccendola Livio venire da Atene ed altre cittá della Grecia; al contrario Dionigi la fa anco venire da altre cittá greche d’Italia, lasciata Sparta tralle cittá della Grecia, dalla qual sola meglio s’arebbe fatta venire che da Atene, poiché Platone ed Aristotile riprendevano le leggi spartane di troppa rozzezza e severitá): onde Tacito, scrittor avvedutissimo, per non esser còlto di falso, si pone al coverto e generalmente dice che fu una raccolta delle piú scelte leggi del mondo; — per tutto ciò, piú sano consiglio è di non credere né all’uno né all’altro, e tanta fede prestarne agli scrittori i quali tanto variamente ne scrissero appresso, quanto, per le ragioni critiche anzidette, essi primi autori ne meritano.
[Capitolo Terzo]
Degli autori i quali non la credettero
[1435] Veniamo or agli autori i quali non la credettero. Questi furono altresí due contemporanei di Dionigi e di Livio, anzi di questi alquanto piú vecchi. Uno è Marco Terenzio Varrone, celebrato per filologo dottissimo delle romane antichitá; l’altro è Cicerone, senza dubbio acutissimo filosofo e sappientissimo principe di quell’immortale repubblica.
[1436] E primieramente Varrone non credette tal favola, il quale lavorò la sua grand’opera Rerum divinarum et humanarum de’ romani ragionandola per origini tutte natie del Lazio e che nulla traessero dalla Grecia, e n’ebbe il gran motivo dall’osservare la legge delle XII Tavole conceputa con tanta latina eleganza nativa, che nulla odorava di greco. La qual nostra congettura ci vien confermata da un greco scrittore medesimo, Diodoro sicolo, il quale dá questo giudizio della frase di cotal legge: ch’«ella è vergognosa (per bellamente significare che poco dice e molto intende, la qual è virtú di lingua intelligente) e, con tutto ciò, differisce a tutto cielo dalla maniera greca di favellare». Tanta scienza ebbe di lingua latina Ermodoro, il quale la tradusse, che anche ritruovò, in questa straniera, voci ch’essi greci confessano non aver con ugual eleganza nella loro nativa, come Dion Cassio dice della parola «auctoritas» (la quale da noi si è dimostro contenere tutto l’affare di quella legge), perocché, quantunque ella venga da αὐτός/ (come sopra si è da noi dimostrato), però non è nuovo né rado che le nazioni prendono da altre l’origini delle voci, e poi le piegano e le stendono a’ significati che le lingue originarie non hanno.
[1437] Ma il luogo di Cicerone in uno degli aurei libri De oratore, i quali scrisse nella sua etá piú matura con una maravigliosa senil prudenza (il qual luogo è volgatissimo a tutti gli anco mediocremente eruditi), il quale gli adornatori della legge delle XII Tavole ne arrecano per una piú luminosa testimonianza di lode, egli turba affatto e confonde tutti cotesti pareggiatori del diritto attico col romano. Noi l’adorneremo, recitandone le parole. Egli, sotto
la persona di Marco Crasso l’oratore, ch’esso medesimo chiama «il romano Demostene», parla cosí:[1438] Fremant licet, dicam quod sentio [bisogna che i letteratuzzi grecanti, che dovevano far una gran turba, fussero troppo interessati di cotal favola]: bibliothecas, mehercule, omnium philosophorum [i quali non seppero far Grecia signora di Roma, e forse fecero che Roma fusse signora e di Grecia e del mondo] unus mihi videtur XII Tabularum libellus, siquis legum fontes et capita viderit> [le quali fonti e sorgive fecero poi, con l’interpetrazione, il grande regal fiume, anzi l’ampio mare di tutto il diritto romano], et auctoritatis pondere [di quell’autoritá di cui noi abbiamo in questi libri ragionata la filosofia] et utilitatis ubertate [la qual produsse il maggior imperio del mondo, come sta in quest’opera pienamente pruovato] superare. Percipietis etiam illam ex cognitione iuris laetitiam et voluptatem, quod quantum praestiterint nostri maiores prudentia ceteris gentibus [ecco i romani anteposti, con merito di veritá, nella civil sapienza a tutte l’altre nazioni dell’universo, e sí generalmente niegato che da alcuna nazione straniera venne la legge delle XII Tavole a’ romani], tum facillime intelligatis, si cum illorum Licurgo [quindi Cicerone scende al particolare de’ greci, e niega cotal legge esser venuta da Sparta, di cui era stato legislatore Licurgo], Dracone et Solone [or la niega altresí venuta da Atene, a cui prima Dragone e poi Solone avevano dato le leggi] nostras leges conferre volueritis. Incredibile enim est quam sit omne ius civile, praeter hoc nostrum, inconditum ac pene ridiculum [perocché ogni altro non reggeva sopra un sistema, sia stato anco appo gli ateniesi, appo i quali quelli che si chiamavano «pramatici» facevano professione non di altro che di conservar i zibaldoni delle leggi fatte in vari tempi in quella repubblica e tenerle a memoria per prontamente somministrarle agli oratori nelle cause, le quali consistevano in articoli di ragione, senza averne né gli uni né gli altri alcuna scienza di princípi; perciocché i filosofi perciò forse non applicarono a meditarvi, onde i sofisti con troppo di ardire si presero a trattare questa difficil provincia e dar precettuzzi ridicoli di ragionar le cause, le quali da essi di «stati legali» sono appellate]. De quo multa soleo in sermonibus quotidianis dicere, cum hominum nostrorum prudentiam ceteris hominibus et maxime graecis antepono [ed ecco finalmente che Cicerone anco la niega venuta dalle cittá greche d’Italia].
[1439] E certamente egli non per altro (e crediamo d’apporci al vero) fa, solamente in questa giornata, intervenirvi Quinto Muzio Scevola, veneratissimo principe de’ giureconsulti della sua e forse di tutte l’altre etá, se non perché, essendo allora divise le professioni di giureconsulto e d’avvocato, e dovendo Marco Crasso, ch’era avvocato, non giureconsulto, ragionare d’intorno alla giurisprudenza ed alle leggi, e particolarmente contro cotal favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene, perché, per le due borie e delle nazioni e de’ dotti, n’erano troppo comunemente i romani persuasi (che Dionigi e Livio, dovendo seguire, com’è obbligazione degli storici, le comuni persuasioni de’ popoli de’ quali scrivono, e riserbar a’ critici il giudicarne la veritá, rapportarono cotal favola nelle loro storie), acciocché ne fusse con rispetto ricevuta la riprensione, finge esservi stato presente Quinto Muzio: il quale, se Crasso avesse detto delle leggi alcuna cosa con errore, egli ne l’arebbe senza alcun dubbio ripreso; siccome, appresso Pomponio, ne riprese questo istesso Sulpizio il quale in questi ragionamenti interviene e interloquisce, ché, non avendo inteso una sua risposta ad un dubbio di ragione che questi gli aveva proposto, gli disse quelle gravi parole: «turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur, ignorare».
[Capitolo Quarto]
De’ danni che cotal favola ha arrecato alla scienza
del diritto, governo, istoria
ed alla giurisprudenza romana
[1440] I danni poi, che tal favola ha cagionato alla scienza del diritto governo, istoria ed alla giurisprudenza romana fin a questo tempo, sono stati gravıssimi e senza numero.
[1441] E primieramente cotal favola ha danneggiato la scienza del diritto romano; perché, essendo ogni diritto civile composto parte d’un diritto comune a tutte le nazioni e parte propio di ciascheduna cittá (e quello è ’l diritto naturale delle genti, e questo diritto civile), ci ha fatto sembrare il diritto romano non esser composto né dell’uno né dell’altro, ed esser tutto un diritto particolare straniero; anzi, con una brutta perversitá, il diritto civile romano ci ha rappresentato per un diritto comune a’ romani con l’altre nazioni, e ’l diritto attico (il quale pur doveva essere mescolato del diritto natural delle genti, introdutto tra gli ateniesi con essi naturali costumi) ha sposto in comparsa d’un diritto tutto civile, comandato a’ romani con le leggi. Il qual errore è nato dalla boria cosí de’ greci d’aver essi disseminata l’umanitá per lo mondo, come de’ romani di vantare romorose origini, tanto della loro gente da Enea troiano quanto della loro sapienza dal principe della sapienza greca e capo de’ sette sappienti, Solone; la qual boria di nazioni è stata fomentata dalla boria de’ dotti, i quali tutto ciò ch’essi sanno, dicono aver origini sappientissime fin dagli piú antichi tempi del mondo (come dell’una e dell’altra ne proponemmo tralle prime, due degnitá).
[1442] Ha nociuto alla scienza del romano governo; perché, uscendo i governi dalla natura de’ popoli governati, e ’l governo romano essendo uscito da questa legge, ha fatto credere il regno romano essere stato monarchico e la libertá ordinata da Bruto essere stata popolare, che con tal legge la plebe la volesse adeguata poi con le leggi. Ma noi a mille pruove per tutta quest’opera abbiam
dimostro il regno romano essere stato aristocratico, e la libertá ordinatavi da Bruto essere stata signorile.[1443] Ha svisato la scienza della romana storia; perché, i fatti pubblici uscendo da’ governi e i governi uscendo dalla natura di essi popoli governati, vedemmo sopra Gian Bodino perdersi col suo sistema politico, osservando i fatti degli antichi romani essere stati di repubblica ch’era di Stato nonché di governo aristocratica.
[1444] Finalmente ha danneggiato alla romana giurisprudenza, oscurandole la dovuta gloria d’essere stata la cagione di tutta la romana grandezza; perché, se gli Stati s’ingrandiscono con lo star fermi sui loro princípi, la giurisprudenza principalmente fece grandi i romani, la quale religiosamente custodí i loro costumi, co’ quali fu dapprima fondata; e poi, essendo tai costumi passati e fissi in leggi nelle tavole, l’interpetrazione, fil filo co’ passi piú corti e piú tardi conducendole alle nuove nature, costumi e governi i quali vennero appresso, le tenne ferme incontro al corso, sempre andante a cangiarsi, che fanno nella loro vita le nazioni. La qual fu la fortuna cagione della romana grandezza, la quale non seppe veder Plutarco; onde Torquato Tasso poteva confutarlo nella Risposta: perché tal forma fu pur effetto della romana virtú, cosí della magnanimitá della plebe di volere le leggi scritte in tavole, come della fortezza de’ padri nel custodirle e sapienza nel ministrarle. Per le quali cagioni, siccome la piú eccellente al mondo fu la romana giurisprucdenza, cosí fu sola al mondo la romana virtú, dalla quale provvenne sola al mondo la romana grandezza.
[Capitolo Quinto]
Dell’utilitá che ci ha intercettato d’intorno alla scienza
de’ princípi del mondo delle nazioni
[1445] Cotal favola ne ha finor intercettato la grande utilitá d’aver la scienza, la qual finor ha mancato, d’intorno a’ princípi di questo mondo di nazioni, perché a tutti i dotti non ha fatto ravvisare che quella era un grande veritiero antichissimo testimone del diritto naturale delle genti del Lazio, le quali pur erano incominciate in Italia dall’etá di Saturno. E la perpetuitá de’ costumi n’è stata interrotta dalle due favole: una d’Enea fondatore del regno d’Alba, la qual è stata da noi sopra in questi libri confutata; l’altra di questa legge venuta di Grecia; e, come quello i troiani, cosí questa vi avesse introdutti i greci costumi. Onde questa legge ha corso l’istesso destino che ha corso Omero: ché, come, perché questi è stato finor creduto un particolar uomo valentissimo in eroica poesia, ch’avesse finto di getto quanto egli canta, non si è saputo che i suoi poemi erano due grandi testimoni del diritto delle genti di Grecia, siccome per un intiero di questi libri da noi pienamente si è dimostrato; cosí, perché questa legge è stata finor creduta tutta ad un colpo comandata a’ romani, non si è saputo ch’ella era un gran testimone del diritto naturale delle genti del Lazio.
[Capitolo Sesto]
Del vero che diede occasione e durata a sí fatta
volgare tradizione
[1446] Ora, per la legge, che ci abbiamo proposta ed osservata per tutta quest’opera, di non disprezzar punto le volgari tradizioni, ma d’investigarne il vero che loro diede motivo di pubblicamente nascere e conservarsi, e di spiare le cagioni onde poi ci sono venute ricoverte di falso, diciamo che ’l vero, come sta dimostrato in questi libri, e nel secondo particolarmente, fu che in tal contesa non si trattò d’altro che ’l contenuto in questo capo: «Forti sanate nexo soluto idem sirempse ious esto», il qual «forte sanate prosciolto dal nodo» in una preziosissima scheda del gran Fulvio Ursino si truova essere lo straniero ridutto all’ubbidienza; la qual erudizione, per gli princípi che lor mancavano di questa Scienza, mal usando gli adornatori di cotal legge, han detto che per questo capo fu data la cittadinanza a’ soci latini, prima rivoltati e poi venuti di nuovo all’ubidienza de’ romani. E sí hanno con troppo di errore creduto la plebe romana aver fatto tante mosse e rivolte quante la storia ne racconta, perché si dasse a’ latini quella cittadinanza la quale in tali tempi non avevano essi, come sta pienamente da noi pruovato in quest’opera, e che i nobili, in quella loro severissima aristocrazia eroica, a quelli l’avessero conceduta; quando piú di trecento anni appresso, dopo essere sfiorata tutta la libertá popolare romana, Livio Druso avendola per suoi ambiziosi disegni promessa a’ soci latini, e ’l senato gli resistette e (quel che fa a maraviglia al nostro proposito) essi tribuni della plebe (che da trecento [anni innanzi], per costoro, vollero la cittadinanza romana a’ soci latini comunicata) loro la contrastarono; onde, per dirla con Tacito, restarono i soci latini di tal loro desiderio «per intercessionem illusi»; il perché Druso, oppresso dalla gran mole, esso se ne morí e, come narra Floro, ne lasciò in retaggio al popolo romano la guerra sociale, che fu la piú pericolosa di quante innanzi n’aveva fatto giammai. Ma i «forti sanati» della scheda d’Ursino furono gli stranieri, i quali la storia greca in questi libri ci ha
narrato che rovesciarono tutte le greche cittá da aristocratiche in popolari, ch’abbiam truovato essere state le plebi delle repubbliche eroiche, e tale nella storia romana abbiam letto essere stata la plebe romana.[1447] Laonde in tal contesa non d’altro trattossi ch’i plebei, nessi del dominio bonitario de’ campi, ch’avevano avuto da’ signori per la prima legge agraria (che abbiam truovato essere stata la legge del re Servio Tullio, ch’ordinò il censo, pianta della libertá de’ signori, il qual essi plebei a’ signori pagar dovessero per gli campi da quelli ad essolor conceduti), da tal rivolta ridutti di nuovo all’ossequio della romana signoria, sciolti di tal nodo per quest’Agraria seconda, n’avessero il dominio quiritario, ma simile in effetto, non giá l’istesso nella cagione a quello che ne avevano essi signori. Che è la forza di quella voce «sirempse» (la qual è accorciata insieme e ridondante, come pruovammo nella Locuzion poetica essere stati per lo piú i parlari delle prime nazioni), che vuol dire «simile rempse», che poi si fece «reapse», che ci restò. La qual congettura ci si conferma da que’ versi di Plauto nel prologo dell’Anfitrione, dove Mercurio pubblica questa legge di Giove: che chiunque procurasse la palma ad alcuno de’ comedianti ingiustamente, tal delitto
Sirempse lege iussit esse Iupiter,
quasi magistratum sibi alterive ambiverit.
[1448] Talché essi plebei per questa Agraria seconda restassero nessi del nodo del dominio quiritario, che dá la forma alla mancipazione solenne in quel famoso capo: «Qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch’abbiamo dimostrato fonte di tutti gli atti legittimi e sí di tutto il diritto civile romano antico; del qual nodo poscia i plebei furono liberati, a capo di cento e sedici anni, dalla legge petelia. Che è la mano regia, il gius incerto e nascosto, delle quali cose si lamenta la plebe appresso Pomponio, onde tanto bramarono cotal legge. Perché i nobili, da re (qual’essi sono nelle repubbliche de’ signori), si riprendevano i campi ch’essi plebei avevano coltivati, lo gius de’ quali era ad essi plebei incerto, perché il dominio bonitario non produceva la revindicazione da ricuperarglisi; ond’essi disiderarono uno gius certo e manifesto con l’intagliarsi e restar fisso nelle Tavole; — perché la mano regia (di riferir al senato le pubbliche emergenze e di
ministrare le leggi a chi domandava ragione) restò divisa a’ consoli con le relazioni in senato ed a’ pretori col dar le formole ne’ giudizi; e le leggi, tenute nascoste dentro l’ordine de’ nobili, nulla in que’ tempi appartenevano alla plebe, che, come straniera, non aveva niuna parte di ragione non solo pubblica ma nemmeno privata nella cittá.[1449] Or di che confusione debbon esser coverti i pareggiatori attici, che cotanto si travagliano di pareggiare il diritto attico col romano! E quel gius del nodo, ch’essi non ardiscono dire esser venuto da Grecia in Roma, perché nella storia romana ne odono gli strepiti e i rumori innanzi di cotal legge, è l’unico affare che si diffiní in quella contesa, e se ne concepí il capo De forti sanate nexo soluto, ch’essi tutti non intesero affatto!
[Capitolo Settimo]
De’ motivi onde tal vero restò seppellito fra tanto falso
[1450] Le cagioni onde tal vero ci venne ricoverto di tanto falso, oltre alle due generali delle due borie delle nazioni e de’ dotti, furono particolari queste seguenti:
i
[1451] L’ambasciaria, che fu un pretesto de’ padri, ch’essi non ne sapevano concepire la formola (in que’ tempi che tutte le ragioni erano dalle formole contenute, per ciò ch’appieno abbiamo dimostrato d’intorno al diritto eroico), con isperanza che frattanto da cosa nascesse cosa e, governandola il tempo, cotal ardore della plebe si raffreddasse; il quale per tre anni (ché tanto durò l’ambasciaria), col frapporvisi di piú in mezzo una pestilenza, nulla punto s’intiepidí.
ii
[1452] Le tante leggi, che contiene in tante tavole, furon appresso intagliate dalla maniera poetica di pensare de’ popoli eroici, che noi scuoprimmo nella Logica poetica, e n’arrecammo questa legge ne’ corollari: ch’ogni legge ch’appresso si scriveva (come la legge contro il lusso de’ funerali), per questa parte di libertá popolare: — ch’ella fosse scritta, — s’appiccava a’ decemviri, ch’avevano scritta la prima; siccome tante leggi, che favorivano alla popolar libertá, avevano appiccato a Servio Tullio, ch’ordinò il censo, perché incominciò con quello a sollevare la povera plebe oppressa da’ nobili.
iii
[1453] La moltitudine e diversitá dell’oppenioni dond’ella fusse venuta in Roma nacque dalla stessa maniera di pensare poetico delle prime nazioni. Ma, a rovescio di quello, ch’ovunque i greci eran iti per lo mondo, vi avevano osservati sparsi i loro cureti, i lor
Ercoli, i lor Evandri (come si è appieno sopra pruovato), i romani, per dovunque uscirono, videro gli stessi costumi: nel Lazio, nell’Italia, nella Magna Grecia e nella Grecia oltramare, di cui le piú luminose cittá furono Sparta ed Atene, che la divisero tutta in due parti nella guerra peloponnesiaca, fatta tra loro per lo imperio del mare di Grecia. Onde Tacito disse, indovinando, il vero: che in cotal legge si era raccolto il fior fiore delle leggi di tutte le nazioni del mondo. E, finche durò la giurisprudenza antica (che fu finché Roma fu repubblica aristocratica, nella quale la giurisprudenza fu rigida, ch’aveva per obbietto la civil equitá), la legge si disse venuta da Sparta, che fu repubblica aristocratica; ma, invigorendo poi la giurisprudenza nuova (ch’è benigna ed ha per obbietto l’equitá naturale), indi in poi si disse venuta da Atene, che fu repubblica popolare, perché tal oppenione nacque ne’ tempi della romana libertá popolare, e sotto gl’imperadori ristò.iv
[1454] Esse tavole ci vennero dodici noverate dalla maniera di noverare delle prime genti, che con tal novero certo significavano ogni moltitudine: come i latini, avendo piú spiegate le menti, il fecero poi col numero «seicento»; e noi, che l’abbiamo spiegatissima, il facciamo col numero prima di cento, poi di mille, finalmente di cento e mille, per significar infiniti. Onde furono dodici gli dèi delle genti maggiori, dodici le fatighe d’Ercole, dodici i villaggi de’ quali Teseo compose Atene, i quattro tempi dell’anno divisi in dodici mesi, l’antichissime leghe delle dodici cittá dell’Ionia, di dodici cittá di Toscana, dodici le parti dell’asse. Cosí «dodici» furon dette le Tavole.
II [CMA3] Ragionamento secondo
d’intorno alla legge regia di Triboniano
[Capitolo Primo]
[D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie]
[1455] Ma non altronde si può con maggior evidenza intendere questa gran veritá: ch’ove si parla con falsi princípi, perché dal falso non può nascere che piú enorme falso, non vi ha cosa tanto sconcia, ridevole, mostruosa, la qual non si dica seriosamente e si riceva con gravitá. Tutti gl’interpetri eruditi delle leggi romane, senza punto riflettere alla Storia augusta e senza combinarla con la favola della legge regia, da Triboniano detta una volta apertamente nell’Istituta, un’altra volta nascosta sotto la maschera di Ulpiano nelli Digesti (il qual grecuzzo fu piú ignorante delle cose romane che non fu Pietro, Martino ed altri primi barbari glossatori), hanno ricevuto con tanta sicurezza con l’odiosissima nominazione di «regia» (errore affatto somigliante a quell’altro della legge detta «tribunizia» da Pomponio, con la quale Giunio Bruto dichiarò gli re eternalmente discacciati da Roma, il quale errore abbiamo noi sopra giá confutato); quando apertamente Cornelio Tacito, parlando di Augusto, dice da lui «non regno neque dictatura, sed principis nomine rempublicam constitutam>», ben avvisato il saggio principe che la dittatura fu infausta a Cesare e che ’l nome di «re» era tanto da’ romani abborrito, che, mentre, per concertato tra loro,
Marc’Antonio vuol coronar Cesare nella ringhiera onde questi ragionava al popolo, per fare sperienza come il ricevesse il popolo romano, nella ragunanza, nella quale, per Triboniano, egli comandò la legge regia, se n’udi tanto fremito, che Cesare, temendo, ne fece accortamente un disdegnoso rifiuto. Perché, fin da’ tempi de’ tiranni Tarquini cacciati da Roma, il nome di «re» e la corona reale tanto pubblicamente furono condennati, che per la sola certezza della religione «re delle cose sagre» ne restò detto il capo de’ feciali, ma per altro tenuto a vilissimo conto; e i sacerdoti, i quali appo tutte le nazioni antiche andarono coronati, indi in poi usarono cingersi il capo d’un sottil filo di lana, dal quale vogliono i latini etimologi essere poi stati detti «flamines», quasi «filamines».[1456] E non per altro lo stesso politico narra l’ultime cose d’Augusto che per cominciare gli Annali dallo stato monarchico, il quale si stabilí in Roma co’ trent’anni di pace che fece Augusto godere a tutto il mondo romano; per dare gli avvisi necessari a’ principi come nelle repubbliche libere, tutte guaste e corrotte dalle civili guerre, possano stabilirsi monarchi: tra’ quali avvisi importantissimo è quello che serbino «eadem magistratuum vocabula», perch’è natura del volgo di risentirsi al nuovo suono delle parole e di nulla penetrar nelle cose. Perlocché Augusto non si prese altro titolo che di «tribunizia potestá», la quale dasse ad intendere che fusse una possanza di fatto, con cui egli era protettore della romana libertá, per non ingelosir il popolo ch’egli gli attentasse nulla della ragion dell’imperio, siccome i tribuni della plebe non ebber alcun imperio giammai, conforme si è nell’opera dimostrato. Ed esso Augusto ed i principi romani per gli primi tempi con la «tribunizia potestá» numeravano gli anni del principato; e, lunga etá appresso, come Tacito il narra espressamente di Otone, non di altro erano soleciti gl’imperadori che dal senato fusse loro cotal titolo decretato, per legittimarsi giusti successori dell’imperio. Anzi Tiberio, avendogli il senato offerto il titolo di «dominus», perché gli donava ciò che non era suo e ’l dono era invidioso al popolo, l’accorto principe, perché questi non se n’offendesse, faccendo sembiante di modesto, nol volle ricevere, dicendo ch’esso era principe di cittadini, non signore di schiavi. E la natura istessa delle cose civili diede agl’imperadori un titolo cosí fatto di «protettori della popolare libertá de’ romani». Imperciocché, la civil libertá conservandosi con le leggi, per quel detto di Cicerone veramente
d’oro: «ideo legum servi sumus, ut liberi esse possimus» — la qual libertá il popolo romano aveva perduto, perché aveva fatto le leggi servir all’armi, con le quali s’andava a perdere nelle guerre civili, — essi romani principi, da Augusto incominciando, si posero in mano la forza dell’armi per far goder a’ romani l’ugualitá delle leggi (ch’è una delle massime propietá della monarchia: che sieno i potenti a’ deboli con le leggi uguagliati e ’l solo monarca vi sia in civil natura distinto); con la qual ugualitá quelli romani, ch’in pochi altri anni si sarebbero tutti spenti con altre guerre civili, si salvarono e vissero tanti secoli appresso in luminosissima nazione. Ch’è l’eterna natural legge regia ch’abbiamo ragionata nel quarto libro, con cui le nazioni dentro essoloro medesime vanno a fondarsi le monarchie.[1457] Perché ’l marmo capitolino, ch’arrecano per pruovare tal favola altro non contiene ch’una formola di giuramento di fedeltá che ’l senato dava agl’imperadori (e quindi a poco vedremo con quanta libertá se ’l facesse). Se non pure, prima il senato portava ne’ rostri le formole delle leggi che ’l popolo voleva comandare: in questa il popolo portò la formola nella curia, acciocché la comandasse il senato. E quindi si veda che assurdo: che, mentre gli eruditi si sforzano col marmo capitolino legittimare la monarchia, fanno la romana repubblica da libera popolare divenir aristocratica!
[1458] Ma essi, da un certo senso occulto rimorsi, non soddisfaccendosi del marmo capitolino, si disperano che non truovano una qualche medaglia che gli accertasse del tempo di cotal legge. Poiché altri, niegandolo di quelli d’Augusto, la vogliono comandata a’ tempi di Tiberio, sotto di cui gli piú nobili romani vilissimamente inchinavano l’atroce fasto di un gentilominuzzo di Volsena, Elio Seiano; altri la richiamano a’ tempi di Claudio, sotto il quale i signori delle piú splendide case romane si recavano a somma fortuna di far la corte a tre vilissimi schiavi: Narciso, Pallante e Licino, affranchiti da quello stolido imperadore; altri la vogliono comandata ne’ tempi dopo Nerone, sotto il quale il senato, non che caduto in vilissimi ossequi (per gli quali assai minori, molto innanzi, lo stesso Tiberio, il qual odiava a morte la veritá, con forte disdegno, in uscire dal senato una volta, disse ad alta voce: — «O homines ad servitutem paratos!» — volendo dire che erano gli schiavi giá per natura che dice Aristotile, i quali naturalmente non possono viver liberi), ma precipitato
nel fondo delle piú scellerate adulazioni, ch’i rendimenti di grazie, le quali prima soleva determinare agli dèi per grandi benefizi da quelli fatti al popolo romano, sotto quel mostro de’ principi le decretavano per le piú orrende scelleratezze da lui commesse, come, per cagion d’esemplo, d’aver fatto uccider empiamente la sua madre Agrippina. Di questa libertá era signor il senato, la quale col marmo capitolino trasferí negl’imperadori![1459] E, dopoché l’imperio romano, al dire di Galba appo Tacito, era stato come retaggio della casa de’ Cesari per cinque imperadori, e ’l popolo aveva pazientemente sopportato le funeste malincolie di Tiberio, i rovinosi furori di Caligola, le perniziose scempiezze di Claudio e le in sommo grado vergognose ed immani dissolutezze di Domizio Nerone; dopo le tre sanguinose tempeste per le quali aveva naufragato in un mare di sangue civile nelle guerre di Galba, Otone e Vitellio, e che non per altro aveva ucciso Galba per Otone che perché questi somigliava Nerone e nel sembiante e ne’ costumi dissolutissimi; — come stata fusse una tradizione d’un podere, vogliono con la formola di cotal legge cautelato Vespasiano, che con la sua virtú e sapienza fermò il romano imperio pericolante, tanto che per augurio di felicitá gl’imperadori appresso presero il di lui cognome di Flavio; — dopo tutto ciò, diciamo, il vollero cautelato con la formola di cotal legge di avergli trasferito il romano imperio, del qual esso co’ costumi e co’ fatti (co’ quali si sperimenta e da’ quali si estima il diritto natural delle genti) fin da’ tempi d’Augusto se n’era di giá spogliato. Il quale Tacito, sappientissimo del gius pubblico (la qual scienza bisognava per essere, qual fu, gran politico) legittima monarca con la natural legge regia che nel quarto libro abbiamo noi ragionata, conceputa in quel motto: «qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis (non giá con la formola cautelata di Triboniano) sub imperium accepit>». Che gliel’aveva offerto e dato essa repubblica per truovar rimedio a’ suoi propi gravissimi mali, da’ quali era guasta e corrotta in tutte le parti sue; che pur Tacito dice: «non aliud discordantis patriae remedium quam ut ab uno regeretur». E cosí infatti col senso comune del gener umano, il qual è ’l giusto estimatore del diritto natural delle genti, tutte le nazioni convengono Augusto aver fondato la monarchia de’ romani.
[Capitolo Secondo]
Corollari
[1460] Da questo Ragionamento escon i seguenti corollari, i quali contengono veritá le piú importanti di tutte l’altre, che si son intese in quest’opera.
i
[1461] Confutato il grande comun errore de’ dottori, i quali ragionano del gius pubblico con le regole del gius privato.
ii
[1462] Che l’imperio delle leggi va di séguito all’imperio dell’armi, non, come volgarmente si è oppinato, al rovescio.
iii
[1463] Che perciò con un comun senso umano tutte le nazioni conferiscono maggior onori alla milizia armata ch’alla milizia palatina.
iv
[1464] Che ’l gius civile si celebra tra’ cittadini, perché sono soggetti ad un sommo imperio d’armi comune, e perciò non resta loro altro che contendere di ragione.
v
[1465] Che ’l diritto natural delle genti è un diritto della forza pubblica, il quale corre tra le civili potestá, le quali non hanno un diritto civile comune.
vi
[1466] Ch’i trattati de’ principi tra essoloro sono materia del diritto natural delle genti, perché sono sostenuti dalla forza ch’essi principi esercitano tra loro, ed altre potenze non se ne risentono; e molto piú se vi convengon anch’esse, e piú di tutto se esse li garantiscono.
vii
[1467] Che i regni e gl’imperi non, come le private servitú, s’introducono con la pazienza de’ sudditi, ma che essi sudditi, co’ loro costumi (i quali sono segni della nostra volontá piú deliberati e gravi che non sono le parole e le loro formole, perché sono tanto volontari che niuna cosa piace piú che celebrare i propi costumi), essi vi convengono e gli stabiliscono; e quello: «pauci bona libertatis in cassum disserere» sono velleitá, perché la volontá efficace è quella con la quale, per celebrar i loro costumi, vivono soggetti al monarca.
viii
[1468] Che non si può far forza ad un intiero popolo libero (il quale non è intiero se non sono tutti o la maggior parte di tutti), il qual ha quella magnanima disgiontiva spiegata con quella sublime espressione: «aut vivere aut occumbere liberos»; come il mostrano quattromila numantini, non piú, d’una picciola cittá smurata, i quali disfecero piú romani eserciti, e rendettero il loro nome sí spaventoso a’ romani ch’in udir «numantino» fuggivano; talché fu di bisogno d’uno Scipione affricano (ch’aveva in Cartagine vinta stabilito a Roma l’imperio del mondo) per vincerla, e pure non ne riportò altro in trionfo ch’un mucchio di ceneri inzuppato del sangue di quelli eroi.
ix
[1469] Che l’eroismo de’ primi padri sulle famiglie de’ famoli nello stato di natura e poi de’ nobili sulle plebi de’ primi popoli nello stato delle cittá (che perciò nacquero aristocratiche), egli, nelle
repubbliche popolari conservato col comandare le buone leggi (ch’Aristotile ci disse essere volontá di eroi scevere di passioni), dissipato poi e disperso con le guerre civili, si riunisce nella persona de’ principi ch’indi provengono, i quali perciò son i soli distinti in civil natura, che con le leggi tengono tutti i soggetti uguagliati.x
[1470] Esser falso che nella setta de’ tempi umani il diritto naturale tenga in dovere le nazioni col pudore; ma che tal setta solamente gliele fa intendere per esserne obbligate, perché, se gli uomini non l’adempiono, si costringono con le leggi giudiziarie. Ma i sovrani principi sono soli quelli che, non potendo esser costretti dentro da niuna umana forza, sono menati dal lor pudore ad osservare le leggi, perché essi soli sono tenuti dal diritto natural delle genti, fuori con la forza dell’armi, e dentro col pudor naturale. Lo che Tacito, sappientissimo di cotal diritto, ben avvertí ove, trattandosi in senato di moderare con le leggi suntuarie il lusso profusissimo delle cene, Tiberio rispose che non abbisognavano, con quel motto pieno d’una elegantissima sapienza civile: «Pauperes necessitas, divites satietas, nos pudor in melius vertet». Che è la profonda e finor nascosta ragione della legge «Digna vox».
xi
[1471] Perciò esser falso quello:
Regis ad exemplum totus componitur orbis,
ma esser vero tutto il contrario; perché i sovrani principi, che per lo corollario precedente sono per natura civile gentilissimi, si vergognano di vivere diversamente dalla maniera con la quale vivon i popoli: onde in un luogo di questi libri dicemmo che i pubblici e veri (e, perché pubblici, veri) maestri de’ principi son essi popoli. Nerone ed altri cattivi imperadori vennero dissolutissimi e fierissimi, perché nacquero in tempi ch’eran all’eccesso dissoluti e fieri i romani, i quali gli agi, le dilicatezze, i lussi avevano renduto vilissimi; e quindi, codardi, con volti finti di traditori ed assassini, simulavano l’amicizie per farsi la fortuna sopra le teste mozze e le case rovinate de’ lor amici. I quali scellerati costumi, perché uscivano da nature affatto guaste e corrotte, le
quali co’ pravi esempli si formavano loro dalla fanciullezza e si fermavano con l’etá, i principi buoni con gli esempli buoni loro non emmendavano, ma, quasi corrente di furioso fiume, riprimevano a gran pena per lo lor tempo. Lo che è tanto vero che, se continovarono piú di questi, quelli piú violentemente proruppero, onde uscirono principi piú cattivi: come, dopo i buoni Vespasiano e Tito, videsi rinnato Nerone in Domiziano; da’ buoni Nerva, Traiano, Antonino Pio, Marc’Aurelio filosofo venne il brutto di Commodo; tramò alla vita del bellicoso Pertinace un «sacerdote della santa giustizia» (per dirlo con la frase di Ulpiano), qual egli fu il giureconsulto Didio Giuliano, il quale con immense ricchezze porta a vilissimo mercato e si compera il romano imperio; al conquistatore Severo affricano succede Caracalla, fratricida del fratello Geta; e finalmente venne Elagabalo dall’effeminata mollissima Siria, che fu l’orrore del gener umano.xii
[1472] Che la fortuna degli auspíci, i quali sono tanto propi de’ principi, che, per lo diritto natural delle genti, come sta in quest’opera pienamente pruovato, non posson essi trasferirgli nella persona de’ lor medesimi capitani generali (i quali perciò si dicono guerreggiare con la loro condotta e comando, ma vincere con la fortuna de’ loro sovrani, onde ad essi naturalmente ritorna la gloria delle conquiste); — tal fortuna degli auspíci, diciamo, legittima le guerre ingiuste e i principati sopra i popoli liberi, ch’è ’l principio della giustizia esterna delle guerre e de’ regni che dice Grozio. La qual Tacito, sappientissimo di tal diritto, pone in bocca d’Otone, c’ha volte l’armi de’ soldati pretoriani contro il suo e loro imperadore Galba, e ’l suo infame attentato pubblicamente nell’adunanza de’ soldati medesimi chiama «consilium quod non potest laudare nisi peractum», cioè se la provvedenza divina nol prospera con l’evento; onde Niccolò Macchiavelli, nelle Lezioni di Livio, ove tratta delle congiure, dice che le piú sono state infelici, pochissime prosperate, niuna onesta.
Nunc dimittis servum tuum, Domine
III [CMA4] TAVOLA D’INDICI
[1473] A quest’opera potrebbero seguire molti indici. De’ quali per dar un saggio, prendiamo qui Giove, e facciam vedere com’egli dovrebbe entrare per tutti e allogarsi in ciascuno, come in suo luogo comune, delle materie che si trattan da questa Scienza.
Indice de’ princípi
[1474] Giove primo principio dell’idolatria e della divinazione, da’ quali primi princípi si ripete qui la Sapienza poetica.
Indice dell’origini
[1475] Per «origini» noi intendiamo i primi tempi ne’ quali nacquero le cose umane, come Giove nacque nelle fantasie de’ primi popoli poetici la prima volta che fulminò il cielo dopo il diluvio.
Indice delle nature
[1476] Diciamo «nature» le propie guise con le quali nacquero l’umane cose; come la propia guisa, con la quale nacque Giove, fu ch’i primi uomini, nell’error perduti, mutoli e fieri, dalla loro natura appresero il cielo che fulminava esser un gran corpo animato intelligente, che co’ fulmini e tuoni comandasse e volesse dir loro una qualche cosa ch’essi dovesser fare.
Indice dell’eterne propietá
le quali escono da sí fatte nature
[1477] La natura di Giove porta seco quest’eterna propietá: ch’ove tra’ popoli infieriti non hanno piú luogo le leggi, e ’n conseguenza le lingue, e regna solamente la forza e le mani, l’unico mezzo di ridurgli all’umanitá è la religione.
[1478] Questi, finor noverati, sarebbero gl’indici filosofici delle materie che questa Scienza medita d’intorno al corso delle nazioni ed al ricorso delle cose umane. I seguenti indici sarebber i filologici delle materie con le quali questa Scienza ritruova in fatti ciò c’ha meditato in idea d’intorno alla comune natura delle nazioni.
Indice delle mitologie istoriche
[1479] La favola di Giove fulminante è istoria che narra l’umanitá aver incominciato dal timore d’una divinitá.
Indice delle allegorie univoche
[1480] Giove fu un genere fantastico, a cui i primi popoli poetici riducevano tutte le cose degli auspíci divini.
Indice delle frasi poetiche
che spiegavano i concetti con veritá
[1481] Gli eroi, per esemplo, leggevano le leggi nel petto di Giove, perché osservavan i fulmini nel cospetto del cielo, i quali negli auspíci davan ad essoloro le leggi.
Indice dell’etimologie che portano istorie di cose
[1482] Giove fu detto da’ latini «Ious» dal fragore del tuono; da’ greci Ζεύς, dal fischio del fulmine; e dovette dirsi «Ur» dal suono che dá ’l fuoco bruciando; ond’è Οὐρανός detto il cielo a’ greci e Urania l’astrologia, «uro» a’ latini «bruciare», Urim agli egizi la potenza del fuoco, e «schur» «contemplare» agli orientali; dalla qual origine al Bocarto vien detto «Zoroaster», «contemplatore degli astri», che fu ’l primo sappiente della gentilitá.
Indice delle tradizioni volgari vagliate dal falso
[1483] Ci pervennero tanti Giovi tralle nazioni gentili, perché appo tutte nacquero da uno stesso principio cosí l’idolatria come la divinazione.
Indice dell’identitadi in sostanza
e delle modificazioni diverse
[1484] Giove a’ caldei fu ’l cielo, ecc. (e continua come ai capovv. 474‐481, fino alle parole: «onde veda il Marshamo», ecc., riferite tra le varianti, capov. 1241).
[1485] Quest’indice comporrebbe i quattro primi filosofici, che dánno l’identitadi in sostanza, e i restanti cinque filologici, che dánno le diverse modificazioni; da’ quali tutti si forma il Dizionario mentale, con cui parla la storia ideal eterna di tutte le nazioni.
[1486] I qual’indici tutti farebbono una mole molto maggiore di questo giusto volume. Ma noi non abbiamo avuto né la pazienza né ’l tempo né la voglia di fargli, perché siam certi che, a coloro che avranno studiato bene questi libri, gl’indici non abbisognano, e al contrario i medesimi non giovano punto a coloro i quali vorranno ragionare di questa Scienza per indici.
IV DEDICHE
i
Della «Scienza nuova seconda»
a
CLEMENTE XII
Pontefice ottimo massimo
perché
la provvedenza infinita
con uno stesso semplicissimo
suo eterno consiglio
le cose massime
egualmente e le menome
sempre a bene ordinando
dispose
che
mentre
per lo splendore
della Santa Sede
e per la felicitá
del mondo catolico
al sommo ponteficato
la beatitudine sua conduceva
nello stesso tempo
questi princípi
della Scienza nuova
d’intorno
alla comune natura
delle nazioni
alla Santitá sua
essendo amplissimo cardinale
dedicati
per varie e diverse
che sembravano traversie
ed eran in fatti opportunitá
con piú propia forma
si concepirono
e di maggiori discoverte
s’accrebbero
acciocché
migliorati ed accresciuti
con alquanto piú di degnitá
alla sagra ombra
della sua veneranda
protezione
da se medesimi ritornassero
Giambattista Vico
a’ suoi santissimi piedi
che bacia umilmente
prostrato
gli consagra
II
Della «Scienza nuova terza»
All’Eminentissimo Principe
TROIANO ACQUAVIVA
amplissimo cardinale
e ministro delle maestá di Filippo V re di Spagna,
e di Carlo Borbone re delle due Sicilie ecc.
presso la Santa Sede.
[1488] Il costume usato de’ tempi nostri di dedicare l’opere di lettere ad uomini d’alto stato, se egli dee rispondere a quel degli antichi, i quali innalzavano le statue ad eroi di fama cotanto stabile e ferma, che davan vita a essi bronzi, i quali avessero avuto la sorte, nelle di loro effigie gittati, di rilevarsi, dovendosi i libri indrizzare a’ principi di luminosissima gloria, che con lo splendore de’ lor nomi immortali donino ad essi l’eternitá, all’ampio sfolgorantissimo lume vostro, eminentissimo principe, il quale ha rivolti a sé gli occhi della venerazione di Europa tutta, quanto ora mi si reca facile d’accertare l’elezione di porre all’ombra del vostro alto e potente patrocinio questa mia debol fatiga per la proprietá della materia, altrettanto me ne sgomenta il poco pregio dell’artefice nel lavoro, a petto del vostro merito incomparabile, degno di opere non solo per argomento sublimi e grandi, ma anche per ingegno ed arte al piú alto punto della perfezion ben intese, e finalmente per dottrina ed erudizione consumatissime. Tutti composti in un rispettosissimo ossequio, s’inchinano al piú basso orlo della vostra sacra porpora i Princípi del dritto natural delle nazioni, delle cui leggi soli s’intendono e sono sapienti i popoli liberi, le regnanti nobiltá e i monarchi; ed eglino vi si presentano casti e puri di molti e gravi errori, de’ quali erano innanzi immondi, perché finora del dritto universale de’ popoli han solamente ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, fuori del grembo della cattolica religione.
[1489] Di un tal trattato non sembra potersi immaginar cosa piú degna della vostra generosa protezione, poiché di un sommo senato, il quale, con assai piú di veritá che quelli de’ tempi eroici, può e dee dirsi di sapienti, di sacerdoti e di re, Vostra Eminenza, per chiarezza d’antico sangue, per ampiezza di patrimonio, per isplendore di cariche, per dottrina di conoscenze, per sapienza di consigli, per fortezza di operazioni, da tutto il mondo migliore delle nazioni umane piú colte, assai piú che del senato romano un tempo, nella maggior grandezza di Roma, Scipione Nasica, siete stimata l’anima che lo avviva con l’autoritá, e ’l cuore che lo avvalora col zelo. A cotesto ordine amplissimo dell’universal repubblica cristiana vi menò la provvidenza per mano della vostra fortuna e virtú, facendovi quella nascere in una cittá d’Italia rinomatissima, donde trasse l’antica nobilissima origine l’Eminenza Vostra da antichissimo ceppo, ornato sempremai di sacre porpore, onusto di amplissime dignitá e di sommi magistrati in casa, e fuori d’alti comandi d’armi e di ambascerie presso le piú luminose potenze d’Europa; di cui facilmente mi dispenso di tesserne i lunghissimi cataloghi, perché l’istorie e gli annali hanno renduto pienamente palesi al mondo le glorie del vostro chiarissimo lignaggio, come ancora perché i brievi ed angusti recinti d’una lettera non mi permettono di poterle comodamente noverare.
[1490] Tanti e sí fatti onori, innaffiati da opulentissime famigliari fortune, derivarono col nobil sangue nelle vostre vene quella generositá, la qual virtú quanto ella è propria de’ grandi principi, altrettanto tutti l’ammirano chiaramente risplendere nell’animo vostro; e l’innata grandezza del vostro casato, ingentilita dagli studi della sapienza, e ’l vigore del vostro nobil sangue, lusingato dall’opulenza, furono i modelli, sopra i quali per disegno della vostra propria virtú formossi nell’Eminenza Vostra cotesta signorevole gravitá, la quale, accompagnata dalla soavitá del costume, da una natural piacevolezza, da quel magnanimo e generoso che v’ispira l’istessa vostra nobiltá e grandezza, ha saputo conciliarsi la riverenza delle nazioni, il concetto de’ sovrani e ’l credito de’ pontefici massimi. Per cotesti cosí rari e sublimi pregi, i quali nel piú alto grado risplendono nell’Eminenza Vostra, e tutti a gara concorrono a formare in voi il carattere d’uno ottimo e grandissimo principe, tutto il mondo v’ammira, con tanta gloria vostra, assiso nel piú sublime periodo dell’umana grandezza in rappresentare le reali veci e sostenere in cotesta corte ragguardevolissima
nell’orbe cristiano i sovrani diritti di due somme civili potestá del mondo legislatrici, delle Maestá di Filippo, monarca delle Spagne, e di Carlo Borbone, re delle Due Sicilie, nostro augustissimo sovrano; di modo che forse non può distinguersi se sia maggiore e piú luminoso lo splendore che voi colla vostra virtú e grandezza avete saputo a’ vostri chiarissimi maggiori restituire di quella gloria che essi per moltissimi secoli hanno nell’Eminenza Vostra tramandata.[1491] Laonde questi princípi di dritto che spiega le due gran comparse, una la piú spaventosa, l’altra la piú lusinghevole ai popoli nella ragion della guerra e della pace, ora la prima volta trattati da ingegno italiano e in grado dell’Italia, ingegnosa sua madre e nudrice, scritti in italiana favella e con dottrina tutta conforme alla religione romana, debbon correre da se stessi a tributar il loro ossequio al gloriosissimo nome vostro, eminentissimo principe, che siete il sommo e sovrano pregio di questo gran consesso de’ padri porporati, per la cui sapienza e virtú l’Italia è con sommo rispetto considerata dalle altre nazioni d’Europa, e dal cui corpo uscirono i Ximenes, i quali alla Spagna, i Riscegliú e i Mazzarini, i quali alla Francia diedero forme di governo con sí sapienti arti di pace, che entrambe sursero in due potentissime monarchie: quella che fu uguagliata alla romana antica, questa or giudicata uguale alla persiana presente. E, quantunque l’opera è rattenuta dalla riverenza dell’autore, cui soltanto è lecito in lontananza d’ossequiar l’Eminenza Vostra, assisa nel piú alto luogo degli umani pensieri, però l’incoraggia la vostra alta generositá, propria di saggio principe della Chiesa, che, ben intendendo esser arcano di principato di sapienza cristiana, qual è egli l’ecclesiastico, il favorire e promuovere tutti gl’ingegni che si studiano alla di lui gloria e fermezza, tiene la sua gran casa sempre aperta ad uomini chiari per valor di lettere, che riceve con umanitá singolare e protegge con incredibil fortezza e promuove con alta generositá.
[1492] Nella qual or io affidato, umilissimamente la presento a Vostra Eminenza e, profondamente inchinandola, mi dichiaro e rassegno di Vostra Eminenza
Napoli, 10 di gennaio 1744.
umilissimo, divotissimo e obbligatissimo servidore
Giambattista Vico.