Principj di Scienza Nuova
LIBRO TERZO della discoverta del vero Omero
[SEZIONE PRIMA] [Ricerca del vero Omero]
[Introduzione]
[780] Quantunque la sapienza poetica, nel libro precedente giá dimostrata essere stata la sapienza volgare de’ popoli della Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici, debba ella portare di séguito necessario che la sapienza d’Omero non sia stata di spezie punto diversa; però, perché Platone ne lasciò troppo altamente impressa l’oppenione che fusse egli fornito di sublime sapienza riposta (onde l’hanno seguíto a tutta voga tutti gli altri filosofi, e sopra gli altri Plutarco ne ha lavorato un intiero libro), noi qui particolarmente ci daremo ad esaminare se Omero mai fusse stato filosofo; sul qual dubbio scrisse un altro intiero libro Dionigi Longino, il quale da Diogene Laerzio nella Vita di Pirrone sta mentovato.
[Capitolo Primo]
Della sapienza riposta c’hanno oppinato d’Omero
[781] Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesi dare, ch’Omero dovette andare a seconda de’ sensi tutti volgari, e perciò de’ volgari costumi della Grecia, a’ suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi dánno le propie materie a’ poeti. E perciò gli si conceda quello che narra: — estimarsi gli dèi dalla forza, — come dalla somma sua forza Giove vuol dimostrare, nella favola della gran catena, ch’esso sia lo re degli uomini e degli dèi, come si è sopra osservato; sulla qual volgar oppenione fa credibile che Diomede ferisce Venere e Marte con l’aiuto portatogli da Minerva, la quale, nella contesa degli dèi, e spoglia Venere e percuote Marte con un colpo di sasso (tanto Minerva nella volgar credenza era dea della filosofia! e sí ben usa armadura degna della sapienza di Giove!). Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tralle nazioni), che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è creduto avere sparso l’umanitá per lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse per ciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli inseppolti per pasto de’ corvi e cani (onde tanto costò all’infelice Priamo il riscatto del cadavero di Ettorre da Achille, che, pure nudo, legato al suo carro, l’aveva tre giorni strascinato d’intorno alle mura di Troia).
[782] Però, essendo il fine della poesia d’addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d’uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiú. Non era d’uom saggio al volgo villano destar piacere delle
villanie degli dèi nonché degli eroi, come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria «mosca canina» a Minerva, Minerva dá un pugno a Diana, Achille ed Agamennone, uno il massimo de’ greci eroi, l’altro il principe della greca lega, entrambi re, s’ingiuriano l’un l’altro «cani», ch’appena ora direbbesi da’ servidori nelle commedie.[783] Ma, per Dio! qual nome piú propio che di «stoltezza» merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev’essere costretto da Achille a far suo dovere di restituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d’Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell’esercito greco con una crudelissima pestilenza? e, stimando d’esservi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi in onore con usar una giustizia ch’andasse di séguito a sí fatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, il qual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustato dipartendosi con le sue genti e con le sue navi, Ettorre facesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati? Ecco l’Omero finor creduto ordinatore della greca polizia o sia civiltá, che da tal fatto incomincia il filo con cui tesse tutta l’Iliade, i cui principali personaggi sono un tal capitano ed un tal eroe, quale noi facemmo vedere Achille ove ragionammo dell’Eroismo de’ primi popoli! Ecco l’Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poetici, come qui dentro il farem vedere, de’ quali gli piú grandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umana civil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapporto alla natura eroica, come si è sopra detto, de’ puntigliosi.
[784] Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d’animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo!
[785] Fanno risentire lo Scaligero quasi tutte le comparazioni prese dalle fiere e da altre selvagge cose. Ma concedasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi meglio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotanto riuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, non è certamente d’ingegno addimesticato
ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sí varie e sanguinose battaglie, tante, sí diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d’ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimitá dell’Iliade.[786] La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de’ filosofi, non poteva fingere gli dèi e gli eroi cotanto leggieri, ch’altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, s’acquetano e si tranquillano; — altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d’Italia — nel fin della quale provenne Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie — si legge che Cola di Rienzo — la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero, — mentre mentova l’infelice stato romano oppresso da’ potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime); — al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de’ guai e tutti si sciogliono in allegria; — altri, tutti riposati e quieti, ad un innocente detto d’altrui che lor non vada all’umore, si risentono cotanto e montano in sí cieca collera, che minacciano presente atroce morte a chi ’l disse. Come quel fatto d’Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il quale di notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campo de’ greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar il cadavero, com’altra volta abbiam detto, di Ettorre), l’ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale non gli va a seconda, ch’all’infelicissimo padre cadde innavvedutamente di bocca per la pietá d’un sí valoroso figliuolo, — dimenticato delle santissime leggi dell’ospitalitá; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venuto tutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo; nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re, nulla dalla pietá di tal padre, nulla dalla venerazione
d’un tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che piú vaglia a muover compatimento; — montato in una collera bestiale, gl’intuona sopra «volergli mozzar la testa»! Nello stesso tempo ch’empiamente ostinato di non rimettere una privata offesa fattagli da Agamennone (la quale, benché stata fuss’ella grave, non era giusto di vendicare con la rovina della patria e di tutta la sua nazione), si compiace, chi porta seco i fati di Troia, che vadano in rovina tutti i greci, battuti miseramente da Ettorre; né pietá di patria, né gloria di nazione il muovono a portar loro soccorso, il quale non porta finalmente che per soddisfare un suo privato dolore, d’aver Ettorre ucciso il suo Patroclo! E della Briseide toltagli nemmeno morto si placa, senonsé l’infelice bellissima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc’anzi ricco e potente Priamo, divenuta misera schiava, fusse sagrificata innanzi al di lui sepolcro, e le di lui ceneri, assetate di vendetta, non insuppasse dell’ultima sua goccia di sangue! Per tacer affatto di quello che non può intendersi: ch’avesse gravitá ed acconcezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in truovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fanciulli, di quante Omero affollò l’altro poema dell’Odissea.[787] Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi, quali nel libro secondo dimostrammo ne’ Corollari della natura eroica, non posson essere che d’uomini per debolezza di menti quasi fanciulli, per robustezza di fantasia come di femmine, per bollore di passioni come di violentissimi giovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienza riposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per le quali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nella necessitá per la ricerca del vero Omero.
[Capitolo Secondo]
Della patria d’Omero
[788] Tal fu la sapienza riposta finor creduta d’Omero; ora vediamo della patria. Per la quale contesero quasi tutte le cittá della Grecia, anzi non mancarono di coloro che ’l vollero greco d’Italia, e per determinarla Leone Allacci (De patria Homeri) invano vi s’affatica. Ma, perché non ci è giunto scrittore che sia piú antico d’Omero, come risolutamente il sostiene Giuseffo contro Appione gramatico, e gli scrittori vennero per lunga etá dopo lui, siamo necessitati con la nostra critica metafisica, come sopra un autore di nazione, qual egli è stato tenuto di quella di Grecia, di ritruovarne il vero, e della etá e della patria, da esso Omero medesimo.
[789] Certamente, di Omero autore dell’Odissea siamo assicurati essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodí da quel luogo d’oro dove Alcinoo, re de’ feaci (ora Corfú) ad Ulisse, che vuol partire, offerisce una ben corredata nave de’ suoi vassalli, i quali dice essere spertissimi marinai, che ’l porterebbero, se bisognasse, fin in Eubea (or Negroponto), la quale, coloro ch’avevano per fortuna veduto, dicevano essere lontanissima, come se fusse l’ultima Tule del mondo greco. Dal qual luogo si dimostra con evidenza Omero dell’Odissea essere stato altro da quello che fu autor dell’Iliade; perocché Eubea non era molto lontana da Troia, ch’era posta nell’Asia lungo la riviera dell’Ellesponto, nel cui angustissimo stretto son ora due fortezze che chiamano Dardanelli, e fin al dí d’oggi conservano l’origine della voce «Dardania», che fu l’antico territorio di Troia. E certamente appo Seneca si ha essere stata celebre quistione tra’ greci gramatici: se l’Iliade e l’Odissea fussero d’un medesimo autore.
[790] La contesa delle greche cittá per l’onore d’aver ciascuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasi ogniuna osservava ne’ di lui poemi e voci e frasi e dialetti ch’eran volgari di ciascheduna.
[791] Lo che qui detto serve per la discoverta del vero Omero.
[Capitolo Terzo]
Dell’etá d’Omero
[792] Ci assicurano dell’etá d’Omero le seguenti autoritá de’ di lui poemi:
i
[793] Achille ne’ funerali di Patroclo dá a vedere quasi tutte le spezie de’ giuochi, che poi negli olimpici celebrò la coltissima Grecia.
ii
[794] Eransi giá ritruovate l’arti di fondere in bassirilievi, d’intagliar in metalli, come, fralle altre cose, si dimostra con lo scudo d’Achille ch’abbiamo sopra osservato. La pittura non erasi ancor truovata. Perché la fonderia astrae le superficie con qualche rilevatezza, l’intagliatura fa lo stesso con qualche profonditá; ma la pittura astrae le superficie assolute, ch’è difficilissimo lavoro d’ingegno. Onde né Omero né Mosè mentovano cose dipinte giammai: argomento della loro antichitá.
iii
[795] Le delizie de’ giardini d’Alcinoo, la magnificenza della sua reggia e la lautezza delle sue cene ci appruovano che giá i greci ammiravano lusso e fasto.
iv
[796] I fenici giá portavano nelle greche marine avolio, porpora, incenso arabico, di che odora la grotta di Venere; oltracciò, bisso piú sottile della secca membrana d’una cipolla, vesti
ricamate, e, tra’ doni de’ proci, una da rigalarsi a Penelope, che reggeva sopra una macchina cosí di dilicate molle contesta, che ne’ luoghi spaziosi la dilargassero, e l’assettassero negli angusti. Ritruovato degno della mollezza de’ nostri tempi!v
[797] Il cocchio di Priamo, con cui si porta ad Achille, fatto di cedro, e l’antro di Calipso ne odora ancor di profumi, il qual è un buon gusto de’ sensi, che non intese il piacer romano quando piú infuriava a disperdere le sostanze nel lusso sotto i Neroni e gli Eliogabali.
vi
[798] Si descrivono dilicatissimi bagni appo Circe.
vii
[799] I servetti de’ proci, belli, leggiadri e di chiome bionde, quali appunto si vogliono nell’amenitá de’ nostri costumi presenti.
viii
[800] Gli uomini come femmine curano la zazzera; lo che Ettorre e Diomede rinfacciano a Paride effemminato.
ix
[801] E, quantunque egli narri i suoi eroi sempre cibarsi di carni arroste, il qual cibo è ’l piú semplice e schietto di tutti gli altri, perché non ha d’altro bisogno che delle brace: il qual costume restò dopo ne’ sagrifizi, e ne restarono a’ romani dette «prosiicia» le carni delle vittime arroste sopra gli altari, che poi si tagliavano per dividersi a’ convitati, quantunque poscia si arrostirono, come le profane, con gli schidoni. Ond’è che Achille, ove dá la cena a Priamo, esso fende l’agnello e
Patroclo poi l’arroste, apparecchia la mensa e vi pone sopra il pane dentro i canestri; perché gli eroi non celebravano banchetti che non fussero sagrifizi, dov’essi dovevan esser i sacerdoti. E ne restarono a’ latini «epulae», ch’erano lauti banchetti e, per lo piú, che celebravano i grandi; ed «epulum», che dal pubblico si dava al popolo, e la «cena sagra», in cui banchettavano i sacerdoti detti «epulones». Perciò Agamennone esso uccide i due agnelli, col qual sagrifizio consagra i patti della guerra con Priamo. Tanto allora era magnifica cotal idea, ch’ora ci sembra essere di beccaio! Appresso dovettero venire le carni allesse, ch’oltre al fuoco hanno di bisogno dell’acqua, del caldaio e, con ciò, del treppiedi; delle quali Virgilio fa anco cibar i suoi eroi, e gli fa con gli schidoni arrostir le carni. Vennero finalmente i cibi conditi, i quali, oltre a tutte le cose che si son dette, han bisogno de’ condimenti. — Ora, per ritornar alle cene eroiche d’Omero, benché lo piú dilicato cibo de’ greci eroi egli descriva esser farina con cascio e mèle, però per due comparazioni si serve della pescagione; ed Ulisse, fintosi poverello, domandando la limosina ad un de’ proci, gli dice che gli dèi agli re ospitali, o sien caritatevoli co’ poveri viandanti, dánno i mari pescosi, o sia abbondanti di pesci, che fanno la delizia maggior delle cene.x
[802] Finalmente (quel che piú importa al nostro proposito) Omero sembra esser venuto in tempi ch’era giá caduto in Grecia il diritto eroico e ’ncominciata a celebrarsi la libertá popolare, perché gli eroi contraggono matrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle successioni de’ regni. E cosí dovett’andar la bisogna, perché, lungo tempo innanzi, Ercole, tinto dal sangue del brutto centauro Nesso, e quindi uscito in furore, era morto; cioè, come si è nel libro secondo spiegato, era finito il diritto eroico.
[803] Adunque, volendo noi d’intorno all’etá d’Omero non disprezzare punto l’autoritá, per tutte queste cose osservate e
raccolte da’ di lui poemi medesimi, e, piú che dall’Iliade, da quello dell’Odissea, che Dionigi Longino stima aver Omero essendo vecchio composto, avvaloriamo l’oppenion di coloro che ’l pongono lontanissimo dalla guerra troiana; il qual tempo corre per lo spazio di quattrocensessant’anni, che vien ad essere circa i tempi di Numa. E pure crediamo di far loro piacere in ciò, che nol poniamo a’ tempi piú a noi vicini, perché dopo i tempi di Numa dicono che Psammetico aprí a’ greci l’Egitto, i quali, per infiniti luoghi dell’Odissea particolarmente, avevano da lungo tempo aperto il commerzio nella loro Grecia a’ fenici; delle relazioni de’ quali, niente meno che delle mercatanzie, com’ora gli europei di quelle dell’Indie, eran i popoli greci giá usi di dilettarsi. Laonde convengano queste due cose: e che Omero egli non vide l’Egitto, e che narra tante cose e di Egitto e di Libia, e di Fenicia e dell’Asia, e sopra tutto d’Italia e di Sicilia, per le relazioni ch’i greci avute n’avevano da’ fenici.[804] Ma non veggiamo se questi tanti e sí dilicati costumi ben si convengono con quanti e quali selvaggi e fieri egli nello stesso tempo narra de’ suoi eroi, e particolarmente nell’Iliade. Talché,
ne placidis coëant immitia,
sembrano tai poemi essere stati per piú etá e da piú mani lavorati e condotti.
[805] Cosí, con queste cose qui dette della patria e dell’etá del finora creduto, si avanzano i dubbi per la ricerca del vero Omero.
[Capitolo Quarto]
Dell’innarrivabile facultá poetica eroica d’Omero
[806] Ma la niuna filosofia, che noi abbiamo sopra dimostrato d’Omero e le discoverte fatte della di lui patria ed etá, che ci pongono in un forte dubbio che non forse egli sia stato un uomo affatto volgare, troppo ci son avvalorate dalla disperata difficultá, che propone Orazio nell’Arte poetica, di potersi dopo Omero fingere caratteri, ovvero personaggi di tragedie, di getto nuovi, ond’esso a’ poeti dá quel consiglio di prenderglisi da’ poemi d’Omero. Ora cotal disperata difficultá si combini con quello: ch’i personaggi della commedia nuova son pur tutti di getto finti, anzi per una legge ateniese dovette la commedia nuova comparire ne’ teatri con personaggi tutti finti di getto; e sí felicemente i greci vi riuscirono, ch’i latini, nel loro fasto, a giudizio di Fabio Quintiliano, ne disperarono anco la competenza, dicendo: «Cum graecis de comoedia non contendimus».
[807] A tal difficultá d’Orazio aggiugniamo in piú ampia distesa quest’altre due. Delle quali una è: come Omero, ch’era venuto innanzi, fu egli tanto innimitabil poeta eroico, e la tragedia, che nacque dopo, cominciò cosí rozza, com’ogniun sa e noi piú a minuto qui appresso l’osserveremo? L’altra è: come Omero, venuto innanzi alle filosofie ed alle arti poetiche e critiche, fu egli il piú sublime di tutti gli piú sublimi poeti, quali sono gli eroici, e, dopo ritruovate le filosofie e le poetiche e critiche arti, non vi fu poeta, il quale [non] potesse che per lunghissimi spazi tenergli dietro? Ma, lasciando queste due nostre, la difficultá d’Orazio, combinata con quello ch’abbiamo detto della commedia nuova, doveva pure porre in ricerca i Patrizi, gli Scaligeri, i Castelvetri ed altri valenti maestri d’arte poetica d’investigarne la ragion della differenza.
[808] Cotal ragione non può rifondersi altrove che nell’origine della poesia, sopra qui scoverta nella Sapienza poetica, e ’n conseguenza nella discoverta de’ caratteri poetici, ne’ quali unicamente consiste l’essenza della medesima poesia. Perché la commedia nuova propone ritratti de’ nostri presenti costumi umani, sopra i quali aveva meditato la socratica filosofia, donde dalle di lei massime generali d’intorno all’umana morale poterono i greci poeti, in quella addottrinati profondamente (quale Menandro, a petto di cui Terenzio da essi latini fu detto «Menandro dimezzato»); poterono, dico, fingersi cert’esempli luminosi di uomini d’idea, al lume e splendor de’ quali si potesse destar il volgo, il quale tanto è docile ad apprendere da’ forti esempli quanto è incapace d’apparare per massime ragionate. La commedia antica prendeva argomenti ovvero subietti veri e gli metteva in favola quali essi erano, come per una il cattivo Aristofane mise in favola il buonissimo Socrate e ’l rovinò. Ma la tragedia caccia fuori in iscena odi, sdegni, collere, vendette eroiche (ch’escano da nature sublimi, dalle quali naturalmente provengano sentimenti, parlari, azioni in genere, di ferocia, di crudezza, di atrocitá) vestiti di maraviglia; e tutte queste cose sommamente conformi tra loro ed uniformi ne’ lor subietti, i quali lavori si seppero unicamente fare da’ greci ne’ loro tempi dell’eroismo, nel fine de’ quali dovette venir Omero. Lo che con questa critica metafisica si dimostra: che le favole, le quali sul loro nascere eran uscite diritte e convenevoli, elleno ad Omero giunsero e torte e sconce; come si può osservare per tutta la Sapienza poetica sopra qui ragionata, che tutte dapprima furono vere storie, che tratto tratto s’alterarono e si corruppero, e cosí corrotte finalmente ad Omero pervennero. Ond’egli è da porsi nella terza etá de’ poeti eroici: dopo la prima, che ritruovò tali favole in uso di vere narrazioni, nella prima propia significazione della voce μῦθος, che da essi greci è diffinita «vera narrazione»; la seconda di quelli che l’alterarono e le corruppero; la terza, finalmente, d’Omero, che cosí corrotte le ricevé.
[809] Ma, per richiamarci al nostro proponimento, per la ragione
da noi di tal effetto assegnata, Aristotile nella Poetica dice che le bugie poetiche si seppero unicamente ritruovare da Omero, perché i di lui caratteri poetici, che in una sublime acconcezza sono incomparabili, quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici, quali sopra si sono nella Metafisica poetica diffiniti, a’ quali i popoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun d’essi generi. Come ad Achille, ch’è ’l subbietto dell’Iliade, attaccarono tutte le propietá della virtú eroica e tutt’i sensi e costumi uscenti da tali propietá di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici, implacabili, violenti, ch’arrogano tutta la ragione alla forza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descrive il carattere. Ad Ulisse, ch’è ’l subbietto dell’Odissea, appiccarono tutti quelli dell’eroica sapienza, cioè tutti i costumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, ingannevoli, salva sempre la propietá delle parole e l’indifferenza dell’azioni, ond’altri da se stessi entrasser in errore e s’ingannassero da se stessi. E ad entrambi tali caratteri attaccarono l’azioni de’ particolari, secondo ciascun de’ due generi, piú strepitose, le qual’i greci, ancora storditi e stupidi, avessero potuto destar e muover ad avvertirle e rapportarle a’ loro generi. I quali due caratteri, avendogli formati tutta una nazione, non potevano non fingersi che naturalmente uniformi (nella quale uniformitá, convenevole al senso comune di tutta una nazione, consiste unicamente il decoro, o sia la bellezza e leggiadria d’una favola); e, perché si fingevano da fortissime immaginative, non si potevano fingere che sublimi. Di che rimasero due eterne propietá in poesia: delle quali una è che ’l sublime poetico debba sempre andar unito al popolaresco; l’altra, ch’i popoli, i quali prima si lavoraron essi i caratteri eroici, ora non avvertono a’ costumi umani altrimente che per caratteri strepitosi di luminosissimi esempli.[Capitolo Quinto]
Pruove filosofiche per la discoverta del vero Omero
[810] Le quali cose stando cosí, vi si combinino queste pruove filosofiche:
i
[811] Quella che si è sopra tralle Degnitá noverata: che gli uomini sono naturalmente portati a conservare le memorie degli ordini e delle leggi che gli tengono dentro le loro societá.
ii
[812] Quella veritá ch’intese Lodovico Castelvetro: che prima dovette nascere l’istoria, dopo la poesia; perché la storia è una semplice enonziazione del vero, ma la poesia è una imitazione di piú. E l’uomo, per altro acutissimo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri princípi della poesia, col combinarvi questa pruova filosofica, che qui si pone per
iii
[813] Ch’essendo stati i poeti certamente innanzi agli storici volgari, la prima storia debba essere la poetica.
iv
[814] Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde μῦθος, la favola, fu diffinita «vera narratio», come abbiamo sopra piú volte detto); le quali nacquero dapprima per lo piú sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di lá
scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultá delle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto il secondo libro.v
[815] E, come nel medesimo libro si è dimostrato, cosí guaste e corrotte da Omero furono ricevute.
vi
[816] Che i caratteri poetici, ne’ quali consiste l’essenza delle favole, nacquero da necessitá di natura, incapace d’astrarne le forme e le propietá da’ subbietti; e, ’n conseguenza, dovett’essere maniera di pensare d’intieri popoli, che fussero stati messi dentro tal necessitá di natura, ch’è ne’ tempi della loro maggior barbarie. Delle quali è eterna propietá d’ingrandir sempre l’idee de’ particolari: di che vi ha un bel luogo d’Aristotile ne’ Libri morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d’ogni particolare fan massime. Del qual detto dev’essere la ragione: perché la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de’ sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia ingrandir essi particolari. Onde forse, appresso i poeti greci egualmente e latini, le immagini come degli dèi cosí degli eroi compariscono sempre maggiori di quelle degli uomini; e ne’ tempi barbari ritornati le dipinture, particolarmente del Padre eterno, di Gesú Cristo, della Vergine Maria, si veggono d’una eccedente grandezza.
vii
[817] Perché i barbari mancano di riflessione, la qual, mal usata, è madre della menzogna, i primi poeti latini eroici cantaron istorie vere, cioè le guerre romane. E ne’ tempi barbari ritornati, per sí fatta natura della barbarie, gli stessi poeti latini
non cantaron altro che istorie, come furon i Gunteri, i Guglielmi pugliesi ed altri; e i romanzieri de’ medesimi tempi credettero di scriver istorie vere: onde il Boiardo, l’Ariosto, venuti in tempi illuminati dalle filosofie, presero i subbietti de’ lor poemi dalla storia di Turpino, vescovo di Parigi. E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond’ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de’ trappassati, e perciò diede al poema il titolo di «commedia», qual fu l’antica de’ greci, che, come sopra abbiam detto, poneva persone vere in favola. E Dante somigliò in questo l’Omero dell’Iliade, la quale Dionigi Longino dice essere tutta «dramatica» o sia rappresentativa, come tutta «narrativa» essere l’Odissea. E Francesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne’ Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie. E qui nasce una luminosa pruova di ciò: che le prime favole furon istorie. Perché la satira diceva male di persone non solo vere, ma, di piú, conosciute; la tragedia prendeva per argomenti personaggi della storia poetica; la commedia antica poneva in favola chiari personaggi viventi; la commedia nuova, nata a’ tempi della piú scorta riflessione, finalmente finse personaggi tutti di getto (siccome nella lingua italiana non ritornò la commedia nuova che incominciando il secolo a maraviglia addottrinato del Cinquecento): né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio che fusse il principale subbietto d’una tragedia. E ’l gusto del volgo gravemente lo ci conferma, che non vuole drami per musica, de’ quali gli argomenti son tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intanto sopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, essendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri.viii
[818] Essendo tali stati i caratteri poetici, di necessitá le loro poetiche allegorie, come si è sopra dimostro per tutta la Sapienza poetica, devon unicamente contenere significati istorici de’ primi tempi di Grecia.
ix
[819] Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da’ comuni de’ popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare (come piú volte sopra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a’ loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultá appartengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò «memoria» dicesi da’ latini (come appo Terenzio truovasi «memorabile» in significato di «cosa da potersi immaginare», e volgarmente «comminisci» per «fingere», ch’è propio della fantasia, ond’è «commentum», ch’è un ritruovato finto); e «fantasia» altresí prendesi per l’ingegno (come ne’ tempi barbari ritornati si disse «uomo fantastico» per significar «uomo d’ingegno», come si dice essere stato Cola di Rienzo dall’autore contemporaneo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differenze: ch’è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l’altera e contrafá; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagioni i poeti teologi chiamarono la Memoria «madre delle muse».
x
[820] Perciò i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni: ch’è quello ond’il Castelvetro non seppe far uso del suo detto per rinvenire le vere origini della poesia; ché ed esso e tutti gli altri che ne han ragionato (infino da Aristotile e da Platone) potevano facilmente avvertire che tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princípi, come l’abbiamo nelle Degnitá proposto e nella Sapienza poetica dimostrato.
xi
[821] Che la ragion poetica determina esser impossibil cosa ch’alcuno sia e poeta e metafisico egualmente sublime, perché la metafisica astrae la mente da’ sensi, la facultá poetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi; la metafisica s’innalza sopra gli universali, la facultá poetica deve profondarsi dentro i particolari.
xii
[822] Che, ’n forza di quella degnitá sopra posta: — che ’n ogni facultá può riuscire con l’industria chi non vi ha la natura, ma in poesia è affatto niegato a chi non vi ha la natura di potervi riuscir con l’industria, — l’arti poetiche e l’arti critiche servono a fare colti gl’ingegni, non grandi. Perché la dilicatezza è una minuta virtú, e la grandezza naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi, come grande rovinoso torrente non può far di meno di non portar seco torbide l’acque e rotolare e sassi e tronchi con la violenza del corso, cosí sono le cose vili dette, che si truovano sí spesso in Omero.
xiii
[823] Ma queste non fanno che Omero egli non sia il padre e ’l principe di tutti i sublimi poeti.
xiv
[824] Perché udimmo Aristotile stimar innarrivabili le bugie omeriche; ch’è lo stesso che Orazio stima innimitabili i di lui caratteri.
xv
[825] Egli è infin al cielo sublime nelle sentenze poetiche, ch’abbiam dimostrato, ne’ Corollari della natura eroica nel libro secondo, dover esser concetti di passioni vere o che in forza d’un’accesa fantasia ci si facciano veramente sentire, e perciò debbon esser individuate in coloro che le sentono. Onde diffinimmo che le massime di vita, perché sono generali, sono sentenze di filosofi; e le riflessioni sopra le passioni medesime sono di falsi e freddi poeti.
xvi
[826] Le comparazioni poetiche prese da cose fiere e selvagge, quali sopra osservammo, sono incomparabili certamente in Omero.
xvii
[827] L’atrocitá delle battaglie omeriche e delle morti, come pur sopra vedemmo, fanno all’Iliade tutta la maraviglia.
xviii
[828] Ma tali sentenze, tali comparazioni, tali descrizioni pur sopra pruovammo non aver potuto essere naturali di riposato, ingentilito e mansueto filosofo.
xix
[829] Che i costumi degli eroi omerici sono di fanciulli per la leggerezza delle menti, di femmine per la robustezza della fantasia,
di violentissimi giovani per lo fervente bollor della collera, come pur sopra si è dimostrato, e, ’n conseguenza, impossibili da un filosofo fingersi con tanta naturalezza e felicitá.xx
[830] Che l’inezie e sconcezze sono, come pur si è qui sopra pruovato, effetti dell’infelicitá, di che avevano travagliato, nella somma povertá della loro lingua, mentre la si formavano, i popoli greci, a spiegarsi.
xxi
[831] E contengansi pure gli piú sublimi misteri della sapienza riposta, i quali abbiamo dimostrato nella Sapienza poetica non contenere certamente: come suonano, non posson essere stati concetti di mente diritta, ordinata e grave, qual a filosofo si conviene.
xxii
[832] Che la favella eroica, come si è sopra veduto nel libro secondo, nell’Origini delle lingue, fu una favella per simiglianze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi e di spezie, ch’abbisognano per diffinire le cose con propietá, e, ’n conseguenza, nata per necessitá di natura comune ad intieri popoli.
xxiii
[833] Che per necessitá di natura, come anco nel libro secondo si è detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare piú facilmente le loro storie famigliari e civili.
xxiv
[834] Che tali favole, tali sentenze, tali costumi, tal favella, tal verso si dissero tutti «eroici», e si celebrarono ne’ tempi ne’ quali la storia ci ha collocato gli eroi, com’appieno si è dimostrato sopra nella Sapienza poetica.
xxv
[835] Adunque tutte l’anzidette furono propietá d’intieri popoli e, ’n conseguenza, comuni a tutti i particolari uomini di tali popoli.
xxvi
[836] Ma noi, per essa natura, dalla quale son uscite tutte l’anzidette propietá, per le quali egli fu il massimo de’ poeti, niegammo che Omero fusse mai stato filosofo.
xxvii
[837] Altronde dimostrammo sopra nella Sapienza poetica che i sensi di sapienza riposta da’ filosofi, i quali vennero appresso, s’intrusero dentro le favole omeriche.
xxviii
[838] Ma, siccome la sapienza riposta non è che di pochi uomini particolari, cosí il solo decoro de’ caratteri poetici eroici, ne’ quali consiste tutta l’essenza delle favole eroiche, abbiamo testé veduto che non posson oggi conseguirsi da uomini dottissimi in filosofie, arti poetiche ed arti critiche. Per lo qual decoro dá Aristotile il privilegio ad Omero d’esser innarrivabili le di lui bugie; ch’è lo stesso che quello, che gli dá Orazio, d’esser innimitabili i di lui caratteri.
[Capitolo Sesto]
Pruove filologiche per la discoverta del vero Omero
[839] Con questo gran numero di pruove filosofiche, fatte buona parte in forza della critica metafisica sopra gli autori delle nazioni gentili, nel qual numero è da porsi Omero, perocché non abbiamo certamente scrittor profano che sia piú antico di lui, come risolutamente il sostiene Giuseffo ebreo, si congiugnan ora queste pruove filologiche:
i
[840] Che tutte l’antiche storie profane hanno favolosi i princípi.
ii
[841] Che i popoli barbari, chiusi a tutte l’altre nazioni del mondo, come furono i Germani antichi e gli americani, furono ritruovati conservar in versi i princípi delle loro storie, conforme si è sopra veduto.
iii
[842] Che la storia romana si cominciò a scrivere da’ poeti.
iv
[843] Che ne’ tempi barbari ritornati i poeti latini ne scrissero l’istorie.
v
[844] Che Maneto, pontefice massimo egizio, portò l’antichissima storia egiziaca scritta per geroglifici ad una sublime teologia naturale.
vi
[845] E nella Sapienza poetica tale dimostrammo aver fatto i greci filosofi dell’antichissima storia greca narrata per favole.
vii
[846] Onde noi sopra, nella Sapienza poetica, abbiam dovuto tenere un cammino affatto retrogrado da quello ch’aveva tenuto Maneto, e dai sensi mistici restituir alle favole i loro natii sensi storici; e la naturalezza e facilitá, senza sforzi, raggiri e contorcimenti, con che l’abbiam fatto, appruova la propietá dell’allegorie storiche che contenevano.
viii
[847] Lo che gravemente appruova ciò che Strabone in un luogo d’oro afferma: prima d’Erodoto, anzi prima d’Ecateo milesio, tutta la storia de’ popoli della Grecia essere stata scritta da’ lor poeti.
ix
[848] E noi nel libro secondo dimostrammo i primi scrittori delle nazioni cosí antiche come moderne essere stati poeti.
x
[849] Vi sono due aurei luoghi nell’Odissea, dove, volendosi acclamar ad alcuno d’aver lui narrato ben un’istoria, si dice
averla raccónta da musico e da cantore. Che dovetter esser appunto quelli che furon i suoi rapsodi, i quali furon uomini volgari, che partitamente conservavano a memoria i libri dei poemi omerici.xi
[850] Che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi, come piú volte l’hacci detto risolutamente Flavio Giuseffo ebreo contro Appione, greco gramatico.
xii
[851] Ch’i rapsodi partitamente, chi uno, chi altro, andavano cantando i libri d’Omero nelle fiere e feste per le cittá della Grecia.
xiii
[852] Che dall’origini delle due voci, onde tal nome «rapsodi» è composto, erano «consarcinatori di canti», che dovettero aver raccolto non da altri certamente che da’ loro medesimi popoli: siccome ὅμηρος vogliono pur essersi detta da ὁμού,/ «simul», ed εἴρειν, «connectere», ove significa il «mallevadore», perocché leghi insieme il creditore col debitore. La qual origine è cotanto lontana e sforzata quanto è agiata e propia per significare l’Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore di favole.
xiv
[853] Che i Pisistratidi, tiranni d’Atene, eglino divisero e disposero, o fecero dividere e disponere, i poemi d’Omero nell’Iliade e nell’Odissea: onde s’intenda quanto innanzi dovevan essere stati una confusa congerie di cose, quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell’uno e dell’altro poema omerico.
xv
[854] Che gli stessi Pisistratidi ordinarono ch’indi in poi da’ rapsodi fussero cantati nelle feste panatenaiche, come scrive Cicerone, De natura deorum, ed Eliano, in ciò seguíto dallo Scheffero.
xvi
[855] Ma i Pisistratidi furono cacciati da Atene pochi anni innanzi che lo furon i Tarquini da Roma: talché, ponendosi Omero a’ tempi di Numa, come abbiam sopra pruovato, pur dovette correre lunga etá appresso ch’i rapsodi avessero seguitato a conservar a memoria i di lui poemi. La qual tradizione toglie affatto il credito all’altra di Aristarco ch’a’ tempi de’ Pisistratidi avesse fatto cotal ripurga, divisione ed ordinamento de’ poemi d’Omero, perché ciò non si poté fare senza la scrittura volgare, e sí da indi in poi non vi era bisogno piú de’ rapsodi che gli cantassero per parti ed a mente.
xvii
[856] Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poiché non abbiamo autoritá che da’ rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, e da’ cronologi, con una vanissima diligenza, è posto trent’anni innanzi d’Omero, si dee porre dopo de’ Pisistratidi. Se non pure, qual’i rapsodi omerici, tali furono i poeti ciclici, che conservarono tutta la storia favolosa de’ greci dal principio de’ loro dèi fin al ritorno d’Ulisse in Itaca. I quali poeti, dalla voce κύκλος, non poteron esser altri ch’uomini idioti che cantassero le favole a gente volgare raccolta in cerchio il dí di festa; qual cerchio è quell’appunto che Orazio nell’Arte dice «vilem patulumque orbem» che ’l Dacier punto non riman soddisfatto de’ commentatori, ch’Orazio ivi voglia dir «i lunghi episodi». E forse la ragione di punto non soddisfarsene ella è questa: perché non è necessario
che l’episodio d’una favola, perocché sia lungo, debba ancor esser vile: come, per cagion d’esemplo, quelli delle delizie di Rinaldo con Armida nel giardino incantato e del ragionamento che fa il vecchio pastore ad Erminia sono lunghi bensí, ma pertanto non sono vili, perché l’uno è ornato, l’altro è tenue o dilicato, entrambi nobili. Ma ivi Orazio, avendo dato l’avviso a’ poeti tragici di prendersi gli argomenti da’ poemi di Omero, va incontro alla difficultá, ch’in tal guisa essi non sarebbon poeti, perché le favole sarebbero le ritruovate da Omero. Però Orazio risponde loro che le favole epiche d’Omero diverranno favole tragiche propie, se essi staranno sopra questi tre avvisi. De’ quali il primo è: se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l’Orlando furioso o innamorato o altro romanzo in rima a’ vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dí delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con piú parole; — il secondo, se non ne saranno fedeli traduttori; — il terzo ed ultimo avviso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori, ma, seguitando i costumi ch’Omero attribuisce a’ suoi eroi, eglino da tali stessi costumi faranno uscire altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sí circa i medesimi subietti saranno altri poeti da Omero. Cosí nella stess’Arte lo stesso Orazio chiama «poeta ciclico» un poeta triviale e da fiera. Sí fatti autori ordinariamente si leggono detti κύκλιοι ed ἐγκύκλιοι e la loro raccolta ne fu detta κύκλος ἐπικός, κύκλια ἔπη, ποίημα ἐγκύκλικον e, senz’aggiunta alcuna, talora κύκλος, come osserva Gerardo Langbenio nella sua prefazione a Dionigi Longino. Talché di questa maniera può essere ch’Esiodo, il quale contiene tutte favole di dèi, egli fusse stato innanzi d’Omero.xviii
[857] Per questa ragione lo stesso è da dirsi d’Ippocrate, il quale lasciò molte e grandi opere scritte non giá in verso ma in prosa, che perciò naturalmente non si potevano conservar a memoria: ond’egli è da porsi circa i tempi d’Erodoto.
xix
[858] Per tutto ciò il Vossio troppo di buona fede ha creduto confutare Giuseffo con tre iscrizioni eroiche, una d’Anfitrione, la seconda d’Ippocoonte, la terza di Laomedonte (imposture somiglianti a quelle che fanno tuttavia i falsatori delle medaglie); e Martino Scoockio assiste a Giuseffo contro del Vossio.
xx
[859] A cui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di lettere greche volgari, e la lettera da Preto scritta ad Euria, insidiosa a Bellerofonte, come abbiamo altra volta sopra osservato, dice essere stata scritta per σήματα.^/
xxi
[860] Che Aristarco emendò i poemi d’Omero, i quali pure ritengono tanta varietá di dialetti, tante sconcezze di favellari, che deon essere stati vari idiotismi de’ popoli della Grecia e tante licenze eziandio di misure.
xxii
[861] Di Omero non si sa la patria, come si è sopra notato.
xxiii
[862] Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino, come si è osservato pur sopra.
xxiv
[863] Sopra si son arrecate forti congetture l’Omero dell’Odissea essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodí, e quello dell’Iliade essere stato dell’oriente verso settentrione.
xxv
[864] Non se ne sa nemmeno l’etá.
xxvi
[865] E l’oppenioni ne sono sí molte e cotanto varie, che ’l divario è lo spazio di quattrocensessant’anni, ponendolo, dalle sommamente opposte tra loro, una a’ tempi della guerra di Troia, l’altra verso i tempi di Numa.
xxvii
[866] Dionigi Longino, non potendo dissimulare la gran diversitá degli stili de’ due poemi, dice che Omero essendo giovine compose l’Iliade e vecchio poi l’Odissea: particolaritá invero da sapersi di chi non si seppero le due cose piú rilevanti nella storia, che sono prima il tempo e poi il luogo, delle quali ci ha lasciato al buio, ove ci narra del maggior lume di Grecia.
xxviii
[867] Lo che dee togliere tutta la fede ad Erodoto, o chi altro ne sia l’autore, nella Vita d’Omero, ove ne racconta tante belle varie minute cose, che n’empie un giusto volume; ed alla Vita che ne scrisse Plutarco, il qual, essendo filosofo, ne parlò con maggiore sobrietá.
xxix
[868] Ma forse Longino formò cotal congettura, perché Omero spiega nell’Iliade la collera e l’orgoglio d’Achille, che sono propietá di giovani, e nell’Odissea narra le doppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi di vecchi.
xxx
[869] È pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecitá prese sí fatto nome, ch’in lingua ionica vuol dir «cieco».
xxxi
[870] Ed Omero stesso narra ciechi i poeti che cantano nelle cene de’ grandi, come cieco colui che canta in quella che dá Alcinoo ad Ulisse, e pur cieco l’altro che canta nella cena de’ proci.
xxxii
[871] Ed è propietá di natura umana ch’i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria.
xxxiii
[872] E finalmente ch’egli fu povero e andò per gli mercati di Grecia cantando i suoi propi poemi.
[SEZIONE SECONDA] Discoverta del vero Omero
[Introduzione]
[873] Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate da altri d’intorno ad Omero e i di lui poemi, senza punto averloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno avevamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo col quale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi ingegni d’uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, con leggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospettarono che Omero finor creduto non fusse vero: tutte queste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che tale sia adivenuto di Omero appunto quale della guerra troiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de’ tempi alla storia, pur i critici piú avveduti giudicano che quella non mai siesi fatta nel mondo. E certamente, se, come della guerra troiana, cosí di Omero non fussero certi grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, a tante difficultá si direbbe che Omero fusse stato un poeta d’idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Ma tali e tante difficultá, e insiememente i poemi di lui pervenutici, sembrano farci cotal forza d’affermarlo per la metá: che quest’Omero sia egli stato un’idea ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie.
[Capitolo Primo]
Le sconcezze e inverisimiglianze dell’Omero finor creduto divengono nell’Omero qui scoverto convenevolezze e necessitá.
[874] Per sí fatta discoverta tutte le cose e discorse e narrate, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell’Omero finor creduto, divengono nell’Omero qui ritruovato tutte convenevolezze e necessitá. E primieramente le stesse cose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano a dire:
i
[875] Che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest’Omero.
ii
[876] Che perciò varino cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui etá, perché un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocensessant’anni.
iii
[877] E la cecitá
iv
[878] e la povertá d’Omero furono de’ rapsodi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse «omèro», prevalevano
nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le cittá della Grecia, de’ quali essi eran autori, perch’erano parte di que’ popoli che vi avevano composte le loro istorie.v
[879] Cosí Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, ’n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generositá; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocitá: a’ tempi d’Omero vecchio giá gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultá poté tanto nel divino Platone, che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, cosí, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltá, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella piú s’avacciassero.
vi
[880] In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliade avere di molt’etá preceduto l’Omero autore dell’Odissea.
vii
[881] Si dimostra che quello fu dell’oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell’occidente di Grecia verso mezzodí, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo regno.
viii
[882] Cosí Omero, sperduto dentro la folla de’ greci popoli, si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da’ critici, e particolarmente:
ix
[883] delle vili sentenze,
x
[884] de’ villani costumi,
xi
[885] delle crude comparazioni,
xii
[886] degl’idiotismi,
xiii
[887] delle licenze de’ metri,
xiv
[888] dell’incostante varietá de’ dialetti,
xv
[889] e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini.
[890] Le quali favole Dionigi Longino non si fida di sostenere che co’ puntelli dell’allegorie filosofiche; cioè a dire che, come suonano cantate a’ greci, non possono avergli produtto la gloria d’essere stato l’ordinatore della greca civiltá. La qual difficultá ricorre in Omero la stessa, che noi sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica facemmo contro d’Orfeo, detto il fondatore dell’umanitá della Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietá di essi popoli greci, e particolarmente l’ultima: ché, nel fondarsi, come la teogonia naturale sopra l’ha dimostrato, i greci di sé, pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnanimi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni, con l’oscurarsi le favole e col corrompersi de’ costumi, come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé, dissoluti estimaron gli dèi, — per quella degnitá, la qual è stata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attirano le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilitá, — perché temevano gli dèi contrari a’ loro voti, se fussero stati contrari a’ di loro costumi, com’altra volta si è detto.
xvi
[891] Ma di piú appartengono ad Omero per giustizia i due grandi privilegi, che ’n fatti son uno, che gli dánno Aristotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratteri eroici solamente si seppero finger da Omero. Onde Orazio stesso si professa di non esser poeta, perché o non può o non sa osservare quelli che chiama «colores operum», che tanto suona quanto le «bugie poetiche», le quali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge «obtinere colorem» nel sentimento di «dir bugia che per tutti gli aspetti abbia faccia di veritá», qual dev’esser la buona favola.
[892] Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privilegi, ch’a lui dánno tutti i maestri d’arte poetica, d’essere stato incomparabile:
xvii
[893] in quelle sue selvagge e fiere comparazioni,
xviii
[894] in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti,
xix
[895] in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi,
xx
[896] in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono propietá dell’etá eroica de’ greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta; perché, nell’etá della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo.
xxi
[897] Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, poterono far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero.
[898] E, quel ch’è piú, egli fa certo acquisto degli tre immortali elogi, che gli son dati:
xxii
[899] primo, d’essere stato l’ordinatore della greca polizia o sia civiltá;
xxiii
[900] secondo, d’essere stato il padre di tutti gli altri poeti;
xxiv
[901] terzo, d’essere stato il fonte di tutte le greche filosofie: niuno de’ quali all’Omero finor creduto poteva darsi. Non lo primo, perché, da’ tempi di Deucalione e Pirra, vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi incominciata co’ matrimoni a fondare la greca civiltá, come si è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poetica che la fondò. Non lo secondo, perché prima d’Omero fiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri, tra’ quali i cronologi han posto Esiodo e fattolo di trent’anni prevenir ad Omero; altri poeti eroici innanzi d’Omero sono affermati da Cicerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazione evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demodoco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente il terzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appieno nella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favole omeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro filosofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, diede l’occasioni a’ filosofi di meditare le lor altissime veritá, e diede altresí le comoditá di spiegarle, conforme il promettemmo nel di lui principio e ’l facemmo vedere per tutto il libro secondo.
[Capitolo Secondo]
I poemi d’Omero si truovano due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.
[902] Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne una sfolgorantissima lode:
xxv
[903] d’esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilitá;
xxvi
[904] onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salire nell’alto credito d’essere due grandi tesori de’ costumi dell’antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avvenuto de’ poemi d’Omero, che avvenne della legge delle XII Tavole: perché, come queste, essendo state credute leggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venute a’ romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia del diritto naturale delle genti eroiche del Lazio; cosí, perché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d’un uomo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta finor nascosta l’istoria del diritto naturale delle genti di Grecia.
[APPENDICE]
Istoria de’ poeti dramatici e lirici ragionata
[905] Giá dimostrammo sopra tre essere state l’etá de’ poeti innanzi d’Omero: la prima de’ poeti teologi, ch’i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda, de’ poeti eroici, che l’alterarono e le corruppero; la terza d’Omero, ch’alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell’oscurissima antichitá, ovvero la spiegazione dell’idee ch’andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de’ poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filosofi.
[906] Essi pongono tra’ lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de’ tempi eroici, e ch’egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che ’l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch’Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l’autore, ove nell’Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l’«Omero de’ tragici»; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama τραγικώτατον. Dicono che dentro la medesima etá provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprí la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la
commedia d’Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de’ tragici, altri in quello de’ lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne’ tempi de’ sette savi di Grecia.[907] La qual difficultá per solversi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.
[908] I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl’inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d’Omero, tessuti in verso eroico. Dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra’ latini i primi poeti furono gli autori de’ versi saliari, ch’erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da’ sacerdoti chiamati «salii» (forse detti cosí dal saltare, come saltando in giro s’introdusse il primo coro tra’ greci), i frantumi de’ quali versi sono le piú antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c’hanno un’aria di verso eroico, com’abbiam sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi princípi dell’umanitá delle nazioni, che ne primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a’ tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch’i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne’ tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d’eroi, come gli cantò Achille. Cosí di tal sorta di lirici sagri dovett’esser Anfione metinneo, il qual altresí fu autore del ditirambo; e il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e sí il ditirambo d’Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia.
[909] I nuovi furono i lirici melici, de’ quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso dovette venire dopo
del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l’eroico. Cosí Pindaro venne ne’ tempi della virtú pomposa di Grecia, ammirata ne’ giuochi olimpici, ne’ quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a’ tempi piú sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne’ di lei tempi piú inteneriti e piú molli.[910] I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co’ personaggi de’ satiri, ch’in quella rozzezza e semplicitá dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e ’l petto di fecce d’uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente «cornuti»); e sí può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie. E tutto ciò convenevolmente a’ tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d’uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Cosí è forte congettura che, anzi da tal maschera che da ciò: — che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si dice τράγος, — avesse preso il nome la tragedia, e ch’ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest’eterna propietá, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, cosí rozzamente mascherati sopra i carri co’ quali portavano l’uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanza di Bacco», di dire villanie a’ signori. Quindi s’intenda con quanto di veritá poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché πᾶν significa «tutto», ficcarono la mitologia filosofica che significhi l’universo, e che le parti basse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l’elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono
la mitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse «lex per satyram» quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch’ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de’ latini né de’ greci ce n’è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a’ romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento.[911] Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d’Anfione, ch’era coro di satiri, in coro d’uomini. E la tragedia mezzana dovett’esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finí la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non piú intervenirvi il coro, ch’è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche.
[912] In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d’esemplo, quando i popoli greci giá parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch’è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch’Orazio chiama «presto» (lo che in una degnitá si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l’acerbezza de’ versi avesse ridutti la figliuola col padre alla disperazion d’afforcarsi: che
dev’esser un’istoria di contesa eroica d’intorno a’ connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole.[913] Quindi esce quel mostro d’arte poetica, ch’un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima piú grande dell’epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenitá.
[914] Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tragici» fecero porre Ippocrate a’ tempi de’ sette savi; il quale dev’esser posto circa i tempi d’Erodoto, perché venne in tempi ch’ancora si parlava buona parte per favole (com’è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co’ quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto.
LIBRO QUARTO del corso che fanno le nazioni
[Introduzione]
[915] In forza de’ princípi di questa Scienza, stabiliti nel libro primo; e dell’origini di tutte le divine ed umane cose della gentilitá, ricercate e discoverte dentro la Sapienza poetica nel libro secondo; e nel libro terzo ritruovati i poemi d’Omero essere due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia, siccome la legge delle XII Tavole era stata giá da noi ritruovata esser un gravissimo testimone del diritto naturale delle genti del Lazio: — ora con tai lumi cosí di filosofia come di filologia, in séguito delle degnitá d’intorno alla storia ideal eterna giá sopra poste, in questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformitá procedendo in tutti i loro tanto vari e sí diversi costumi sopra la divisione delle tre etá, che dicevano gli egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Perché sopra di essa si vedranno reggere con costante e non mai interrotto ordine di cagioni e d’effetti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di nature; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essi costumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti; e, ’n conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie di Stati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra loro gli uomini venuti all’umana societá tutte queste giá dette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spezie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificarle, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezie d’autoritá e da altrettante di ragioni in altrettante spezie di giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per
tre sètte de’ tempi, che professano in tutto il corso della lor vita le nazioni. Le quali tre speziali unitá, con altre molte che loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unitá generale, ch’è l’unitá della religione d’una divinitá provvedente, la qual è l’unitá dello spirito, che informa e dá vita a questo mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del lor corso.[SEZIONE PRIMA] Tre spezie di nature
[916] La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima ne’ debolissimi di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a’ corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La qual natura fu quella de’ poeti teologi, che furono gli piú antichi sappienti di tutte le nazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fondarono sulla credenza, ch’ebbe ogniuna, di certi suoi propi dèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, per quello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spaventosamente gli dèi ch’essi stessi si avevano finti. Di che restarono queste due eterne propietá: una, che la religione è l’unico mezzo potente a raffrenare la fierezza de’ popoli; l’altra, ch’allora vanno bene le religioni, ove coloro che vi presiedono, essi stessi internamente le riveriscano.
[917] La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano stati generati con gli auspíci di Giove. Nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltá: — perocché fussero della spezie umana; — per la qual essi furono i principi dell’umana generazione. La quale natural nobiltá essi vantavano sopra quelli che dall’infame comunion bestiale, per salvarsi nelle risse ch’essa comunion produceva, s’erano dappoi riparati a’
di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per bestie. Siccome l’una e l’altra natura sopra si è ragionata.[918] La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere.
[SEZIONE SECONDA] Tre spezie di costumi
[919] I primi costumi [furono] tutti aspersi di religione e pietá, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, venuti di fresco dopo il diluvio.
[920] I secondi furono collerici e puntigliosi, quali sono narrati di Achille.
[921] I terzi son officiosi, insegnati dal propio punto de’ civili doveri.
[SEZIONE TERZA] Tre spezie di diritti naturali
[922] Il primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sé e le loro cose essere tutte in ragion degli dèi, sull’oppenione che tutto fussero o facessero i dèi.
[923] Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta giá dalla religione, che sola può tener in dovere la forza, ove non sono, o, se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla. Perciò la provvedenza dispose che le prime genti, per natura feroci, fussero persuase di sí fatta loro religione, acciocché si acquetassero naturalmente alla forza, e che, non essendo capaci ancor di ragione, estimassero la ragione dalla fortuna, per la quale si consigliavano con la divinazion degli auspíci. Tal diritto della forza è ’l diritto di Achille, che pone tutta la ragione nella punta dell’asta.
[924] Il terzo è ’l diritto umano dettato dalla ragion umana tutta spiegata.
[SEZIONE QUARTA] Tre spezie di governi
[925] I primi furono divini, che i greci direbbono «teocratici», ne’ quali gli uomini credettero ogni cosa comandare gli dèi; che fu l’etá degli oracoli, che sono la piú antica delle cose che si leggono sulla storia.
[926] I secondi furono governi eroici ovvero aristocratici, ch’è tanto dire quanto «governi d’ottimati», in significazion di «fortissimi»; ed anco, in greco, «governi d’Eraclidi» o usciti da razza erculea, in sentimento di «nobili», quali furono sparsi per tutta l’antichissima Grecia, e poi restò lo spartano; ed eziandio «governi di cureti», ch’i greci osservarono sparsi nella Saturnia, o sia antica Italia, in Creta ed in Asia; e quindi «governo di quiriti» ai romani, o sieno di sacerdoti armati in pubblica ragunanza. Ne’ quali, per distinzion di natura piú nobile, perché creduta di divina origine, ch’abbiam sopra detto, tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini regnanti de’ medesimi eroi, ed a’ plebei, come riputati d’origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita e della natural libertá.
[927] I terzi sono governi umani, ne’ quali, per l’ugualitá di essa intelligente natura, la qual è la propia natura dell’uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle loro cittá, cosí libere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze giuste della cittá, per le quali forze giuste son essi i signori della libertá popolare; o nelle monarchie, nelle qual’i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essi soli in lor mano tutta la forza dell’armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura.
[SEZIONE QUINTA] Tre spezie di lingue
[928] Tre spezie di lingue.
[929] Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a’ romani gli «atti legittimi», co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilitá. Qual lingua si conviene alle religioni per tal eterna propietá: che piú importa loro essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini gentili non sapevano ancora articolar la favella.
[930] La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l’armi; la qual favella, come abbiam sopra detto, restò alla militar disciplina.
[931] La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s’usano, articolati.
[SEZIONE SESTA] Tre spezie di caratteri
[932] Tre spezie di caratteri.
[933] De’ qual’i primi furon divini, che propiamente si dissero «geroglifici», de’ quali sopra pruovammo che ne’ loro princípi si servirono tutte le nazioni. E furono certi universali fantastici, dettati naturalmente da quell’innata propietá della mente umana di dilettarsi dell’uniforme (di che proponemmo una degnitá), lo che non potendo fare con l’astrazione per generi, il fecero con la fantasia per ritratti. A’quali universali poetici riducevano tutte le particolari spezie a ciascun genere appartenenti, com’a Giove tutte le cose degli auspíci, a Giunone tutte le cose delle nozze, e cosí agli altri l’altre.
[934] I secondi furono caratteri eroici, ch’erano pur universali fantastici, a’ quali riducevano le varie spezie delle cose eroiche; come ad Achille tutti i fatti de’ forti combattidori, ad Ulisse tutti i consigli de’ saggi. I quali generi fantastici, con avvezzarsi poscia la mente umana ad astrarre le forme e le propietá da’ subbietti, passarono in generi intelligibili, onde provennero appresso i filosofi; da’ quali poscia gli autori della commedia nuova, la quale venne ne’ tempi umanissimi della Grecia, presero i generi intelligibili de’ costumi umani e ne fecero ritratti nelle loro commedie.
[935] Finalmente si ritruovarono i volgari caratteri, i quali andarono di compagnia con le lingue volgari: poiché, come queste si compongono di parole, che sono quasi generi de’ particolari co’ quali avevan innanzi parlato le lingue eroiche (come, per l’esemplo sopra arrecato, della frase eroica «mi bolle il sangue nel cuore», ne fecero questa voce: «m’adiro»); cosí di
cenventimila caratteri geroglifici, che, per esemplo, usano fin oggi i chinesi, ne fecero poche lettere, alle quali, come generi, si riducono le cenventimila parole delle quali i chinesi compongono la loro lingua articolata volgare. Il qual ritruovato è certamente un lavoro di mente ch’avesse piú che dell’umana; onde sopra udimmo Bernardo da Melinckrot ed Ingewaldo Elingio che ’l credono ritruovato divino. E tal comun senso di maraviglia è facile ch’abbia mosso le nazioni a credere ch’uomini eccellenti in divinitá avesser loro ritruovato sí fatte lettere, come san Girolamo agl’illiri, come san Cirillo agli slavi, come altri ad altre, conforme osserva e ragiona Angelo Rocha nella Biblioteca vaticana, ove gli autori delle lettere, che diciamo «volgari», coi lor alfabeti sono dipinti. Le quali oppenioni si convincono manifestamente di falso col solo domandare: — Perché non l’insegnarono le loro propie? — La qual difficultá abbiam noi sopra fatto di Cadmo, che dalla Fenicia aveva portato a’ greci le lettere, e questi poi usarono forme di lettere cotanto diverse dalle fenicie.[936] Dicemmo sopra tali lingue e tali lettere esser in signoria del volgo de’ popoli, onde sono dette e l’une e l’altre «volgari». Per cotal signoria e di lingue e di lettere debbon i popoli liberi esser signori delle lor leggi, perché dánno alle leggi que’ sensi ne’ quali vi traggono ad osservarle i potenti, che, come nelle Degnitá fu avvisato, non le vorrebbono. Tal signoria è naturalmente niegato a’ monarchi di toglier a’ popoli; ma, per questa stessa loro niegata natura di umane cose civili, tal signoria, inseparabile da’ popoli, fa in gran parte la potenza d’essi monarchi, perch’essi possano comandare le loro leggi reali, alle quali debbano star i potenti, secondo i sensi ch’a quelle dánno i lor popoli. Per tal signoria di volgari lettere e lingue è necessario, per ordine di civil natura, che le repubbliche libere popolari abbiano preceduto alle monarchie.
[SEZIONE SETTIMA] Tre spezie di giurisprudenze
[937] Tre spezie di giurisprudenze ovvero sapienze.
[938] La prima fu una sapienza divina, detta, come sopra vedemmo, «teologia mistica», che vuol dire «scienza di divini parlari» o d’intendere i divini misteri della divinazione, e sí fu scienza in divinitá d’auspíci e sapienza volgare, della quale furono sappienti i poeti teologi, che furono i primi sappienti del gentilesimo; e da tal mistica teologia essi se ne dissero «mystae», i quali Orazio, con iscienza, volta «interpetri degli dèi». Talché di questa prima giurisprudenza fu il primo e propio «interpretari», detto quasi «interpatrari», cioè «entrare in essi padri», quali furono dapprima detti gli dèi, come si è sopra osservato; che Dante direbbe «indiarsi», cioè entrare nella mente di Dio. E tal giurisprudenza estimava il giusto dalla sola solennitá delle divine cerimonie; onde venne a’ romani tanta superstizione degli atti legittimi, e nelle loro leggi ne restarono quelle frasi «iustae nuptiae», «iustum testamentum», per nozze e testamento «solenni».
[939] La seconda fu la giurisprudenza eroica, di cautelarsi con certe propie parole, qual è la sapienza di Ulisse, il quale, appo Omero, sempre parla sí accorto, che consiegua la propostasi utilitá, serbata sempre la propietá delle sue parole. Onde tutta la riputazione de’ giureconsulti romani antichi consisteva in quel lor «cavere»; e quel loro «de iure respondere» pur altro non era che cautelar coloro, ch’avevano da sperimentar in giudizio la lor ragione, d’esporre al pretore i fatti cosí circostanziati, che le formole dell’azioni vi cadessero sopra a livello, talché il pretore non potesse loro niegarle. Cosí, a’ tempi barbari
ritornati, tutta la riputazion de’ dottori era in truovar cautele d’intorno a’ contratti o ultime volontá ed in saper formare domande di ragione ed articoli; ch’era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giureconsulti.[940] La terza è la giurisprudenza umana, che guarda la veritá d’essi fatti e piega benignamente la ragion delle leggi a tutto ciò che richiede l’ugualitá delle cause; la qual giurisprudenza si celebra nelle repubbliche libere popolari, e molto piú sotto le monarchie, ch’entrambe sono governi umani.
[941] Talché le giurisprudenze divina ed eroica si attennero al certo ne’ tempi delle nazioni rozze; l’umana guarda il vero ne’ tempi delle medesime illuminate. E tutto ciò, in conseguenza delle diffinizioni del certo e del vero, e delle degnitá che se ne sono poste negli Elementi.
[SEZIONE OTTAVA] Tre spezie d’autoritá
[942] Furono tre spezie d’autoritá. Delle quali la prima è divina, per la quale dalla provvedenza non si domanda ragione; la seconda eroica, riposta tutta nelle solenni formole delle leggi; la terza umana, riposta nel credito di persone sperimentate, di singolar prudenza nell’agibili e di sublime sapienza nell’intelligibili cose.
[943] Le quali tre spezie d’autoritá, ch’usa la giurisprudenza dentro il corso che fanno le nazioni, vanno di séguito a tre sorte d’autoritá de’ senati, che si cangiano dentro il medesimo loro corso.
[944] Delle quali la prima fu autoritá di dominio, dalla quale restarono detti «autores» coloro da’ quali abbiamo cagion di dominio, ed esso dominio nella legge delle XII Tavole sempre «autoritas» vien appellato. La qual autoritá mise capo ne’ governi divini fin dallo stato delle famiglie, nel quale la divina autoritá dovett’essere degli dèi, perch’era creduto, con giusto senso, tutto essere degli dèi. Convenevolmente, appresso, nelle aristocrazie eroiche, dove i senati composero (com’ancor in quelle de’ nostri tempi compongono) la signoria, tal autoritá fu di essi senati regnanti. Onde i senati eroici davano la lor approvagione a ciò ch’avevano innanzi trattato i popoli, che Livio dice «eius, quod populus iussisset, deinde patres fierent autores»: però, non dall’interregno di Romolo, come narra la storia, ma da’ tempi piú bassi dell’aristocrazia, ne’ quali era stata comunicata la cittadinanza alla plebe, come sopra si è ragionato. Il qual ordinamento, come lo stesso Livio dice, «saepe spectabat ad vim», sovente minacciava rivolte; tanto che, se ’l popolo ne
voleva venir a capo, doveva, per esemplo, nominar i consoli ne’ qual’inchinasse il senato: appunto come sono le nominazioni de’ maestrati che si fanno da’ popoli sotto le monarchie.[945] Dalla legge di Publilio Filone in poi, con la quale fu dichiarato il popolo romano libero ed assoluto signor dell’imperio, come sopra si è detto, l’autoritá del senato fu di tutela; conforme l’approvagione de’ tutori a’ negozi che si trattano da’ pupilli, che sono signori de’ loro patrimoni, si dice «autoritas tutorum». La qual autoritá si prestava dal senato al popolo in essa formola della legge, conceputa innanzi in senato, nella quale, conforme dee prestarsi l’autoritá da’ tutori a’ pupilli, il senato fusse presente al popolo, presente nelle grandi adunanze, nell’atto presente di comandar essa legge, s’egli volessela comandare; altrimente, l’antiquasse e «probaret antiqua», ch’è tanto dire quanto ch’egli dichiarasse che non voleva novitá. E tutto ciò, acciocché il popolo, nel comandare le leggi, per cagione del suo infermo consiglio, non facesse un qualche pubblico danno, e perciò, nel comandarle, si facesse regolar dal senato. Laonde le formole delle leggi, che dal senato si portavano al popolo perch’egli le comandasse, sono con iscienza da Cicerone diffinite «perscriptae autoritates»: non autoritá personali, come quelle de’ tutori, i quali con la loro presenza appruovano gli atti che si fan da’ pupilli: ma autoritá distese a lungo in iscritto (ché tanto suona «perscribere»), a differenza delle formole per azioni, scritte «per notas», le quali non s’intendevan dal popolo. Ch’è quello ch’ordinò la legge publilia: che, da essa in poi, l’autoritá del senato, per dirla come Livio la riferisce, «valeret in incertum comitiorum eventum».
[946] Passò finalmente la repubblica dalla libertá popolare sotto la monarchia, e succedette la terza spezie d’autoritá, ch’è di credito o di riputazione in sapienza, e perciò autoritá di consiglio, dalla qual i giureconsulti sotto gl’imperadori se ne dissero «autores». E tal autoritá dev’essere de’ senati sotto i monarchi, i quali son in piena ed assoluta libertá di seguir o no ciò che loro han consigliato i senati.
[SEZIONE NONA] Tre spezie di ragioni
[Capitolo Primo]
[Ragione divina e ragione di stato]
[947] Furono tre le spezie delle ragioni.
[948] La prima, divina, di cui Iddio solamente s’intende, e tanto ne sanno gli uomini quanto è stato loro rivelato: agli ebrei prima e poi a’ cristiani, per interni parlari, alle menti, perché voci d’un Dio tutto mente; ma con parlari esterni, cosí da’ profeti, come da Gesú Cristo agli appostoli, e da questi palesati alla Chiesa; — a’ gentili, per gli auspíci, per gli oracoli ed altri segni corporei creduti divini avvisi, perché creduti venire dagli dèi, ch’essi gentili credevano esser composti di corpo. Talché in Dio, ch’è tutto ragione, la ragion e l’autoritá è una medesima cosa; onde nella buona teologia la divina autoritá tiene lo stesso luogo che di ragione. Ov’è da ammirare la provvedenza, che, ne’ primi tempi che gli uomini del gentilesimo non intendevan ragione (lo che sopra tutto dovett’essere nello stato delle famiglie), permise loro ch’entrassero nell’errore di tener a luogo di ragione l’autoritá degli auspíci e co’ creduti divini consigli di quelli si governassero, per quella eterna propietá: ch’ove gli uomini nelle cose umane non vedon ragione, e molto piú se la vedon contraria, s’acquetano negl’imperscrutabili consigli che si nascondono nell’abisso della provvedenza divina.
[949] La seconda fu la ragion di Stato, detta da’ romani «civilis aequitas», la quale Ulpiano tralle Degnitá sopra ci diffiní da ciò ch’ella non è naturalmente conosciuta da ogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che sappian vedere ciò ch’appartiensi alla conservazione del gener umano. Della quale furono naturalmente sappienti i senati eroici, e sopra tutti fu il romano sappientissimo ne’ tempi della libertá cosí aristocratica, ne’ quali la plebe era affatto esclusa di trattar cose pubbliche, come della popolare, per tutto il tempo che ’l popolo nelle pubbliche faccende si fece regolar dal senato, che fu fin a’ tempi de’ Gracchi.
[Capitolo Secondo]
Corollario
della sapienza di stato degli antichi romani
[950] Quindi nasce un problema, che sembra assai difficile a solversi: come ne’ tempi rozzi di Roma fussero stati sappientissimi di Stato i romani, e ne’ loro tempi illuminati dice Ulpiano ch’«oggi di Stato s’intendono soli e pochi pratici di governo»? — Perché, per quelle stesse naturali cagioni che produssero l’eroismo de’ primi popoli, gli antichi romani, che furono gli eroi del mondo, essi naturalmente guardavano la civil equitá, la qual era scrupolosissima delle parole con le quali parlavan le leggi; e, con osservarne superstiziosamente le lor parole, facevano camminare le leggi diritto per tutti i fatti, anco dov’esse leggi riuscissero severe, dure, crudeli (per ciò che se n’è detto piú sopra), com’oggi suol praticare la ragione di Stato; e sí la civil equitá naturalmente sottometteva tutto a quella legge, regina di tutte l’altre, conceputa da Cicerone con gravitá eguale alla materia: «Suprema lex populi salus esto». Perché ne’ tempi eroici, ne’ quali gli Stati furono aristocratici, come si è appieno sopra pruovato, gli eroi avevano privatamente ciascuno gran parte della pubblica utilitá, ch’erano le monarchie famigliari conservate lor dalla patria, e, per tal grande particolar interesse, conservato loro dalla repubblica, naturalmente posponevano i privati interessi minori; onde naturalmente, e magnanimi, difendevano il ben pubblico, ch’è quello dello Stato, e saggi, consigliavano d’intorno allo Stato. Lo che fu alto consiglio della provvedenza divina, perché i padri polifemi dalla loro vita selvaggia (come con Omero e Platone si sono sopra osservati), senza un tale e tanto lor privato interesse medesimato col pubblico, non si potevano altrimente indurre a celebrare la civiltá, com’altra volta sopra si è riflettuto.
[951] Al contrario, ne’ tempi umani, ne’ quali gli Stati provengono o liberi popolari o monarchici, perché i cittadini ne’ primi comandano il ben pubblico, che si ripartisce loro in minutissime parti quanti son essi cittadini, che fanno il popolo che vi comanda, e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del pubblico al sovrano principe; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni, le quali produssero tali forme di Stati, che sono tutte contrarie a quelle che produtto avevano l’eroismo, le quali sopra dimostrammo esser affetto d’agi, tenerezza di figliuoli, amor di donne e disiderio di vita: per tutto ciò, son oggi gli uomini naturalmente portati ad attendere all’ultime circostanze de’ fatti, le quali agguaglino le loro private utilitá. Ch’è l’«aequum bonum», considerato dalla terza spezie di ragione (che qui era da ragionarsi), la quale si dice «ragion naturale», e da’ giureconsulti «aequitas naturalis» vien appellata. Della quale sola è capace la moltitudine, perché questa considera gli ultimi a sé appartenenti motivi del giusto, che meritano le cause nell’individuali loro spezie de’ fatti. E nelle monarchie bisognano pochi sappienti di Stato per consigliare con equitá civile le pubbliche emergenze ne’ gabinetti, e moltissimi giureconsulti di giurisprudenza privata, che professa equitá naturale, per ministrare giustizia a’ popoli.
[Capitolo Terzo]
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istoria fondamentale del diritto romano
[952] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione posson esser i fondamenti che stabiliscono la storia del diritto romano. Perché i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati, come se n’è proposta sopra una degnitá; — perché dalla natura degli uomini governati escon essi governi, come per questi Princípi sopra si è dimostrato; — e ché le leggi perciò debbon essere ministrate in conformitá de’ governi e, per tal cagione, dalla forma de’ governi si debbono interpetrare (lo che non sembra aver fatto niuno di tutti i giureconsulti ed interpetri, prendendo lo stesso errore ch’avevano innanzi preso gli storici delle cose romane, i quali narrano le leggi comandate in vari tempi in quella repubblica, ma non avvertono a’ rapporti che dovevano le leggi aver con gli stati per gli quali quella repubblica procedé; ond’escono i fatti tanto nudi delle loro propie cagioni le quali naturalmente l’avevano dovuto produrre, che Giovanni Bodino, egualmente eruditissimo giureconsulto e politico, le cose fatte dagli antichi romani nella libertá, che falsamente gli storici narrano popolare, argomenta essere stati effetti di repubblica aristocratica, conforme in questi libri di fatto si è ritruovata): — per tutto ciò, se tutti gli adornatori della storia del diritto romano son domandati: — Perché la giurisprudenza antica usò tanti rigori d’intorno alla legge delle XII Tavole? perché la mezzana, con gli editti de’ pretori, cominciò ad usare benignitá di ragione, ma con rispetto però d’essa legge? perché la giurisprudenza nuova, senz’alcun velo o riguardo di essa legge, prese generosamente a professare l’equitá naturale? — essi, per renderne una qualche ragione, dánno in quella grave offesa alla romana generositá,
con cui dicono ch’i rigori, le solennitá, gli scrupoli, le sottigliezze delle parole e finalmente il segreto delle medesime leggi furon imposture de’ nobili, per aver essi le leggi in mano, che fanno una gran parte della potenza nelle cittá.[953] Ma tanto sí fatte pratiche furono da ogn’impostura lontane, che furono costumi usciti dalle lor istesse nature, le quali, con tali costumi, produssero tali Stati, che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. Perché, nel tempo della somma fierezza del loro primo gener umano, essendo la religione l’unico potente mezzo d’addimesticarla, la provvedenza, come si è veduto sopra, dispose che vivessero gli uomini sotto governi divini e dappertutto regnassero leggi sagre, ch’è tanto dire quanto arcane e segrete al volgo de’ popoli; le quali, nello stato delle famiglie, tanto lo erano state naturalmente, che si custodivano con lingue mutole, le quali si spiegavano con consagrate solennitá (che poi restarono negli atti legittimi), le quali tanto da quelle menti balorde erano credute abbisognate per accertarsi uno della volontá efficace dell’altro d’intorno a comunicare l’utilitá, quanto ora, in questa naturale intelligenza delle nostre, basta accertarsene con semplici parole ed anche con nudi cenni. Dipoi succedettero i governi umani di Stati civili aristocratici, e, per natura perseverando a celebrarsi i costumi religiosi, con essa religione seguitarono a custodirsi le leggi arcane o segrete (il qual arcano è l’anima con cui vivono le repubbliche aristocratiche), e con tal religione si osservarono severamente le leggi; ch’è ’l rigore della civil equitá, la quale principalmente conserva l’aristocrazie. Appresso, avendo a venire le repubbliche popolari, che naturalmente son aperte, generose e magnanime (dovendovi comandare la moltitudine, ch’abbiam dimostro naturalmente intendersi dell’equitá naturale), vennero con gli stessi passi le lingue e le lettere che si dicon «volgari» (delle quali, come sopra dicemmo, è signora la moltitudine), e con quelle comandarono e scrisser le leggi, e naturalmente se n’andò a pubblicar il segreto: ch’è ’l «ius latens», che Pomponio narra non avere sofferto piú la plebe romana, onde volle le leggi descritte in tavole, poich’eran venute le
lettere volgari da’ greci in Roma, come si è sopra detto. Tal ordine di cose umane civili finalmente si truovò apparecchiato per gli Stati monarchici, ne’ qual’i monarchi vogliono ministrate le leggi secondo l’equitá naturale e, ’n conseguenza, conforme l’intende la moltitudine, e perciò adeguino in ragione i potenti co’ deboli: lo che fa unicamente la monarchia. E l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi sappienti di ragion pubblica e, con la sua eterna propietá, è serbata arcana dentro de’ gabinetti.[SEZIONE DECIMA] Tre spezie di giudizi
[Capitolo Primo]
[Prima spezie: giudizi divini]
[954] Le spezie de’ giudizi furono tre.
[955] La prima di giudizi divini, ne’ quali, nello stato che dicesi «di natura» (che fu quello delle famiglie), non essendo imperi civili di leggi, i padri di famiglia si richiamavano agli dèi de’ torti ch’erano stati lor fatti (che fu, prima e propiamente, «implorare deorum fidem»), chiamavano in testimoni della loro ragion essi dèi (che fu, prima e propiamente, «deos obtestari»). E tali accuse o difese furono, con natia propietá, le prime orazioni del mondo, come restò a’ latini «oratio» per «accusa» o «difesa». Di che vi sono bellissimi luoghi in Plauto e ’n Terenzio, e ne serbò due luoghi d’oro la legge delle XII Tavole, che sono «furto orare» e «pacto orare» (non «adorare», come legge Lipsio), nel primo per «agere» e nel secondo per «excipere». Talché da queste orazioni restaron a’ latini detti «oratores» coloro ch’arringano le cause in giudizio. Tali richiami agli dèi si facevano dapprima dalle genti semplici e rozze, sulla credulitá ch’essi eran uditi dagli dèi, ch’immaginavano starsi sulle cime de’ monti, siccome Omero gli narra su quella del monte Olimpo; e Tacito ne scrive tra gli ermonduri e catti una guerra con tal superstizione: che dagli dèi se non dall’alte cime de’ monti «preces mortalium nusquam propius audiri».
[956] Le ragioni, le quali s’arrecavano in tali divini giudizi, eran essi dèi, siccome ne’ tempi ne’ quali i gentili tutte le cose immaginavano esser dèi: come «Lar» per lo dominio della casa, «dii Hospitales» per la ragion dell’albergo, «dii Penates» per la paterna potestá, «deus Genius» per lo diritto del matrimonio, «deus Terminus» per lo dominio del podere, «dii Manes» per la ragion del sepolcro; di che restò nella legge delle XII Tavole un aureo vestigio: «ius deorum manium».
[957] Dopo tali orazioni (ovvero obsecrazioni, ovvero implorazioni) e dopo tali obtestazioni, venivan all’atto di esegrare essi rei; onde appo i greci, come certamente in Argo, vi furono i templi di essa esegrazione, e tali esegrati si dicevano ἀναθήματα,/ che noi diciamo «scomunicati». E contro loro concepivano i voti (che fu il primo «nuncupare vota», che significa far voti solenni ovvero con formole consagrate) e gli consagravano alle Furie (che furono veramente «diris devoti»), e poi gli uccidevano (ch’era quello degli sciti, lo che sopra osservammo, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravan per dio, e poi uccidevano l’uomo). E i latini tal uccidere dissero col verbo «mactare», che restò vocabolo sagro che si usava ne’ sagrifizi; onde agli spagnuoli restò «matar» ed agl’italiani altresí «ammazzare» per «uccidere». E sopra vedemmo ch’appo i greci restò ἄρα per significar il «corpo che danneggia», il «voto» e la «furia»; ed appo i latini «ara» significò e l’«altare» e la «vittima». Quindi restò appo tutte le nazioni una spezie di scomunica: della quale, tra’ Galli, ne lasciò Cesare un’assai spiegata memoria; e tra’ romani restonne l’interdetto dell’acqua e fuoco, come sopra si è ragionato. Delle quali consagrazioni molte passarono nella legge delle XII Tavole: come «consagrato a Giove» chi aveva violato un tribuno della plebe, «consagrato agli dèi de’ padri» il figliuolo empio, «consagrato a Cerere» chi aveva dato fuoco alle biade altrui, il quale fusse bruciato vivo (si veda crudeltá di pene divine, somigliante all’immanitá, ch’abbiamo nelle Degnitá detto, dell’immanissime streghe!), che debbon essere state quelle sopra da Plauto dette «Saturni hostiae».
[958] Con questi giudizi praticati privatamente, usciron i popoli a far le guerre che si dissero «pura et pia bella»; e si facevano «pro aris et focis», per le cose civili come pubbliche cosí private, col qual aspetto di divine si guardavano tutte le cose umane. Onde le guerre eroiche tutt’erano di religione, perché gli araldi, nell’intimarle, dalle cittá, alle quali le portavano, chiamavan fuori gli dèi e consagravano i nimici agli dèi. Onde gli re trionfati erano da’ romani presentati a Giove Feretrio nel Campidoglio e dappoi s’uccidevano, sull’esemplo de’ violenti empi, ch’erano state le prime ostie, le prime vittime, ch’aveva consagrato Vesta sulle prime are del mondo. E i popoli arresi erano considerati uomini senza dèi, sull’esemplo de’ primi famoli: onde gli schiavi, come cose inanimate, in lingua romana si dissero «mancipia» ed in romana giurisprudenza si tennero «loco rerum».
[Capitolo Secondo]
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de’ duelli e delle ripresaglie
[959] Talché furon una spezie di giudizi divini, nella barbarie delle nazioni, i duelli, che dovettero nascere sotto il governo antichissimo degli dèi e condursi per lunga etá dentro le repubbliche eroiche. Delle quali riferimmo nelle Degnitá quel luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir i torti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsa oppenione finor avuta dalla boria de’ dotti d’intorno all’eroismo filosofico de’ primi popoli, il quale andasse di séguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si è creduto finora.
[960] Certamente, tra’ romani furono tardi introdutti, e pur dal pretore, cosí l’interdetto «Unde vi» come le azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», come altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie ultima, le ripresaglie private durarono fin a’ tempi di Bartolo, che dovetter essere «condiczioni», o «azioni personali» degli antichi romani, perché «condicere», secondo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre di famiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiustamente tolto ciò ch’era suo, che glielo restituisse, per poi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solennitá dell’azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acutamente fu inteso.
[961] Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché si facevano in re praesenti, non avevano bisogno della dinonzia; onde restarono le vindiciae, le quali, tolte all’ingiusto possessore con una finta forza, che Aulo Gellio chiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza vera, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciae»), si dovevano portare dal giudice, per dire, in quella «gleba» o zolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Quindi coloro che scrivono i duelli
essersi introdutti per difetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difetto di leggi giudiziarie. Perché certamente Frotone, re di Danimarca, comandò che tutte le contese si terminassero per mezzo degli abbattimenti, e sí vietò che si diffinissero con giudizi legittimi. E, per non terminarle con giudizi legittimi, sono di duelli piene le leggi de’ longobardi, salii, inghilesi, borghignoni, normanni, danesi, alemanni. Per lo che Cuiacio ne’ Feudi dice: «Et hoc genere purgationis diu usi sunt christiani tam in civilibus quam in criminalibus caussis, re omni duello commissa». Di che è restato che in Lamagna professano scienza di duello coloro che si dicon «reistri», i quali obbligano quelli c’hanno da duellare a dire la veritá, perocché i duelli, ammessivi i testimoni, e perciò dovendovi intervenire i giudici, passerebbero in giudizi o criminali o civili.[962] Non si è creduto della barbarie prima, perché non ce ne sono giunte memorie, ch’avesse praticato i duelli. Ma non sappiamo intendere come in questa parte sieno stati, nonché umani, sofferenti di torti i polifemi d’Omero, ne’ quali riconosce gli antichissimi padri delle famiglie, nello stato di natura, Platone. Certamente Aristotile ne ha detto nelle Degnitá che nell’antichissime repubbliche, nonché nello stato delle famiglie, che furon innanzi delle cittá, non avevano leggi da emendar i torti e punire l’offese, con le qual’i cittadini s’oltraggiassero privatamente tra loro (e noi l’abbiamo testé dimostro della romana antica); e perciò Aristotile pur ci disse, nelle Degnitá, che tal costume era de’ popoli barbari, perché, come ivi avvertimmo, i popoli per ciò ne’ lor incominciamenti son barbari, perché non son addimesticati ancor con le leggi.
[963] Ma di essi duelli vi hanno due grandi vestigi — uno nella greca storia, un altro nella romana — ch’i popoli dovettero incominciar le guerre (che si dissero dagli antichi latini «duella») dagli abbattimenti di essi particolari offesi, quantunque fussero re, ed essendo entrambi i popoli spettatori, che pubblicamente volevano difendere o vendicare l’offese. Come, certamente, cosí la guerra troiana incomincia dall’abbattimento di Menelao e di Paride (questi ch’aveva, quegli a cui era stata rapita la
moglie Elena), il quale restando indeciso, seguitò poi a farsi tra greci e troiani la guerra; e noi sopra avvertimmo il costume istesso delle nazioni latine nella guerra de’ romani ed albani, che con l’abbattimento degli tre Orazi e degli tre Curiazi (uno de’ quali dovette rapire l’Orazia) si diffiní dello ’n tutto. In sí fatti giudizi armati estimarono la ragione dalla fortuna della vittoria: lo che fu consiglio della provvedenza divina, acciocché, tra genti barbare e di cortissimo raziocinio, che non intendevan ragione, da guerre non si seminassero guerre, e sí avessero idea della giustizia o ingiustizia degli uomini dall’aver essi propizi o pur contrari gli dèi: siccome i gentili schernivano il santo Giobbe dalla regale sua fortuna caduto, perocch’egli avesse contrario Dio. E, ne’ tempi barbari ritornati, perciò alla parte vinta, quantunque giusta, si tagliava barbaramente la destra.[964] Da sí fatto costume, privatamente da’ popoli celebrato, uscí fuori la giustizia esterna, ch’i morali teologi dicono, delle guerre, onde le nazioni riposassero sulla certezza de’ lor imperi. Cosí quelli auspíci, che fondarono gl’imperi paterni monarchici a’ padri nello stato delle famiglie e apparecchiarono e conservarono loro i regni aristocratici nell’eroiche cittá e, comunicati loro, produssero le repubbliche libere alle plebi de’ popoli (come la storia romana apertamente lo ci racconta), finalmente legittimano le conquiste, con la fortuna dell’armi, a’ felici conquistatori. Lo che tutto non può provenire altronde che dal concetto innato della provvedenza c’hanno universalmente le nazioni, alla quale si debbono conformare, ove vedono affliggersi i giusti e prosperarsi gli scellerati, come nell’Idea dell’opera altra volta si è detto.
[Capitolo Terzo]
[Seconda spezie: giudizi ordinari]
[965] I secondi giudizi, per la recente origine da’ giudizi divini, furono tutti ordinari, osservati con una somma scrupolositá di parole, che da’ giudizi, innanzi stati, divini dovette restar detta «religio verborum»; conforme le cose divine universalmente son concepute con formole consagrate, che non si possono d’una letteruccia alterare, onde delle antiche formole dell’azioni si diceva: «qui cadit virgula, caussa cadit». Ch’è ’l diritto naturale delle genti eroiche, osservato naturalmente dalla giurisprudenza romana antica, e fu il «fari» del pretore, ch’era un parlar innalterabile, dal quale furono detti «dies fasti» i giorni ne’ quali rendeva ragion il pretore. La quale, perché i soli eroi ne avevano la comunione nell’eroiche aristocrazie, dev’esser il «fas deorum» de’ tempi ne’ quali, come sopra abbiamo spiegato, gli eroi s’avevano preso il nome di «dèi», donde poi fu detto «Fatum» sopra le cose della natura l’ordine ineluttabile delle cagioni che le produce, perché tale sia il parlare di Dio: onde forse agl’italiani venne detto «ordinare», ed in ispezie in ragionamento di leggi, per «dare comandi che si devono necessariamente eseguire».
[966] Per cotal ordine (che, ’n ragionamento di giudizi, significa «solenne formola d’azione»), ch’aveva dettato la crudele e vil pena contro l’inclito reo d’Orazio, non potevano i duumviri essi stessi assolverlo, quantunque fussesi ritruovato innocente; e ’l popolo, a cui n’appellò, l’assolvette, come Livio il racconta, «magis admiratione virtutis quam iure caussae». E tal ordine di giudizi bisognò ne’ tempi d’Achille, che riponeva tutta la ragion nella forza, per quella propietá de’ potenti che descrive Plauto con la sua solita grazia: «pactum non pactum, non pactum pactum», ove le promesse non vanno a seconda delle lor
orgogliose voglie o non vogliono essi adempiere le promesse. Cosí, perché non prorompessero in piati, risse ed uccisioni, fu consiglio della provvedenza ch’avessero naturalmente tal oppenione del giusto, che tanto e tale fusse loro diritto quanto e quale si fusse spiegato con solenni formole di parole; onde la riputazione della giurisprudenza romana e de’ nostri antichi dottori fu in cautelare i clienti. Il qual diritto naturale delle genti eroiche diede gli argomenti a piú commedie di Plauto: nelle qual’i ruffiani, per inganni orditi loro da’ giovani innamorati delle loro schiave, ne sono ingiustamente fraudati, fatti da quelli innocentemente truovar rei d’una qualche formola delle leggi; e non solamente non isperimentano alcun’azione di dolo, ma altro rimborsa al doloso giovane il prezzo della schiava venduta, altro priega l’altro che si contenti della metá della pena, alla qual era tenuto, di furto non manifesto, altro si fugge dalla cittá per timore d’esser convinto d’aver corrotto lo schiavo altrui. Tanto a’ tempi di Plauto regnava ne’ giudizi l’equitá naturale![967] Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osservato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini credettero osservarsi da essi dèi anco ne’ lor giuramenti. Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch’è de’ giuramenti non sol testimone ma giudice, ch’essa non aveva solecitato Nettunno a muovere la tempesta contro i troiani, perocché ’l fece per mezzo dello dio Sonno; e Giove ne riman soddisfatto. Cosí Mercurio, finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l’inganna, sia Mercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plauto nell’Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch’insegnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo che meno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (il quale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimi principi della romana repubblica, co’ quali si dice Terenzio aver composte le sue commedie; il quale nell’Andria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l’uscio di Simone con le mani di Miside, acciocché, se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare d’averlovi posto esso.
[968] Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch’in Atene, cittá di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euripide, che Cicerone voltò in latino:
Iuravi lingua, mentem iniuratam habui,
gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perché naturalmente portavano oppenione che «uti lingua nuncupassit, ita ius esto», come comandava la legge delle XII Tavole. Tanto l’infelice Agamennone poteva assolversi del suo temerario voto, col quale consagrò ed uccise l’innocente e pia figliuola Ifigenia! Onde s’intenda che, perché sconobbe la provvedenza, perciò Lucrezio al fatto d’Agamennone fa quell’empia acclamazione:
Tantum relligio potuit suadere malorum!
che noi sopra nelle Degnitá proponemmo.
[969] Finalmente inchiovano al nostro proposito questo ragionamento queste due cose di giurisprudenza e d’istoria romana certa: una ch’a’ tempi ultimi Gallo Aquilio introdusse l’azione de dolo; l’altra, che Augusto diede la tavoletta a’ giudici d’assolvere gl’ingannati e sedutti.
[970] A tal costume avvezze in pace, le nazioni poi, nelle guerre essendo vinte, esse, con le leggi delle rese, o furono miserevolmente oppresse o felicemente schernirono l’ira de’ vincitori.
[971] Miserevolmente oppressi furon i cartaginesi, i quali dal Romano avevano ricevuta la pace sotto la legge che sarebbero loro salve la vita, la cittá e le sostanze, intendendo essi la «cittá» per gli «edifici», che da’ latini si dice «urbs». Ma, perché dal Romano si era usata la voce «civitas», che significa «comune di cittadini», quando poi, in esecuzion della legge, comandati di abbandonar la cittá posta al lido del mare e ritirarsi entro terra, ricusando essi ubbidire e di nuovo armandosi alla difesa, furono dal Romano dichiarati rubelli, e, per diritto di guerra eroico, presa Cartagine, barbaramente fu messa a fuoco.
I cartaginesi non s’acquetarono alla legge della pace data lor da’ romani, ch’essi non avevano inteso nel patteggiarla, perch’anzi tempo divenuti erano intelligenti, tra per l’acutezza affricana e per la negoziazione marittima, per la quale si fanno piú scorte le nazioni. Né pertanto i romani quella guerra tennero per ingiusta; perocché, quantunque alcuni stimino aver i romani incominciato a fare le guerre ingiuste da quella di Numanzia, che fu finita da esso Scipione Affricano, però tutti convengono aver loro dato principio da quella, che poi fecero, di Corinto.[972] Ma da’ tempi barbari ritornati si conferma meglio il nostro proposito. Corrado terzo imperadore, avendo dato la legge della resa a Veinsberga, la qual aveva fomentato il suo competitore dell’imperio: — che ne uscissero solamente salve le donne con quanto esse via ne portassero addosso fuora, — quivi le pie donne veinsbergesi si caricarono de’ loro figliuoli, mariti, padri; e, stando alla porta della cittá l’imperadore vittorioso, nell’atto dell’usar la vittoria (che per natura è solita insolentire), non ascoltò punto la collera (ch’è spaventosa ne’ grandi e dev’essere funestissima ove nasca da impedimento che lor si faccia di pervenire o di conservarsi la loro sovranitá), stando a capo dell’esercito, ch’era accinto, con le spade sguainate e le lance in resta, di far strage degli uomini veinsbergesi, se ’l vide e ’l sofferse che salvi gli passassero dinanzi tutti, ch’aveva voluto a fil di spada tutti passare. Tanto il diritto naturale della ragion umana spiegata di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio corse naturalmente per tutti i tempi in tutte le nazioni!
[973] Ciò che si è finor ragionato, e tutto ciò che ragionerassene appresso, esce da quelle diffinizioni che sopra, tralle Degnitá, abbiamo proposto d’intorno al vero ed al certo delle leggi e de’ patti; e che cosí a’ tempi barbari è naturale la ragion stretta osservata nelle parole, ch’è propiamente il «fas gentium», com’a’ tempi umani lo è la ragione benigna, estimata da essa uguale utilitá delle cause, che propiamente «fas naturae» dee dirsi, diritto immutabile dell’umanitá ragionevole, ch’è la vera e propia natura dell’uomo.
[Capitolo Quarto]
[Terza spezie: giudizi umani]
[974] I terzi giudizi sono tutti straordinari, ne’ quali signoreggia la veritá d’essi fatti, a’ quali, secondo i dettami della coscienza, soccorrono ad ogni uopo benignamente le leggi in tutto ciò che domanda essa uguale utilitá delle cause; — tutti aspersi di pudor naturale (ch’è parte dell’intelligenza), e garantiti perciò dalla buona fede (ch’è figliuola dell’umanitá), convenevole all’apertezza delle repubbliche popolari e molto piú alla generositá delle monarchie, ov’i monarchi, in questi giudizi, fan pompa d’esser superiori alle leggi e solamente soggetti alla loro coscienza e a Dio. E da questi giudizi, praticati negli ultimi tempi in pace, sono usciti, in guerra, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ne’ quali avendo osservato molti errori e difetti il padre Niccolò Concina ne ha meditato uno piú conforme alla buona filosofia e piú utile all’umana societá, che, con gloria dell’Italia, tuttavia insegna nell’inclita universitá di Padova, in séguito della metafisica, che primario lettor vi professa.
[SEZIONE UNDECIMA] Tre sètte di tempi
[Capitolo Unico]
[Sètte dei tempi religiosi, puntigliosi e civili]
[975] Tutte l’anzidette cose si sono praticate per tre sètte de’ tempi.
[976] Delle quali la prima fu de’ tempi religiosi, che si celebrò sotto i governi divini.
[977] La seconda, de’ puntigliosi, come di Achille; ch’a’ tempi barbari ritornati fu quella de’ duellisti.
[978] La terza, de’ tempi civili ovvero modesti, ne’ tempi del diritto naturale delle genti, che, nel diffinirlo, Ulpiano lo specifica con l’aggiunto d’«umane», dicendo «ius naturale gentium humanarum»; onde, appo gli scrittori latini sotto gl’imperadori, il dovere de’ sudditi si dice «officium civile», e ogni peccato, che si prende nell’interpetrazion delle leggi contro l’equitá naturale, si dice «incivile». Ed è l’ultima setta de’ tempi della giurisprudenza romana, cominciando dal tempo della libertá popolare. Onde prima i pretori, per accomodare le leggi alla natura, costumi, governo romano, di giá cangiati, dovetter addolcire la severitá ed ammollire la rigidezza della legge delle XII Tavole, comandata, quand’era naturale, ne’ tempi eroici di Roma; e dipoi gl’imperadori dovettero snudare di tutti i veli, di che l’avevano coverta i pretori, e far comparire tutta aperta e generosa, qual si conviene alla gentilezza alla quale le nazioni s’erano accostumate, l’equitá naturale.
[979] Per ciò i giureconsulti con la «setta de’ loro tempi» (come si posson osservare) giustificano ciò ch’essi ragionano d’intorno al giusto: perché queste sono le sètte propie della giurisprudenza romana, nelle quali convennero i romani con tutte l’altre nazioni del mondo, insegnate loro dalla provvedenza divina, ch’i romani giureconsulti stabiliscono per principio del diritto natural delle genti; non giá le sètte de’ filosofi, che vi hanno a forza intruso alcuni interpetri eruditi della romana ragione, come si è sopra detto nelle Degnitá. Ed essi imperadori, ove vogliono render ragione delle loro leggi o di altri ordinamenti dati da essoloro, dicono essere stati a ciò far indutti dalla «setta de’ loro tempi», come ne raccoglie i luoghi Barnaba Brissonio, De formulis romanorum: perocché la scuola de’ principi sono i costumi del secolo, siccome Tacito appella la setta guasta de’ tempi suoi, ove dice «corrumpere et corrumpi seculum vocatur», ch’or direbbesi «moda».
[SEZIONE DUODECIMA] Altre pruove tratte dalle propietá dell’aristocrazie eroiche
[Introduzione]
[980] Cosí costante perpetua ordinata successione di cose umane civili, dentro la forte catena di tante e tanto varie cagioni ed effetti che si sono osservati nel corso che fanno le nazioni, debbe strascinare le nostre menti a ricevere la veritá di questi princípi. Ma, per non lasciare verun luogo di dubitarne, aggiugniamo la spiegazione d’altri civili fenomeni, i quali non si possono spiegare che con la discoverta, la qual sopra si è fatta, delle repubbliche eroiche.
[Capitolo Primo]
Della custodia de’ confini
[981] Imperciocché le due eterne massime propietá delle repubbliche aristocratiche sono le due custodie, come sopra si è detto, una de’ confini, l’altra degli ordini.
[982] La custodia de’ confini cominciò ad osservarsi, come si è sopra veduto, con sanguinose religioni sotto i governi divini, perché si avevano da porre i termini a’ campi, che riparassero all’infame comunion delle cose dello stato bestiale; sopra i quali termini avevano a fermarsi i confini prima delle famiglie, poi delle genti o case, appresso de’ popoli e alfin delle nazioni. Onde i giganti, come dice Polifemo ad Ulisse, se ne stavano ciascuno con le loro mogli e figliuole dentro le loro grotte, né s’impacciavano nulla l’uno delle cose dell’altro, servando in ciò il vezzo dell’immane loro recente origine, e fieramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro i confini di ciascheduno, come voleva Polifemo fare d’Ulisse e de’ suoi compagni (nel qual gigante, come piú volte si è detto, Platone ravvisa i padri nello stato delle famiglie); onde sopra dimostrammo esser poi derivato il costume di guardarsi lunga stagione le cittá con l’aspetto di eterne nimiche tra loro. Tanto è soave la divisione de’ campi che narra Ermogeniano giureconsulto, e di buona fede si è ricevuta da tutti gl’interpetri della romana ragione! E da questo primo antichissimo principio di cose umane, donde ne incominciò la materia, sarebbe ragionevole incominciar ancor la dottrina ch’insegna De rerum divisione et acquirendo earum dominio. Tal custodia de’ confini è naturalmente osservata nelle repubbliche aristocratiche, le quali, come avvertono i politici, non sono fatte per le conquiste. Ma, poi che, dissipata affatto l’infame comunion delle cose, furono ben fermi i confini de’ popoli, vennero le repubbliche
popolari, che sono fatte per dilatare gl’imperi, e finalmente le monarchie, che vi vagliono molto piú.[983] Questa e non altra dev’essere la cagione perché la legge delle XII Tavole non conobbe nude possessioni; e l’usucapione ne’ tempi eroici serviva a solennizzare le tradizioni naturali, come i miglior interpetri ne leggono la diffinizione che dica «dominii adiectio», aggiunzione del dominio civile al naturale innanzi acquistato. Ma, nel tempo della libertá popolare, vennero, dopo, i pretori ed assisterono alle nude possessioni con gl’interdetti, e l’usucapione incominciò ad essere «dominii adeptio», modo d’acquistare da principio il dominio civile; e, quando prima le possessioni non comparivano affatto in giudizio, perché ne conosceva estragiudizialmente il pretore, per ciò che se n’è sopra detto, oggi i giudizi piú accertati sono quelli che si dicono «possessòri».
[984] Laonde, nella libertá popolare di Roma in gran parte, ed affatto sotto la monarchia, cadde quella distinzione di dominio bonitario, quiritario, ottimo e finalmente civile, i quali nelle lor origini portavano significazioni diversissime dalle significazioni presenti: il primo, di dominio naturale, che si conservava con la perpetua corporale possessione; — il secondo, di dominio che potevasi vindicare, che correva tra plebei, comunicato loro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, ma ch’a’ plebei dovevano vindicare, laudati in autori, essi nobili, da’ qual’i plebei avevano la cagion del dominio, come pienamente sopra si è dimostrato; — il terzo, di dominio libero d’ogni peso pubblico nonché privato, che celebrarono tra essoloro i patrizi innanzi d’ordinarsi il censo che fu pianta della libertá popolare, come si è sopra detto; — il quarto ed ultimo, di dominio ch’avevan esse cittá, ch’or si dice «eminente». Delle quali differenze, quella d’ottimo e di quiritario da essi tempi della libertá si era di giá oscurata, tanto che non n’ebbero niuna contezza i giureconsulti della giurisprudenza ultima. Ma sotto la monarchia quel che si dice «dominio bonitario» (nato dalla nuda tradizion naturale) e ’l detto «dominio quiritario» (nato dalla mancipazione o tradizion civile) affatto si confusero da
Giustiniano con le costituzioni De nudo iure quiritium tollendo e De usucapione transformanda, e la famosa differenza delle cose mancipi e nec mancipi si tolse affatto; e restarono «dominio civile» in significazione di dominio valevole a produrre revindicazione, e «dominio ottimo» in significazione di dominio non soggetto a veruno peso privato.[Capitolo Secondo]
Della custodia degli ordini
[985] La custodia degli ordini cominciò da’ tempi divini con le gelosie (onde vedemmo sopra esser gelosa Giunone, dea de’ matrimoni solenni), acciocché indi provenisse la certezza delle famiglie incontro la nefaria comunion delle donne. Tal custodia è propietá naturale delle repubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi, le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la potenza, dentro l’ordine de’ nobili; onde tardi vennero nelle nazioni le leggi testamentarie (siccome tra’ Germani antichi narra Tacito che non era alcun testamento): il perché, volendo il re Agide introdurle in Isparta, funne fatto strozzare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni, com’altra volta si è detto. Quindi s’intenda con quanto accorgimento gli adornatori della legge delle XII Tavole fissano nella tavola decimaprima il capo «Auspicia incommunicata plebi sunto», de’ quali dapprima furono dipendenze tutte le ragioni civili cosí pubbliche come private, che si conservavano tutte dentro l’ordine de’ nobili; e le private furono nozze, patria potestá, suitá, agnazioni, gentilitá, successioni legittime, testamenti e tutele, come sopra si è ragionato; — talché, dopo avere, nelle prime tavole, col comunicare tai ragioni tutte alla plebe, stabilite le leggi propie d’una repubblica popolare, particolarmente con la legge testamentaria, dappoi, nella tavola decimaprima, in un sol capo la formano tutta aristocratica. Ma, in tanta confusione di cose, dicono pur questo, quantunque indovinando, di vero: che nelle due ultime tavole passarono in leggi alcune costumanze antiche d’essi romani; il qual detto avvera che lo Stato romano antico fu aristocratico.
[986] Ora, ritornando al proposito, poi che fu fermato dappertutto il gener umano con la solennitá de’ matrimoni, vennero le
repubbliche popolari e, molto piú appresso, le monarchie; nelle quali, per mezzo de’ parentadi con le plebi de’ popoli e delle successioni testamentarie, se ne turbarono gli ordini della nobiltá, e quindi andarono tratto tratto uscendo le ricchezze dalle case nobili. Perché appieno sopra si è dimostrato ch’i plebei romani sin al trecento e nove di Roma, che riportarono da’ patrizi finalmente comunicati i connubi, o sia la ragione di contrarre nozze solenni, essi contrassero matrimoni naturali; né, in quello stato sí miserevole quasi di vilissimi schiavi, come la storia romana pure gli ci racconta, potevano pretendere d’imparentare con essi nobili. Ch’è una delle cose massime, onde dicevamo in quest’opera la prima volta stampata che, se non si dánno questi princípi alla giurisprudenza romana, la romana storia è piú incredibile della favolosa de’ greci, quale finora ci è stata ella narrata. Perché di questa non sapevamo che si avesse voluto dire; ma, della romana, sentiamo nella nostra natura l’ordine de’ disidèri umani esser tutto contrario: che uomini miserabilissimi pretendessero prima nobiltá nella contesa de’ connubi, poi onori con quella che loro comunicassesi il consolato, finalmente ricchezze con l’ultima pretensione che fecero de’ sacerdozi; quando, per eterna comune civil natura, gli uomini prima disiderano ricchezze, dopo di queste onori, e per ultimo nobiltá.[987] Laonde s’ha necessariamente a dire ch’avendo i plebei riportato da’ nobili il dominio certo de’ campi con la legge delle XII Tavole (che noi sopra dimostrammo essere stata la seconda agraria del mondo) ed essendo ancora stranieri (perché tal dominio puossi concedere agli stranieri), con la sperienza furono fatti accorti che non potevano lasciargli ab intestato a’ loro congionti, perché, non contraendo nozze solenni tra essoloro, non avevano suitá, agnazioni, gentilitá; molto meno in testamento, non essendo cittadini. Né è maraviglia, essendo stati uomini di niuna o pochissima intelligenza, come lo ci appruovano le leggi furia, voconia e falcidia, che tutte e tre furono plebisciti; e tante ve n’abbisognarono perché con la legge falcidia si fermasse finalmente la disiderata utilitá ch’i retaggi
non si assorbissero da’ legati. Perciò, con le morti d’essi plebei ch’eran avvenute in tre anni, accortisi che, per tal via, i campi loro assegnati ritornavano a’ nobili, coi connubi pretesero la cittadinanza, come sopra si è ragionato. Ma i gramatici, confusi da tutti i politici, ch’immaginarono Roma essere stata fondata da Romolo sullo stato nel quale ora stanno le cittá, non seppero che le plebi delle cittá eroiche per piú secoli furono tenute per istraniere, e quindi contrassero matrimoni naturali tra loro; e perciò essi non avvertirono ch’era una, quanto in fatti sconcia, tanto nelle parole men latina espressione quella della storia: che «plebei tentarunt connubia patrum», ch’arebbe dovuto dire «cum patribus» (perché le leggi connubiali parlan cosí per esemplo: «patruus non habet cum fratris filia connubium»), come si è sopra detto. Che, se avessero ciò avvertito, avrebbono certamente inteso ch’i plebei non pretesero aver diritto d’imparentare co’ nobili, ma di contrarre nozze solenni, il qual diritto era de’ nobili.[988] Quindi, se si considerano le successioni legittime, ovvero le comandate dalla legge delle XII Tavole: — ch’al padre di famiglia difonto succedessero in primo luogo i suoi, in lor difetto gli agnati e ’n mancanza di questi i gentili, — sembra la legge delle XII Tavole essere stata appunto una legge salica de’ romani; la quale ne’ suoi primi tempi si osservò ancora per la Germania (onde si può congetturare lo stesso per l’altre nazioni prime della ritornata barbarie), e finalmente si ristò nella Francia e, fuori di Francia, nella Savoia. Il qual diritto di successioni Baldo, assai acconciamente al nostro proposito, chiama «ius gentium Gallorum»: alla qual istessa fatta, cotal diritto romano di successioni agnatizie e gentilizie si può con ragion chiamare «ius gentium romanarum», aggiontavi la voce «heroicarum», e, per dirla con piú acconcezza, «romanum»; che sarebbe appunto «ius quiritium romanorum», che noi provammo qui sopra essere stato il diritto naturale comune a tutte le genti eroiche.
[989] Né ciò, come sembra, egli turba punto le cose da noi qui dette d’intorno alla legge salica, in quanto esclude le femmine
dalla successione de’ regni: che Tanaquille, femmina, governò il regno romano. Perché ciò fu detto, con frase eroica, ch’egli fu un re d’animo debole, che si fece regolare dallo scaltrito di Servio Tullio, il qual invase il regno romano col favor della plebe, alla qual aveva portato la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato. Alla qual fatta di Tanaquille, per la stessa maniera di parlar eroico, ricorsa ne’ tempi barbari ritornati, Giovanni papa fu detto femmina (contro la qual favola Lione Allacci scrisse un intiero libro), perché mostrò la gran debolezza di ceder a Fozio, patriarca di Costantinopoli, come ben avvisa il Baronio e, dopo di lui, lo Spondano.[990] Sciolta adunque sí fatta difficultá, diciamo ch’alla stessa maniera che prima si era detto «ius quiritium romanorum», nel significato di «ius naturale gentium heroicarum romanarum», non altrimente sotto gl’imperadori, quando Ulpiano il diffinisce, con peso di parole dice «ius naturale gentium humanarum», che corre nelle repubbliche libere e molto piú sotto le monarchie. E per tutto ciò il titolo dell’Instituta sembra doversi leggere: De iure naturali gentium civili, non solo, con Ermanno Vulteio, togliendo la virgola tralle voci «naturali» «gentium» (supplita, con Ulpiano, la seconda «humanarum»), ma anco la particella «et» innanzi alla voce «civili». Perché i romani dovetter attendere al diritto loro propio, come, dall’etá di Saturno introdutto, l’avevano conservato prima coi costumi e poi con le leggi, siccome Varrone, nella grand’opera Rerum divinarum et humanarum, trattò le cose romane per origini tutte quante natie, nulla mescolandovi di straniere.
[991] Ora, ritornando alle successioni eroiche romane, abbiamo assai molti e troppo forti motivi di dubitare se, ne’ tempi romani antichi, di tutte le donne succedessero le figliuole; perché non abbiamo nessuno motivo di credere ch’i padri eroi n’avessero sentito punto di tenerezza, anzi n’abbiamo ben molti e grandi tutti contrari. Imperciocché la legge delle XII Tavole chiamava un agnato anco in settimo grado ad escludere un figliuolo, che trovavasi emancipato, dalla succession di suo padre. Perché i padri di famiglia avevano un sovrano diritto di vita
e morte, e quindi un dominio dispotico sopra gli acquisti d’essi figliuoli: essi contraevano i parentadi per gli medesimi, per far entrar femmine nelle loro case degne delle lor case (la qual istoria ci è narrata da esso verbo «spondere», ch’è, propiamente, «promettere per altrui», onde vengono detti «sponsalia»); consideravano le adozioni quanto le medesime nozze, perché rinforzassero le cadenti famiglie con eleggere strani allievi che fussero generosi; tenevano l’emancipazioni a luogo di castigo e di pena; non intendevano legittimazioni, perché i concubinati non erano che con affranchite e straniere, con le quali ne’ tempi eroici non si contraevano matrimoni solenni, onde i figliuoli degenerassero dalla nobiltá de’ lor avoli; i loro testamenti per ogni frivola ragione o erano nulli o s’annullavano o si rompevano o non conseguivano il loro effetto, acciocché ricorressero le successioni legittime. Tanto furono naturalmente abbagliati dalla chiarezza de’ loro privati nomi, onde furono per natura infiammati per la gloria del comun nome romano! Tutti costumi propi di repubbliche aristocratiche, quali furono le repubbliche eroiche, le quali tutte sono propietá confaccenti all’eroismo de’ primi popoli.[992] Ed è degno di riflessione questo sconcissimo errore preso da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole, i quali vogliono essersi portata da Atene in Roma: che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato, per tutto il tempo innanzi di portarvi tal legge le successioni testamentarie e legittime, dovettero andare nelle spezie delle cose che sono dette nullius. Ma la provvedenza dispose che, perché ’l mondo non ricadesse nell’infame comunion delle cose, la certezza de’ domíni si conservasse con essa e per essa forma delle repubbliche aristocratiche. Onde tali successioni legittime per tutte le prime nazioni naturalmente si dovettero celebrare innanzi d’intendersi i testamenti, che sono propi delle repubbliche popolari e molto piú delle monarchie, siccome de’ Germani antichi (i quali ci dánno luogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari) apertamente da Tacito ci è narrato; onde testé congetturammo la legge salica, la quale certamente fu celebrata
nella Germania, essere stata osservata universalmente dalle nazioni nel tempo della seconda barbarie.[993] Però i giureconsulti della giurisprudenza ultima, per quel fonte d’innumerabili errori (i quali si sono notati in quest’opera) d’estimare le cose de’ tempi primi non conosciuti da quelle de’ loro tempi ultimi, han creduto che la legge delle XII Tavole avesse chiamate le figliuole di famiglia all’ereditá de’ loro padri, che morti fussero ab intestato, con la parola «suus», su quella massima che ’l genere maschile contenga ancora le donne. Ma la giurisprudenza eroica, della quale tanto in questi libri si è ragionato, prendeva le parole delle leggi nella propissima loro significazione; talché la voce «suus» non significasse altro che ’l figliuol di famiglia. Di che con un’invitta pruova ne convince la formola dell’istituzione de’ postumi, introdutta tanti secoli dopo da Gallo Aquilio, la quale sta cosí conceputa: «Si quis natus natave erit», per dubbio che nella sola voce «natus» la postuma non s’intendesse compresa. Onde, per ignorazione di queste cose, Giustiniano nell’Istituta dice che la legge delle XII Tavole con la voce «adgnatus» avesse chiamati egualmente gli agnati maschi e l’agnate femmine, e che poi la giurisprudenza mezzana avesse irrigidito essa legge, restringendola alle sole sorelle consanguinee; lo che dev’esser avvenuto tutto il contrario, e che prima avesse steso la parola «suus» alle figliuole ancor di famiglia, e dipoi la voce «adgnatus» alle sorelle consanguinee. Ove a caso, ma però bene, tal giurisprudenza vien detta «media», perch’ella da questi casi incominciò a rallentare i rigori della legge delle XII Tavole: la qual venne dopo la giurisprudenza antica, la quale n’aveva custodito con somma scrupolositá le parole, siccome dell’una e dell’altra appieno si è sopra detto.
[994] Ma, essendo passato l’imperio da’ nobili al popolo, perché la plebe pone tutte le sue forze, tutte le sue ricchezze, tutta la sua potenza nella moltitudine de’ figliuoli, s’incominciò a sentire la tenerezza del sangue, ch’innanzi i plebei delle cittá eroiche non avevano dovuto sentire, perché generavano i figliuoli per fargli schiavi de’ nobili, da’ quali erano posti a
generare in tempo ch’i parti provenissero nella stagione di primavera, perché nascessero non solo sani, ma ancor robusti (onde se ne dissero «vernae», come vogliono i latini etimologi, da’ quali, come si è detto sopra, le lingue volgari furono dette «vernaculae»), e le madri dovevano odiargli anzi che no, siccome quelli de’ quali sentivano il solo dolore nel partorirgli e le sole molestie nel lattargli, senza prenderne alcun piacere d’utilitá nella vita. Ma, perché la moltitudine de’ plebei, quanto era stata pericolosa alle repubbliche aristocratiche, che sono e si dicon di pochi, tanto ingrandiva le popolari, e molto piú le monarchiche (onde sono i tanti favori che fanno le leggi imperiali alle donne per gli pericoli e dolori del parto), quindi da’ tempi della popolar libertá cominciaron i pretori a considerare i diritti del sangue ed a riguardarlo con le bonorum possessioni; cominciaron a sanare co’ loro rimedi i vizi o difetti de’ testamenti, perché si divolgassero le ricchezze, le quali sole son ammirate dal volgo.[995] Finalmente, venuti gl’imperadori, a’ quali faceva ombra lo splendore della nobiltá, si dieder a promuovere le ragioni dell’umana natura, comune cosí a’ plebei com’a’ nobili, incominciando da Augusto, il quale applicò a proteggere i fedecommessi (per gli quali, con la puntualitá degli eredi gravati, erano innanzi passati i beni agl’incapaci d’ereditá), e lor assisté tanto, che nella sua vita passarono in necessitá di ragione di costrignere gli eredi a mandargli in effetto. Succedettero tanti senaticonsulti, co’ quali i cognati entrarono nell’ordine degli agnati; finché venne Giustiniano e tolse le differenze de’ legati e de’ fedecommessi, confuse le quarte falcidia e trebellianica, di poco distinse i testamenti da’ codicilli e, ab intestato, adeguò gli agnati e i cognati in tutto e per tutto. E tanto le leggi romane ultime si profusero in favorire l’ultime volontá, che, quando anticamente per ogni leggier motivo si viziavano, oggi si devono sempre interpetrar in maniera che reggano piú tosto che cadano.
[996] Per l’umanitá de’ tempi (ché le repubbliche popolari amano i figliuoli, e le monarchie vogliono i padri occupati nell’amor
de’ figliuoli), essendo giá caduto il diritto ciclopico ch’avevano i padri delle famiglie sopra le persone, perché cadesse anco quello sopra gli acquisti de’ lor figliuoli, gl’imperadori introdussero prima il peculio castrense per invitar i figliuoli alla guerra, poi lo stesero al quasi castrense per invitargli alla milizia palatina, e finalmente, per tener contenti i figliuoli che né eran soldati né letterati, introdussero il peculio avventizio. Tolsero l’effetto della patria potestá all’adozioni, le quali non si contengono ristrette dentro pochi congionti. Appruovarono universalmente le arrogazioni, difficili alquanto ch’i cittadini, di padri di famiglia propia, divengano soggetti nelle famiglie d’altrui. Riputarono l’emancipazioni per benefizi. Diedero alle legittimazioni che dicono «per subsequens matrimonium» tutto il vigore delle nozze solenni. Ma sopra tutto, perché sembrava scemare la loro maestá quell’«imperium paternum», il disposero a chiamarsi «patria potestá»; sul lor esemplo, introdutto con grand’avvedimento da Augusto, che, per non ingelosire il popolo che volessegli togliere punto dell’imperio, si prese il titolo di «potestá tribunizia», o sia di protettore della romana libertá, che ne’ tribuni della plebe era stata una potestá di fatto, perch’essi non ebbero giammai imperio nella repubblica: come ne’ tempi del medesimo Augusto, avendo un tribuno della plebe ordinato a Labeone che comparisse avanti di lui, questo principe d’una delle due sètte de’ romani giureconsulti ragionevolmente ricusò d’ubbidire, perché i tribuni della plebe non avessero imperio. Talché né da’ gramatici né da’ politici né da’ giureconsulti è stato osservato il perché, nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi di comunicarle punto d’imperio, fecero quell’uscita di criare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cum consulari potestate», come sempre legge la storia, non giá «cum imperio consulari», che la storia non legge mai.[997] Onde la repubblica romana libera si concepí tutta con questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus autoritas», «populi imperium», «tribunorum plebis potestas». E queste due voci restarono nelle leggi con tali loro native eleganze: che l’«imperio»
si dice de’ maggiori maestrati, come de’ consoli, de’ pretori, e si stende fino a poter condennare di morte; la «potestá» si dice de’ maestrati minori, come degli edili, e «modica coërcitione continetur».[998] Finalmente, spiegando i romani principi tutta la loro clemenza verso l’umanitá, presero a favorire la schiavitú e raffrenarono la crudeltá de’ signori contro i loro miseri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle solennitá le manomessioni; e la cittadinanza, che prima non si dava ch’a’ grandi stranieri benemeriti del popolo romano, diedero ad ogniuno ch’anco di padre schiavo, purché da madre libera (nonché nata, affranchita) nascesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nelle cittá, il diritto naturale, ch’innanzi dicevasi «delle genti» o delle case nobili (perché ne’ tempi eroici erano state tutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propio cotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennero le repubbliche popolari (nelle quali l’intiere nazioni sono signore degl’imperi) e quindi le monarchie (dove i monarchi rappresentano l’intiere nazioni loro soggette), restò detto «diritto naturale delle nazioni».
[Capitolo Terzo]
Della custodia delle leggi
[999] La custodia degli ordini porta di séguito quella de’ maestrati e de’ sacerdozi, e quindi quella ancor delle leggi e della scienza d’interpetrarle. Ond’è che si legge nella storia romana, a’ tempi ne’ quali era quella repubblica aristocratica, che dentro l’ordine senatorio (ch’allora era tutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sacerdozi, e dentro il collegio de’ pontefici (nel quale non si ammettevano che patrizi), come appo tutte l’altre nazioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che sono lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra’ romani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, al narrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono detti «viri», che tanto in que’ tempi a’ latini significò quanto a’ greci significarono «eroi», e con tal nome s’appellarono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici, come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremo della custodia delle leggi, siccome quella ch’era una massima propietá dell’aristocrazie eroiche; onde fu l’ultima ad essere da’ patrizi comunicata alla plebe.
[1000] Tal custodia scrupolosamente si osservò ne’ tempi divini; talché l’osservanza delle leggi divine se ne chiama «religione», la quale si perpetuò per tutti i governi appresso, ne’ quali le leggi divine si devon osservare con certe innalterabili formole di consagrate parole e di cerimonie solenni. La qual custodia delle leggi è tanto propia delle repubbliche aristocratiche che nulla piú. Perciò Atene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le cittá della Grecia) andò prestamente alla libertá popolare, per quello che gli spartani (ch’erano di repubblica aristocratica) dicevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne scrivevano, e le poche ch’erano in Isparta si osservavano.
[1001] Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto
che da Tacito funne detta «finis omnis aequi iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertá (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sopra dimostra, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis aequi iuris», perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodí comandava delle leggi singolari, perché d’universali ella non è capace. Al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le Quistioni perpetue; ma, rinnunziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politici l’avvertiscono, non vi è via piú spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti principi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertá popolare si custodirono sí severamente le formole dell’azioni, che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene», perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolar d’equitá fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l’equitá naturale. Cosí, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertá popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch’i principi non fann’altro che concedere privilegi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piú conforme alla natural equitá. Anzi tutte l’eccezioni, ch’oggi si dánno alle leggi, si può con veritá dire che sono privilegi dettati dal particolar merito de’ fatti, il quale gli tragge fuori dalla comun disposizion delle leggi.[1002] Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane; tanto che in Francia era con gravi pene punito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiunque nella sua causa n’avesse allegato alcuna. Certamente, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i lor affari con le leggi romane e professavano soggiacere alle longobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de’ lor costumi, praticavano alcuni diritti romani in forza di consuetudini: ch’è la cagione onde il corpo delle leggi di Giustiniano ed altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romano orientale tra’ greci si seppellirono. Ma poi, rinnate le monarchie e rintrodutta la libertá popolare, il diritto romano compreso ne’ libri di Giustiniano è stato ricevuto universalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa.
[1003] Però qui è da ammirare la romana gravitá e sapienza: che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsulti si studiarono a tutto loro potere che di quanto meno e con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principalmente l’imperio romano cotanto s’ingrandí e durò: perché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto potere di star fermo sopra i suoi princípi, che furono gli stessi che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i politici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di durar e d’ingrandire gli Stati. Cosí la cagione, che produsse a’ romani la piú saggia giurisprudenza del mondo (di che sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezza romana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nella religione de’ nobili, al contrario Macchiavello nella magnanimitá della plebe, e Plutarco, invidioso della romana virtú e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libro De fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritte Torquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta.
[SEZIONE DECIMATERZA]
[Capitolo Primo]
Altre pruove prese dal temperamento delle repubbliche, fatto degli stati delle seconde coi governi delle primiere.
[1004] Per tutte le cose che in questo libro si sono dette, con evidenza si è dimostrato che, per tutta l’intiera vita onde vivon le nazioni, esse corrono con quest’ordine sopra queste tre spezie di repubbliche, o sia di Stati civili, e non piú: che tutti mettono capo ne’ primi, che furon i divini governi; da’ quali, appo tutte, incominciando (per le degnitá sopra poste come princípi della storia ideal eterna), debbe correre questa serie di cose umane, prima in repubbliche d’ottimati, poi nelle libere popolari e finalmente sotto le monarchie. Onde Tacito, quantunque non le veda con tal ordine, dice (quale nell’Idea dell’opera l’avvisammo) che, oltre a queste tre forme di Stati pubblici, ordinate dalla natura de’ popoli, l’altre di queste tre, mescolate per umano provvedimento, sono piú da disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conseguire, e, se per sorte ve n’hanno, non sono punto durevoli. Ma, per non trallasciare punto di dubbio d’intorno a tal naturale successione di Stati politici o sien civili, secondo questa ritruoverassi le repubbliche mescolarsi naturalmente, non giá di forme (che sarebbero mostri), ma di forme seconde mescolate coi governi delle primiere; il qual
mescolamento è fondato sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempo l’impressione del loro vezzo primiero.[1005] Perciò diciamo che, come i primi padri gentili, venuti dalla vita lor bestiale all’umana, eglino, a’ tempi religiosi, nello stato di natura, sotto i divini governi, ritennero molto di fierezza e d’immanitá della lor fresca origine (onde Platone riconosce ne’ polifemi d’Omero i primi padri di famiglia del mondo); cosí, nel formarsi le prime repubbliche aristocratiche, restaron intieri gl’imperi sovrani privati a’ padri delle famiglie, quali gli avevano essi avuto nello stato giá di natura; e, per lo loro sommo orgoglio, non dovendo niuno ceder ad altri, perch’erano tutti uguali, con la forma aristocratica s’assoggettirono all’imperio sovrano pubblico d’essi ordini loro regnanti; onde il dominio alto privato di ciascun padre di famiglia andò a comporre il dominio alto superiore pubblico d’essi senati, siccome delle potestá sovrane private, ch’avevano sopra le loro famiglie, essi composero la potestá sovrana civile de’ loro medesimi ordini. Fuori della qual guisa, è impossibil intendere come altrimente delle famiglie si composero le cittá, le quali, perciò, ne dovettero nascere repubbliche aristocratiche, naturalmente mescolate d’imperi famigliari sovrani.
[1006] Mentre i padri si conservarono cotal autoritá di dominio dentro gli ordini loro regnanti, finché le plebi de’ loro popoli eroici, per leggi di essi padri, riportarono comunicati loro il dominio certo de’ campi, i connubi, gl’imperi, i sacerdozi e, co’ sacerdozi, la scienza ancor delle leggi, le repubbliche durarono aristocratiche. Ma, poi che esse plebi dell’eroiche cittá, divenute numerose ed anco agguerrite (che mettevano paura a’ padri, che nelle repubbliche di pochi debbon essere pochi) ed assistite dalla forza (ch’è la loro moltitudine), cominciarono a comandare leggi senza autoritá de’ senati, si cangiarono le repubbliche, e da aristocratiche divennero popolari: perché non potevano pur un momento vivere ciascuna con due potestá somme legislatrici, senza essere distinte di subbietti, di tempi, di territori, d’intorno a’ quali, ne’ quali e dentro i quali dovessero
comandare le leggi: come con la legge publilia, perciò, Filone dittatore dichiarò la repubblica romana essersi per natura fatta giá popolare. In tal cangiamento, perché l’autoritá di dominio ritenesse ciò che poteva della cangiata sua forma, ella naturalmente divenne autoritá di tutela (siccome la potestá c’hanno i padri sopra i loro figliuoli impuberi, morti essi, diviene in altri autoritá di tutori); per la quale autoritá, i popoli liberi, signori de’ lor imperi, quasi pupilli regnanti, essendo di debole consiglio pubblico, essi naturalmente si fanno governare, come da’ tutori, da’ lor senati; e sí furono repubbliche libere per natura, governate aristocraticamente. Ma, poi che i potenti delle repubbliche popolari ordinarono tal consiglio pubblico a’ privati interessi della loro potenza, e i popoli liberi, per fini di private utilitá, si fecero da’ potenti sedurre ad assoggettire la loro pubblica libertá all’ambizione di quelli, con dividersi in partiti, sedizioni, guerre civili, in eccidio delle loro medesime nazioni, s’introdusse la forma monarchica.[Capitolo Secondo]
D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie
[1007] E tal forma monarchica s’introdusse con questa eterna natural legge regia, la qual sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani. La qual legge non han veduto gl’interpetri della romana ragione, occupati tutti d’intorno alla favola della «legge regia» di Triboniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano nelle Pandette. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani, che seppero bene del diritto naturale delle genti, per ciò che Pomponio, nella brieve storia del diritto romano, ragionando di cotal legge, con quella ben intesa espressione ci lasciò scritto: «rebus ipsis dictantibus, regna condita».
[1008] Cotal legge regia naturale è conceputa con questa formola naturale di eterna utilitá: che, poiché nelle repubbliche libere tutti guardano a’ loro privati interessi, a’ quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio delle loro nazioni, perché si conservin le nazioni, vi surga un solo (come tra’ romani un Augusto), che con la forza dell’armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci a’ soggetti curarsi le loro cose private, e tale e tanta cura abbiano delle pubbliche qual e quanta il monarca lor ne permetta; e cosí si salvino i popoli, ch’anderebbono altrimente a distruggersi. Nella qual veritá convengono i volgari dottori, ove dicono che «universitates sub rege habentur loco privatorum», perché la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico. Lo che Tacito, sappientissimo del diritto natural delle genti, negli Annali, dentro la sola famiglia de’ Cesari l’insegna con quest’ordine d’idee umane civili: avvicinandosi al fine Augusto, «pauci bona libertatis incassum
disserere»; tosto venuto Tiberio, «omnes principis iussa adspectare»; sotto gli tre Cesari appresso, prima venne «incuria» e finalmente «ignorantia reipublicae tanquam alienae»: onde, essendo i cittadini divenuti quasi stranieri delle loro nazioni, è necessario ch’i monarchi nelle loro persone le reggano e rappresentino. Ora, perché nelle repubbliche libere per portarsi un potente alla monarchia vi deve parteggiare il popolo, perciò le monarchie per natura si governano popolarmente: prima con le leggi, con le quali i monarchi vogliono i soggetti tutti uguagliati; dipoi per quella propietá monarchica, ch’i sovrani, con umiliar i potenti, tengono libera e sicura la moltitudine dalle lor oppressioni; appresso per quell’altra di mantenerla soddisfatta e contenta circa il sustentamento che bisogna alla vita e circa gli usi della libertá naturale; e finalmente co’ privilegi, ch’i monarchi concedono o ad intieri ordini (che si chiamano «privilegi di libertá») o a particolari persone, con promuovere fuori d’ordine uomini di straordinario merito agli onori civili (che sono leggi singolari dettate dalla natural equitá). Onde le monarchie sono le piú conformi all’umana natura della piú spiegata ragione, com’altra volta si è detto.[Capitolo Terzo]
Confutazione de’ princípi della dottrina politica
fatta sopra il sistema di Giovanni Bodino
[1009] Dallo che si è fino qui ragionato s’intenda quanto Gian Bodino stabilí con iscienza i princípi della sua dottrina politica, che dispone le forme degli Stati civili con sí fatt’ordine: che prima furono monarchici, dipoi per le tirannie passati in liberi popolari, e finalmente vennero gli aristocratici. Qui basterebbe averlo appien confutato con la natural successione delle forme politiche, spezialmente in questo libro a tante innumerabili pruove dimostrata di fatto. Ma ci piace, ad exuberantiam, confutarlo dagl’impossibili e dagli assurdi di cotal sua posizione.
[1010] Esso, certamente, conviene in quello ch’è vero: che sopra le famiglie si composero le cittá. Altronde, per comun errore, che si è qui sopra ripreso, ha creduto che le famiglie sol fussero di figliuoli. Or il domandiamo: come sopra tali famiglie potevano surger le monarchie?
[1011] Due sono i mezzi: o la forza o la froda.
[1012] Per forza, come un padre di famiglia poteva manomettere gli altri? Perché, se nelle repubbliche libere (che, per esso, vennero dopo le tirannie) i padri di famiglia consagravano sé e le loro famiglie per le loro patrie, che loro conservavano le famiglie (e, per esso, erano quelli giá stati addimesticati alle monarchie), quanto è da stimarsi ch’i padri di famiglia, allor polifemi, nella recente origine della loro ferocissima libertá bestiale, si arebbono tutti con le lor intiere famiglie fatti piú tosto uccidere che sopportar inegualitá?
[1013] Per froda, ella è adoperata da coloro ch’affettano il regno nelle repubbliche libere, con proporre a’ sedutti o libertá o potenza o ricchezze. Se libertá, nello stato delle famiglie i padri erano tutti sovrani. Se potenza, la natura de’ polifemi era di
starsi tutti soli nelle loro grotte e curare le lor famiglie, e nulla impacciarsi di quelle ch’eran d’altrui, convenevolmente al vezzo della lor origine immane. Se ricchezze, in quella semplicitá e parsimonia de’ primi tempi non s’intendevano affatto.[1014] Cresce a dismisura la difficultá, perché ne’ tempi barbari primi non vi eran fortezze, e le cittá eroiche, le quali si composero dalle famiglie, furono lungo tempo smurate, come ce n’accertò sopra Tucidide. E, nelle gelosie di Stato, che furono funestissime nell’aristocrazie eroiche che sopra abbiam detto, Valerio Publicola, per aversi fabbricato una casa in alto, venutone in sospetto d’affettata tirannide, affin di giustificarsene, in una notte fecela smantellare, e ’l giorno appresso, chiamata pubblica ragunanza, fece da’ littori gittar i fasci consolari a’ piedi del popolo. E ’l costume delle cittá smurate piú durò ove furono piú feroci le nazioni; talché in Lamagna si legge ch’Arrigo detto l’uccellatore fu il primo che ’ncominciasse a ridurre i popoli, da’ villaggi dove innanzi avevano vivuto dispersi, a celebrar le cittá ed a cingere le cittá di muraglie. Tanto i primi fondatori delle cittá essi furono quelli che con l’aratro vi disegnarono le mura e le porte: ch’i latini etimologi dicono essersi cosí dette a «portando aratro», perché l’avessero portato alto, ove volevano che si aprisser le porte! Quindi, tra per la ferocia de’ tempi barbari e per la poca sicurtá delle regge, nella corte di Spagna in sessant’anni furon uccisi piú di ottanta reali; talché i padri del concilio illiberitano, uno degli piú antichi della Chiesa latina, con gravi scomuniche ne condennarono la tanto frequentata scelleratezza.
[1015] Ma giugne la difficultá all’infinito, poste le famiglie sol di figliuoli. Ché o per forza o per froda debbon i figliuoli essere stati i ministri dell’altrui ambizione, e o tradire o uccidere i propi padri; talché le prime sarebbono state, non giá monarchie, ma empie e scellerate tirannidi. Come i giovani nobili in Roma congiurarono contro i lor propi padri a favore del tiranno Tarquinio, per l’odio ch’avevano al rigor delle leggi, propio delle repubbliche aristocratiche (come le benigne sono delle repubbliche popolari, le clementi de’ regni legittimi, le
dissolute sotto i tiranni); ed essi giovani congiurati le sperimentarono a costo delle propie lor vite; e, tra quelli, due figliuoli di Bruto, dettando esso padre la severissima pena, furon entrambi decapitati. Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare![1016] Per tali e tante difficultá debbe Bodino (e con lui tutti gli altri politici) riconoscere le monarchie famigliari nello stato delle famiglie che si sono qui dimostrate, e riconoscere le famiglie, oltre de’ figliuoli, ancora de’ famoli (da’ quali principalmente si dissero le famiglie), i quali si sono qui truovati che abbozzi furono degli schiavi, i quali vennero dopo le cittá con le guerre. E ’n cotal guisa sono la materia delle repubbliche uomini liberi e servi, i quali il Bodino pone per materia delle repubbliche, ma, per la sua posizione, non posson esserlo.
[1017] Per tale difficultá di poter essere uomini liberi e servi materia delle repubbliche con la sua posizione, si maraviglia esso Bodino che la sua nazione sia stata detta di «franchi», i quali osserva essere stati ne’ loro primi tempi trattati da vilissimi schiavi; perché, per la sua posizione, non poté vedere che sugli sciolti dal nodo della legge petelia si compierono le nazioni. Talché i franchi, de’ quali si maraviglia il Bodino, sono gli stessi che [gli] «homines», de’ quali si maraviglia Ottomano essere stati detti i vassalli rustici, de’ quali, come in questi libri si è dimostrato, si composero le plebi de’ primi popoli, i quali eran d’eroi. Le quali moltitudini, come pure si è dimostrato, trassero l’aristocrazie alla libertá popolare e, finalmente, alle monarchie; e ciò, in forza della lingua volgare, con cui, in ogniuno dei due ultimi Stati, si concepiscon le leggi, come sopra si è ragionato. Onde da’ latini si disse «vernacula» la volgar lingua, perocché venne da questi servi nati in casa, ché tanto «verna» significa, non «fatti in guerra»; quali sopra dimostrammo essere stati per tutte le nazioni antiche fin dallo stato delle famiglie. Il perché i greci non si dissero piú «achivi» (onde da Omero si dicono «filii achivorum» gli eroi), ma si dissero «elleni» da Elleno, che ’ncominciò la lingua greca volgare; appunto come non piú si dissero «filii Israël», come ne’ tempi
primi, ma restò detto «popolo ebreo», da Eber, che i padri vogliono essere stato il propagator della lingua santa. Tanto Bodino, e tutti gli altri c’hanno scritto di dottrina politica, videro questa luminosissima veritá, la quale per tutta quest’opera, particolarmente con la storia romana, ad evidenza si è dimostrata: che le plebi de’ popoli, sempre ed in tutte le nazioni, han cangiato gli Stati da aristocratici in popolari, da popolari in monarchici, e che, come elleno fondarono le lingue volgari (come sopra appieno si è pruovato nell’Origini delle lingue), cosí hanno dato i nomi alle nazioni, conforme testé si è veduto! E sí gli antichi franchi, de’ quali il Bodino si maraviglia, il diedero alla sua Francia.[1018] Finalmente gli Stati aristocratici, per la sperienza ch’ora n’abbiamo, sono pochissimi, rimastici da essi tempi della barbarie, che sono Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, perocché gli altri sono Stati popolari governati aristocraticamente. Laonde lo stesso Bodino — che, sulla sua posizione, vuole il regno romano monarchico, e, cacciati indi i tiranni, vuole in Roma introdutta la popolar libertá, — non vedendo ne’ tempi primi di Roma libera riuscirgli gli effetti conformi al disegno de’ suoi princípi (perch’eran propi di repubblica aristocratica), osservammo sopra che, per uscirne onestamente, dice prima che Roma fu popolare di Stato ma di governo aristocratico, ma poi, essendo costretto dalla forza del vero, in altro luogo, con brutta incostanza, confessa essere stata aristocratica, nonché di governo, di Stato.
[1019] Tali errori nella dottrina politica sono nati da quelle tre voci non diffinite, ch’altre volte abbiamo sopra osservato: «popolo», «regno» e «libertá». E si è creduto i primi popoli comporsi di cittadini cosí plebei come nobili, i quali a mille pruove qui si sono truovati essere stati di soli nobili. Si è creduto libertá popolare di Roma antica, cioè libertá del popolo da’ signori, quella che qui si è truovata libertá signorile, cioè libertá de’ signori da’ tiranni Tarquini; onde agli uccisori di tai tiranni s’ergevano le statue, perché gli uccidevano per
ordine di essi senati regnanti. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli e nella mala sicurtá delle regge, furono aristocratici, quali i due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor di dubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poi furono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chiama «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamento fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professa che ’l regno romano di nulla fu mutato d’intorno alla regal potestá; come l’abbiamo sopra osservato che da questi re annali, durante il loro regno, vi era l’appellagione al popolo, e, quello finito, dovevano render conto del regno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflettemmo che, ne’ tempi eroici, gli re tutto giorno si cacciavano di sedia l’un l’altro, come ci disse Tucidide; co’ quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne’ quali non si legge cosa piú incerta e varia che la fortuna de’ regni. Ponderammo Tacito (che nella propietá ed energia di esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che ’ncomincia gli Annali con questo motto: «Urbem Romam principio reges habuere», ch’è la piú debole spezie di possessione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quando dicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce «urbem», che, propiamente, son gli edifici, per significare una possessione conservata col corpo: non disse «civitatem», ch’è ’l comune de’ cittadini, i quali tutti, o la maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica.[SEZIONE DECIMAQUARTA] Ultime pruove le quali confermano tal corso di nazioni
[Capitolo Primo]
[Pene, guerre, ordine dei numeri]
[1020] Vi sono altre convenevolezze di effetti con le cagioni che lor assegna questa Scienza ne’ suoi princípi, per confermare il natural corso che fanno nella lor vita le nazioni. La maggior parte delle quali sparsamente sopra e senz’ordine si sono dette, e qui, dentro tal naturale successione di cose umane civili, si uniscono e si dispongono.
[1021] Come le pene, che nel tempo delle famiglie erano crudelissime quanto erano quelle de’ polifemi, nel quale stato Apollo scortica vivo Marsia. E seguitarono nelle repubbliche aristocratiche; onde Perseo col suo scudo, come sopra spiegammo, insassiva coloro che ’l riguardavano. E le pene se ne dissero da’ greci παραδείγματα, nello stesso senso che da’ latini si chiamarono «exempla», in senso di «castighi esemplari»; e da’ tempi barbari ritornati, come si è anco osservato sopra, «pene ordinarie» si dissero le pene di morte. Onde le leggi di Sparta, repubblica a tante pruove da noi dimostrata aristocratica, elleno, selvagge e crude cosí da Platone come da Aristotile giudicate, vollero un chiarissimo re, Agide, fatto strozzare dagli efori; e quelle di Roma, mentre fu di stato aristocratico,
volevano un inclito Orazio vittorioso battuto nudo con le bacchette e quindi all’albero infelice afforcato, come l’un e l’altro sopra si è detto ad altro proposito. Dalla legge delle XII Tavole condennati ad esser bruciati vivi coloro ch’avevano dato fuoco alle biade altrui, precipitati giú dal monte Tarpeo li falsi testimoni, fatti vivi in brani i debitori falliti: la qual pena Tullo Ostilio non aveva risparmiato a Mezio Fuffezio, re di Alba, suo pari, che gli aveva mancato la fede dell’alleanza; [ed] esso Romolo, innanzi, fu fatto in brani da’ padri per un semplice sospetto di Stato. Lo che sia detto per coloro i quali vogliono che tal pena non fu mai praticata in Roma.[1022] Appresso vennero le pene benigne, praticate nelle repubbliche popolari, dove comanda la moltitudine, la quale, perché di deboli, è naturalmente alla compassione inchinata; e quella pena — della qual Orazio (inclito reo d’una collera eroica, con cui aveva ucciso la sorella, la qual esso vedeva piangere alla pubblica felicitá) il popolo romano assolvette «magis admiratione virtutis quam iure caussae» (conforme all’elegante espressione di Livio, altra volta sopra osservata), — nella mansuetudine della di lui libertá popolare, come Platone ed Aristotile, ne’ tempi d’Atene libera, poco fa udimmo riprendere le leggi spartane, cosí Cicerone grida esser inumana e crudele, per darsi ad un privato cavaliere romano, Rabirio, ch’era reo di ribellione. Finalmente si venne alle monarchie, nelle qual’i principi godono di udire il grazioso titolo di «clementi».
[1023] Come dalle guerre barbare de’ tempi eroici, che si rovinavano le cittá vinte, e gli arresi, cangiati in greggi di giornalieri, erano dispersi per le campagne a coltivar i campi per gli popoli vincitori (che, come sopra ragionammo, furono le colonie eroiche mediterranee) — quindi per la magnanimitá delle repubbliche popolari, le quali, finché si fecero regolare da’ lor senati, toglievano a’ vinti il diritto delle genti eroiche e lasciavano loro tutti liberi gli usi del diritto natural delle genti umane ch’Ulpiano diceva (onde, [con] la distesa delle conquiste, si ristrinsero a’ cittadini romani tutte le ragioni, che poi si dissero «propriae civium romanorum», come sono nozze, patria
potestá, suitá, agnazione, gentilitá, dominio quiritario o sia civile, mancipazioni, usucapioni, stipulazioni, testamenti, tutele ed ereditá; le quali ragioni civili tutte, innanzi d’esser soggette, dovettero aver propie loro le libere nazioni) — si venne finalmente alle monarchie, che vogliono, sotto Antonino Pio, di tutto il mondo romano fatta una sola Roma. Perch’è voto propio de’ gran monarchi di far una cittá sola di tutto il mondo, come diceva Alessandro magno che tutto il mondo era per lui una cittá, della qual era ròcca la sua falange. Onde il diritto natural delle nazioni, promosso da’ pretori romani nelle provincie, venne, a capo di lunga etá, a dar le leggi in casa d’essi romani; perché cadde il diritto eroico de’ romani sulle provincie, perché i monarchi vogliono tutti i soggetti uguagliati con le lor leggi. E la giurisprudenza romana, la quale ne’ tempi eroici tutta si celebrò sulla legge delle XII Tavole, e poi, fin da’ tempi di Cicerone (com’egli il riferisce in un libro De legibus), era incominciata a praticarsi sopra l’editto del romano pretore, finalmente, dall’imperador Adriano in poi, tutta s’occupò d’intorno all’Editto perpetuo, composto ed ordinato da Salvio Giuliano quasi tutto d’editti provinciali.[1024] Come da’ piccioli distretti, che convengono a ben governarsi le repubbliche aristocratiche, poi per le conquiste, alle quali sono ben disposte le repubbliche libere, si viene finalmente alle monarchie, le quali, quanto sono piú grandi, sono piú belle e magnifiche.
[1025] Come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposare sotto le monarchie.
[1026] Ma ci piace finalmente di dimostrare come sopra quest’ordine di cose umane civili, corpolento e composto, vi convenga l’ordine de’ numeri, che sono cose astratte e purissime. Incominciarono i governi dall’uno, con le monarchie famigliari; indi passarono a’ pochi, con l’aristocrazie eroiche; s’innoltrarono ai molti e tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all’uno nelle monarchie civili. Né nella natura de’
numeri si può intendere divisione piú adeguata né con altr’ordine che uno, pochi, molti e tutti, e che i pochi, molti e tutti ritengano, ciascheduno nella sua spezie, la ragione dell’uno; siccome i numeri consistono in indivisibili, al dir d’Aristotile, e, oltrepassando i tutti, si debba ricominciare dall’uno. E sí l’umanitá si contiene tutta tralle monarchie famigliari e civili.[Capitolo Secondo]
Corollario
Il diritto romano antico fu un serioso poema e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia, dentro la quale si truovano i primi dirozzamenti della legal metafisica, e come a’ greci dalle leggi uscí la filosofia.
[1027] Vi sono altri ben molti e ben grandi effetti, particolarmente nella giurisprudenza romana, i quali non truovano le loro cagioni che ’n questi stessi princípi. E sopra tutto per quella degnitá: — che, perocché sono gli uomini naturalmente portati al conseguimento del vero, per lo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s’attengono al certo, — quindi le mancipazioni cominciarono con vera mano, per dire con «vera forza», perché «forza» è astratto, «mano» è sensibile. E la mano appo tutte le nazioni significò «potestá»; onde sono le «chirotesie» e le «chirotonie» che dicon i greci, delle quali quelle erano criazioni che si facevano con le imposizioni delle mani sopra il capo di colui ch’aveva da eleggersi in potestá, queste eran acclamazioni delle potestá giá criate fatte con alzare le mani in alto. Solennitá propie de’ tempi mutoli, conforme a’ tempi barbari ritornati cosí acclamavano all’elezioni de’ re. Tal mancipazion vera è l’occupazione, primo gran fonte naturale di tutti i domíni, ch’a’ romani detta poi restò nelle guerre; ond’e gli schiavi furono detti «mancipia», e le prede e le conquiste «res mancipi» de’ romani, divenute con le vittorie «res nec mancipi» ad essi vinti. Tanto la mancipazione nacque dentro le mura della sola cittá di Roma per modo d’acquistar il dominio civile ne’ commerzi privati d’essi romani!
[1028] A tal mancipazione andò di séguito una conforme vera usucapione, cioè acquisto di dominio (ché tanto suona «capio»)
con vero uso (in senso che la voce «usus» significa «possessio»). E le possessioni dapprima si celebrarono col continuo ingombramento de’ corpi sopra esse cose possedute, talché «possessio» dev’essere stata detta quasi «porro sessio» (per lo quale proseguito atto di sedere o star fermo i domicili latinamente restaron chiamati «sedes»), e non giá «pedum positio», come dicono i latini etimologi, perché il pretore assiste a quella e non a questa possessione e la mantiene con gl’interdetti. Dalla qual posizione, detta θέσις da’ greci, dovette chiamarsi Teseo, non dalla bella sua positura, come dicono gli etimologi greci, perché uomini d’Attica fondaron Atene con lo stare lungo tempo ivi fermi; ch’è l’usucapione, la qual legittima appo tutte le nazioni gli Stati.[1029] Ancora, in quelle repubbliche eroiche d’Aristotile che non avevano leggi da ammendar i torti privati, vedemmo, sopra, le revindicazioni esercitarsi con vera forza (che furono i primi duelli o private guerre del mondo), e le condiczioni essere state le ripresaglie private, che dalla barbarie ricorsa duraron fin a’ tempi di Bartolo.
[1030] Imperciocché, essendosi incominciata ad addimesticare la ferocia de’ tempi e, con le leggi giudiziarie, incominciate a proibirsi le violenze private, tutte le private forze andandosi ad unire nella forza pubblica, che si dice «imperio civile», i primi popoli, per natura poeti, dovettero naturalmente imitare quelle forze vere, ch’avevan innanzi usate per conservarsi i loro diritti e ragioni. E cosí fecero una favola della mancipazion naturale, e ne fecero la solenne tradizion civile, la quale si rappresentava con la consegna d’un nodo finto, per imitare la catena con la qual Giove aveva incatenati i giganti alle prime terre vacue, e poi essi v’incatenarono i loro clienti ovvero famoli; e, con tal mancipazione favoleggiata, celebrarono tutte le loro civili utilitá con gli atti legittimi, che dovetter essere cerimonie solenni de’ popoli ancora mutoli. Poscia (essendosi la favella articolata formata appresso), per accertarsi l’uno della volontá dell’altro nel contrarre tra loro, vollero ch’i patti, nell’atto della consegna di esso nodo, si vestissero
con parole solenni, delle quali fussero concepute stipulazioni certe e precise; e cosí dappoi in guerra concepivano le leggi con le quali si facevano le rese delle vinte cittá, le quali si dissero «paci» da «pacio», che lo stesso suona che «pactum». Di che restò un gran vestigio nella formola con la quale fu conceputa la resa di Collazia, che, qual è riferita da Livio, ella è un contratto recettizio fatto con solenni interrogazioni e risposte; onde con tutta propietá gli arresi ne furon detti «recepti», conforme l’araldo romano disse agli oratori collatini: — «Et ego recipio». — Tanto la stipulazione ne’ tempi eroici fu de’ soli cittadini romani! e tanto con buon senno si è finora creduto che Tarquinio Prisco, nella formola con cui fu resa Collazia, avesse ordinato alle nazioni com’avesser a fare le rese![1031] In cotal guisa il diritto delle genti eroiche del Lazio restò fisso nel famoso capo della legge delle XII Tavole cosí conceputo: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch’è il gran fonte di tutto il diritto romano antico, ch’i pareggiatori del diritto attico confessano non esser venuto da Atene in Roma.
[1032] L’usucapione procedé con la possessione presa col corpo, e poi, finta, ritenersi con l’animo. Alla stessa fatta favoleggiarono con una pur finta forza le vindicazioni; e le ripresaglie eroiche passarono dappoi in azioni personali, serbata la solennitá di dinonziarla a coloro ch’erano debitori. Né poté usar altro consiglio la fanciullezza del mondo, poiché i fanciulli, come se n’è proposta una degnitá, vagliono potentemente nell’imitar il vero di che sono capaci, nella qual facultá consiste la poesia, ch’altro non è ch’imitazione.
[1033] Si portarono in piazza tante maschere quante son le persone, ché «persona» non altro propiamente vuol dire che «maschera», e quanti sono i nomi, i quali, ne’ tempi de’ parlari mutoli, che si facevan con parole reali, dovetter essere l’insegne delle famiglie, con le quali furono ritruovati distinguere le famiglie loro gli americani, come sopra si è detto; e sotto la persona o maschera d’un padre d’una famiglia si nascondevano tutti i figliuoli e tutti i servi di quella, sotto un nome reale
ovvero insegna di casa si nascondevano tutti gli agnati e tutti i gentili della medesima. Onde vedemmo ed Aiace torre de’ greci, ed Orazio solo sostenere sul ponte tutta Toscana, ed a’ tempi barbari ritornati rincontrammo quaranta normanni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di saraceni; e quindi furono credute le stupende forze de’ paladini di Francia (che erano sovrani principi, come restarono cosí detti nella Germania) e, sopra tutti, del conte Rolando, poi detto Orlando. La cui ragione esce da’ princípi della poesia che si sono sopra truovati: che gli autori del diritto romano, nell’etá che non potevano intendere universali intelligibili, ne fecero universali fantastici; e come poi i poeti, per arte, ne portarono i personaggi e le maschere nel teatro, cosí essi, per natura, innanzi avevano portato i «nomi» e le «persone» nel fòro.[1034] Perché «persona» non dev’essere stata detta da «personare», che significa «risuonar dappertutto» — lo che non bisognava ne’ teatri assai piccioli delle prime cittá (quando, come dice Orazio, i popoli spettatori erano piccioli che si potevano numerare) che le maschere si usassero, perché ivi dentro talmente risuonasse la voce ch’empiesse un ampio teatro; né vi acconsente la quantitá della sillaba, la quale, da «sono», debb’esser brieve; — ma dev’esser venuto da «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato «vestir pelli di fiere» (lo che non era lecito ch’a’ soli eroi), e ci è rimasto il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne salvaggine cacciate», che dovetter essere le prime mense opime, qual’appunto de’ suoi eroi le descrive Virgilio. Onde le prime spoglie opime dovetter essere tali pelli di fiere uccise, che riportarono dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come sopra si è ragionato, e i poeti di tali pelli fanno vestire gli eroi e, sopra tutti, di quella del lione, Ercole. E da tal origine del verbo «personari», nel suo primiero significato che gli abbiamo restituito, congetturiamo che gl’italiani dicono «personaggi» gli uomini d’alto stato e di grande rappresentazione.
[1035] Per questi stessi princípi, perché non intendevano forme astratte, ne immaginarono forme corporee, e l’immaginarono, dalla loro natura, animate. E finsero l’ereditá signora delle robe ereditarie, ed in ogni particolar cosa ereditaria la ravvisavano tutta intiera: appunto come una gleba o zolla del podere, che presentavano al giudice, con la formola della revindicazione essi dicevano «hunc fundum». E cosí, se non intesero, sentirono rozzamente almeno ch’i diritti fussero indivisibili.
[1036] In conformitá di tali nature, l’antica giurisprudenza tutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti ereditá; introdusse tante maschere vane senza subbietti, che si dissero «iura imaginaria», ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in truovare sí fatte favole ch’alle leggi serbassero la gravitá ed ai fatti ministrassero la ragione. Talché tutte le finzioni dell’antica giurisprudenza furono veritá mascherate; e le formole con le quali parlavan le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali parole — né piú, né meno, né altre, — si dissero «carmina», come sopra udimmo dirsi da Livio quella che dettava la pena contro di Orazio. Lo che vien confermato con un luogo d’oro di Plauto nell’Asinaria, dove Diabolo dice il parasito esser un gran poeta, perché sappia piú di tutti ritruovare cautele o formole, le quali or si è veduto che si dicevano «carmina».
[1037] Talché tutto il diritto romano antico fu un serioso poema, che si rappresentava da’ romani nel fòro, e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia. Ch’è quello che, troppo acconciamente al nostro proposito, Giustiniano nel proemio dell’Istituta chiama «antiqui iuris fabulas»: il qual motto dev’essere stato d’alcun antico giureconsulto, ch’avesse inteso queste cose qui ragionate; ma egli l’usa per farne beffe. Ma da queste antiche favole richiama i suoi princípi, come qui si dimostra, la romana giurisprudenza; e dalle maschere, le quali usarono tali favole dramatiche e vere e severe, che furon dette «personae», derivano nella dottrina De iure personarum le prime origini.
[1038] Ma, venuti i tempi umani delle repubbliche popolari, s’incominciò nelle grandi adunanze a ravvisar intelletto; e le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». Il qual intelletto è della volontá che ’l legislatore ha spiegato nella sua legge (la qual volontá si appella «ius»), che fu la volontá de’ cittadini uniformati in un’idea d’una comune ragionevole utilitá, la qual dovettero intendere essere spirituale di sua natura, perché tutti que’ diritti che non hanno corpi dov’essi si esercitino (i quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi di corpolenza) dissero «in intellectu iuris consistere». Perché, adunque, son i diritti modi di sostanza spirituale, perciò son individui, e quindi son anco eterni, perché la corrozione non è altro che divisione di parti.
[1039] Gl’interpetri della romana ragione hanno riposta tutta la riputazione della legal metafisica in considerare l’indivisibilitá de’ diritti sopra la famosa materia De dividuis et individuis. Ma non ne considerarono l’altra non meno importante, ch’era l’eternitá, la qual dovevano pur avvertire in quelle due regole di ragione, che stabiliscono, la prima, che, «cessante fine legis, cessat lex»; ove non dicono «cessante ratione», perché il fine della legge è l’uguale utilitá delle cause, la qual può mancare; ma la ragione della legge è una conformazione della legge al fatto, vestito di tali circostanze, le quali, sempre che vestono il fatto, vi regna viva sopra la ragion della legge; — l’altra, che «tempus non est modus constituendi vel dissolvendi iuris» perché ’l tempo non può cominciare né finire l’eterno, e nell’usucapioni e prescrizioni il tempo non produce né finisce i diritti, ma è pruova che chi gli aveva abbia voluto spogliarsene; né, perché si dica «finire l’usufrutto», per cagion d’esemplo, il diritto finisce, ma dalla servitú si riceve alla primiera sua libertá. Dallo che escono questi due importantissimi corollari: il primo, ch’essendo i diritti eterni nel di lor intelletto, o sia nella lor idea, e gli uomini essendo in tempo, non posson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio; il secondo, che tutti gl’innumerabili vari diversi diritti, che sono stati, sono e saranno nel mondo, sono varie modificazioni diverse della potestá
del primo uomo, che fu il principe del gener umano, e del dominio ch’egli ebbe sopra tutta la terra.[1040] Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo i filosofi, egli è necessario che Socrate, dall’osservare ch’i cittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan ad unire in un’idea conforme d’un’ugual utilitá partitamente comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelligibili, ovvero gli universali astratti, con l’induzione, ch’è una raccolta di uniformi particolari, che vanno a comporre un genere di ciò nello che quei particolari sono uniformi tra loro.
[1041] Platone, dal riflettere che ’n tali ragunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del propio utile, si conformavano in un’idea spassionata di comune utilitá (ch’è quello che dicono: «gli uomini partitamente sono portati da’ loro interessi privati, ma in comune voglion giustizia»), s’alzò a meditare l’idee intelligibili ottime delle menti criate, divise da esse menti criate, le qual’in altri non posson esser che in Dio, e s’innalzò a formare l’eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni.
[1042] Onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò diffinita la buona legge: che sia una «volontá scevera di passioni», quanto è dire volontá d’eroe; intese la giustizia regina, la qual siede nell’animo dell’eroe e comanda a tutte l’altre virtú. Perché aveva osservato la giustizia legale (la qual siede nell’animo della civil potestá sovrana) comandar alla prudenza nel senato, alla fortezza negli eserciti, alla temperanza nelle feste, alla giustizia particolare, cosí distributiva negli erari, come per lo piú commutativa nel fòro, e la commutativa la proporzione aritmetica e la distributiva usare la geometrica. E dovette avvertire questa dal censo, ch’è la pianta delle repubbliche popolari, il quale distribuisce gli onori e i pesi con la proporzione geometrica, secondo i patrimoni de’ cittadini. Perché innanzi non si era inteso altro che la sola aritmetica; onde Astrea, la giustizia eroica, ci fu dipinta con la bilancia, e nella legge delle XII Tavole tutte le pene — le quali ora i filosofi, i morali teologi e dottori che scrivono de iure publico dicono
doversi dispensare dalla giustizia distributiva con la proporzione geometrica — tutte si leggono richiamate a «duplio» quelle in danaio e [a] «talio» l’afflittive del corpo. E, poiché la pena del taglione fu ritruovata da Radamanto, per cotal merito egli ne fu fatto giudice nell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene. E ’l taglione da Aristotile ne’ Libri morali fu detto «giusto pittagorico», ritrovato da quel Pittagora che si è qui truovato fondatore di nazione, i cui nobili della Magna Grecia si dissero pittagorici, come sopra abbiamo osservato: che sarebbe vergogna di Pittagora il quale poi divenne sublime filosofo e mattematico.[1043] Dallo che tutto si conchiude che dalla piazza d’Atene uscirono tali princípi di metafisica, di logica, di morale. E dall’avviso di Solone dato agli ateniesi: «Nosce te ipsum» (conforme ragionammo sopra in uno de’ corollari della Logica poetica) uscirono le repubbliche popolari, dalle repubbliche popolari le leggi, e dalle leggi uscí la filosofia; e Solone, da sappiente di sapienza volgare, fu creduto sappiente di sapienza riposta. Che sarebbe una particella della storia della filosofia narrata filosoficamente, ed ultima ripruova delle tante che ’n questi libri si son fatte contro Polibio, il qual diceva che, se vi fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Ché se non vi fussero state religioni, e quindi repubbliche, non sarebber affatto al mondo filosofi, e che se le cose umane non avesse cosí condotto la provvedenza divina, non si avrebbe niuna idea né di scienza né di virtú.
[1044] Ora, ritornando al proposito e [per] conchiudere l’argomento che ragioniamo, da questi tempi umani, ne’ quali provennero le repubbliche popolari e appresso le monarchie, intesero che le cause, le quali prima erano state formole cautelate di propie e precise parole (che a «cavendo» si dissero dapprima «cavissae», e poi restaron dette in accorcio «caussae»), fussero essi affari o negozi negli altri contratti (i qual’affari o negozi oggi solennizzano i patti, i quali nell’atto del contrarre son convenuti acciocché producano l’azioni); ed in quelli che sono valevoli titoli a trasferir il dominio, solennizzassero la natural
tradizione per farlo d’un in altro passare, e ne’ contratti soli che si dicono compiersi con le parole (che sono le stipulazioni), in quelli esse cautele fussero le «cause» nella lor antica propietá. Le quali cose qui dette illustrano vieppiú i princípi sopra posti dell’obbligazioni che nascono da’ contratti e da’ patti.[1045] Insomma — non essendo altro l’uomo, propiamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo — il certo d’intorno al giusto cominciò ne’ tempi muti dal corpo; dipoi, ritruovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell’idee d’intorno al giusto, determinate con la ragione dell’ultime circostanze de’ fatti. Ch’è una formola informe d’ogni forma particolare, che ’l dottissimo Varrone chiamava «formulam naturae», ch’a guisa di luce, di sé informa in tutte le ultime minutissime parti della lor superficie i corpi opachi de’ fatti sopra i quali ella è diffusa, siccome negli Elementi si è tutto ciò divisato.
LIBRO QUINTO del ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni
[Introduzione]
[1046] Agl’innumerabili luoghi, che, per tutta quest’opera, d’intorno a innumerabili materie si sono finora sparsamente osservati corrispondersi con maravigliosa acconcezza i tempi barbari primi e i tempi barbari ritornati, si può facilmente intendere il ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni. Ma, per maggiormente confermarlo, ci piace in quest’ultimo libro dar a quest’argomento un luogo particolare, per ischiarire con maggior lume i tempi della barbarie seconda (i quali erano giaciuti piú oscuri di quelli della barbarie prima, che chiamava «oscuri», nella sua divisione de’ tempi, il dottissimo dell’antichitá prime Marco Terenzio Varrone), e per dimostrar altresí come l’Ottimo Grandissimo Iddio i consigli della sua provvedenza, con cui ha condotto le cose umane di tutte le nazioni, ha fatto servire agl’ineffabili decreti della sua grazia.
[Capitolo Primo]
[La storia barbara ultima schiarita col ricorso
della storia barbara prima]
[1047] Imperciocché, avendo per vie sovraumane schiarita e ferma la veritá della cristiana religione con la virtú de’ martiri incontro la potenza romana e con la dottrina de’ Padri e co’ miracoli incontro la vana sapienza greca, avendo poi a surgere nazioni armate, ch’avevano da combattere da ogni parte la vera divinitá del suo Autore, permise nascere nuovo ordine d’umanitá tralle nazioni, acciocché secondo il natural corso delle medesime cose umane ella fermamente fussesi stabilita.
[1048] Con tal eterno consiglio, rimenò i tempi veramente divini, ne’ quali gli re catolici dappertutto, per difendere la religion cristiana, della qual essi son protettori, vestirono le dalmatiche de’ diaconi e consagrarono le loro persone reali (onde serbano il titolo di «Sagra Real Maestá»), presero degnitadi ecclesiastiche, come di Ugone Ciapeto narra Sinforiano Camperio, nella Geanologia degli re di Francia, che s’intitolava «conte ed abate di Parigi», e ’l Paradino negli Annali della Borgogna osserva antichissime scritture nelle quali i principi di Francia comunemente «duchi ed abati» ovvero «conti ed abati» s’intitolavano. Cosí i primi re cristiani fondarono religioni armate, con le quali ristabilirono ne’ loro reami la cristiana catolica religione incontro ad ariani (de’ quali san Girolamo dice essere stato il mondo cristiano quasi tutto bruttato), contro saraceni ed altro gran numero d’infedeli.
[1049] Quivi ritornarono con veritá quelle che si dicevano «pura et pia bella» da’ popoli eroici; onde ora tutte le cristiane potenze con le loro corone sostengono sopra un orbe innalberata la croce, la qual avevano spiegata innanzi nelle bandiere, quando facevano le guerre che si dicevano «crociate».
[1050] Ed è maraviglioso il ricorso di tali cose umane civili de’ tempi barbari ritornati, che, come gli antichi araldi, nell’intimare le guerre, essi «evocabant deos» dalle cittá alle quali le intimavano, con l’elegantissima formola e piena di splendore qual ci si conservò da Macrobio, onde credevano che le genti vinte rimanessero senza dèi, e quindi senz’auspíci (ch’è ’l primo principio di tutto ciò ch’abbiamo in quest’opera ragionato) — ché, per lo diritto eroico delle vittorie, a’ vinti non rimaneva niuna di tutte le civili cosí pubbliche come private ragioni, le quali, come abbiamo sopra pienamente pruovato principalmente con la storia romana, tutte ne’ tempi eroici erano dipendenze degli auspíci divini; lo che tutto era contenuto nella formola delle rese eroiche, la quale Tarquinio Prisco praticò in quella di Collazia, che gli arresi «debebant divina et humana omnia» a’ popoli vincitori; — cosí i barbari ultimi, nel prendere delle cittá, non ad altro principalmente attendevano ch’a spiare, truovare e portar via dalle cittá prese famosi depositi o reliquie di santi. Ond’è che i popoli in que’ tempi erano diligentissimi in sotterrarle e nasconderle, e perciò tai luoghi dappertutto si osservano nelle chiese gli piú addentrati e profondi: ch’è la cagione per la quale in tali tempi avvennero quasi tutte le traslazioni de’ corpi santi. E n’è restato questo vestigio: che tutte le campane delle cittá prese i popoli vinti devono riscattare da’ generali capitani vittoriosi.
[1051] Di piú, perché fino dal Quattrocento, cominciando ad allagare l’Europa ed anco l’Affrica e l’Asia tante barbare nazioni, e i popoli vincitori non s’intendendo co’ vinti dalla barbarie de’ nimici della catolica religione, avvenne che di que’ tempi ferrei non si truova scrittura in lingua volgare propia di quelli tempi, o italiana o francese o spagnuola o anco tedesca (con la quale, come vuole l’Aventino, De annalibus boiorum, non s’incominciaron a scriver diplomi che da’ tempi di Federico di Suevia, anzi voglion altri da quelli dell’imperadore Ridolfo d’Austria, come altra volta si è detto), e tra tutte le nazioni anzidette non si truovano scritture che ’n latino barbaro, della qual lingua s’intendevano pochissimi nobili, ch’erano
ecclesiastici: onde resta da immaginare che ’n tutti que’ secoli infelici le nazioni fussero ritornate a parlare una lingua muta tra loro. Per la quale scarsezza di volgari lettere, dovette ritornar dappertutto la scrittura geroglifica dell’imprese gentilizie, le quali, per accertar i domíni (come sopra si è ragionata), significassero diritti signorili sopra, per lo piú, case, sepolcri, campi ed armenti.[1052] Ritornarono certe spezie di giudizi divini, che furon detti «purgazioni canoniche»; de’ quali giudizi una spezie abbiam sopra dimostro ne’ tempi barbari primi essere stati i duelli, i quali però non furono riconosciuti da’ sagri canoni.
[1053] Ritornarono i ladronecci eroici; de’ quali vedemmo sopra che, come gli eroi s’avevano recato ad onore d’esser chiamati «ladroni», cosí titolo di signoria fu quello poi di «corsali».
[1054] Ritornarono le ripresaglie eroiche, le quali sopra osservammo aver durato fin a’ tempi di Bartolo.
[1055] E, perché le guerre de’ tempi barbari ultimi furono, come quelle de’ primi, tutte di religione, quali testé abbiam veduto, ritornarono le schiavitú eroiche, che durarono molto tempo tra esse nazioni cristiane medesime. Perché, costumandosi in que’ tempi i duelli, i vincitori credevano che i vinti non avessero Dio (come sopra, ove ragionammo de’ duelli, si è detto), e sí gli tenevano niente meno che bestie. Il qual senso di nazioni si conserva tuttavia tra’ cristiani e turchi. La qual voce vuol dire «cani» (onde i cristiani, ove vogliono o debbon trattare co’ turchi con civiltá, gli chiamano «musulmani», che significa «veri credenti»); e i turchi, al contrario, i cristiani chiamano «porci». E quindi nelle guerre entrambi praticano le schiavitú eroiche, quantunque con maggior mansuetudine i cristiani.
[1056] Ma sopra tutto maraviglioso è ’l ricorso che ’n questa parte fecero le cose umane, che ’n tali tempi divini ricominciarono i primi asili del mondo antico, dentro i quali udimmo da Livio essersi fondate tutte le prime cittá. Perché — scorrendo dappertutto le violenze, le rapine, l’uccisioni, per la somma ferocia e fierezza di que’ secoli barbarissimi; né (come si è detto
nelle Degnitá) essendovi altro mezzo efficace di ritener in freno gli uomini, prosciolti da tutte le leggi umane, che le divine, dettate dalla religione — naturalmente, per timore d’esser oppressi e spenti gli uomini, come in tanta barbarie piú mansueti, essi si portavano da’ vescovi e dagli abati di que’ secoli violenti, e ponevano sé, le loro famiglie e i loro patrimoni sotto la protezione di quelli, e da quelli vi erano ricevuti; le quali suggezioni e protezione sono i principali costitutivi de’ feudi. Ond’è che nella Germania, che dovett’essere piú fiera e feroce di tutte l’altre nazioni d’Europa, restarono quasi piú sovrani ecclesiastici (o vescovi o abati) che secolari, e, come si è detto, nella Francia quanti sovrani principi erano, tanti s’intitolavano conti o duchi ed abati. Quindi nell’Europa in uno sformato numero tante cittá, terre e castella s’osservano con nomi di santi; perché in luoghi o erti o riposti, per udire la messa e fare gli altri ufizi di pietá comandati dalla nostra religione, si aprivano picciole chiesiccuole, le quali si possono diffinire essere state in que’ tempi i naturali asili de’ cristiani, i quali ivi da presso fabbricavano i lor abituri: onde dappertutto le piú antiche cose, che si osservano di questa barbarie seconda, sono picciole chiese in sí fatti luoghi, per lo piú dirute. Di tutto ciò un illustre esempio nostrale sia l’abadia di San Lorenzo d’Aversa, a cui s’incorporò l’abadia di San Lorenzo di Capova. Ella, nella Campania, Sannio, Puglia e nell’antica Calabria, dal fiume Volturno fin al Mar Picciolo di Taranto, governò cento e dieci chiese, o per se stessa o per abati o monaci a lei soggetti; e quasi di tutti i luoghi anzidetti gli abati di San Lorenzo eran essi baroni.[Capitolo Secondo]
Ricorso che fanno le nazioni sopra la natura eterna de’ feudi e quindi il ricorso del diritto romano antico fatto col diritto feudale.
[1057] A questi succedettero certi tempi eroici, per una certa distinzione ritornata di nature quasi diverse, eroica ed umana; da che esce la cagione di quell’effetto, di che si maraviglia Ottomano, ch’i vassalli rustici in lingua feudale si dicon «homines». Dalla qual voce deve venir l’origine di quelle due voci feudali «hominium» ed «homagium», che significano lo stesso; detto «hominium» quasi «hominis dominium», che Elmodio, all’osservar di Cuiacio, vuole che sia piú elegante che «homagium», detto quasi «hominis agium», menamento dell’uomo o vassallo dove voglia il barone. La qual voce barbara i feudisti eruditi, per lo vicendevole rapporto, con tutta latina eleganza, voltano «obsequium», che dapprima fu una prontezza di seguir l’uomo, ovunque il menasse, a coltivar i suoi terreni, l’eroe. La qual voce «obsequium» contiene eminentemente la fedeltá che si deve dal vassallo al barone: tanto che l’«ossequio» de’ latini significa unitamente e l’omaggio e la fedeltá che si debbono giurare nell’investiture de’ feudi; e l’ossequio appresso i romani antichi non si scompagnava da quella ch’a’ medesimi restò detta «opera militaris», e da’ nostri feudisti si dice «militare servitium», per la quale i plebei romani lunga etá a loro propie spese serviron a’ nobili nelle guerre, come ce n’ha accertato, sopra, essa storia romana. Il qual ossequio con l’opere restò finalmente a’ liberti ovvero affranchiti inverso i loro patroni, il quale aveva incominciato, come sopra osservammo sulla storia romana, da’ tempi che Romolo fondò Roma sopra le clientele, che truovammo protezioni di contadini giornalieri da esso ricevuti al suo asilo, le quali
«clientele», come indicammo nelle Degnitá, non si possono sulla storia antica spiegare con piú propietá che per «feudi», siccome i feudisti eruditi con sí fatta elegante voce latina «clientela» voltano questa barbara «feudum».[1058] E di tali princípi di cose apertamente ci convincono l’origini di esse voci «opera» e «servitium». Perché «opera», nella sua significazione natia, è la fatiga d’un giorno d’un contadino, detto quindi da’ latini «operarius», che gl’italiani dicono «giornaliere»: qual operaio o giornaliere, che non aveva niun privilegio di cittadino, si duol essere stato Achille trattato da Agamennone, che gli aveva a torto tolta la sua Briseide. Quindi appo i medesimi latini restarono detti «greges operarum», siccome anco «greges servorum», perché tali operai prima, siccome gli schiavi dopo, erano dagli eroi riputati quali le bestie, che si dicono «pasci gregatim». [E dovettero prima essere tai greggi d’uomini, dipoi le greggi de’ bestiami;] e, con lo stesso vicendevol rapporto, dovettero prima essere i pastori di sí fatti uomini (come con tal aggiunto perpetuo di «pastori de’ popoli» sempre Omero appella gli eroi), e dopo essere stati i pastori degli armenti e de’ greggi. E cel conferma la voce νόμος, ch’a’ greci significa e «legge» e «pasco», come si è sopra osservato; perché con la prima legge agraria fu accordato a’ famoli sollevati il sostentamento in terreni assegnati lor dagli eroi, il quale fu detto «pasco», propio di tali bestie, come il cibo è propio degli uomini.
[1059] Tal propietá di pascere tali primi greggi del mondo dev’essere stata d’Apollo, che truovammo dio della luce civile, o sia della nobiltá, ove dalla storia favolosa ci è narrato pastore in Anfriso; come fu pastore Paride, il quale certamente era reale di Troia. E tal è ’l padre di famiglia (che Omero appella «re»), il quale con lo scettro comanda il bue arrosto dividersi a’ mietitori, descritto nello scudo d’Achille, dove sopra abbiamo fatto vedere la storia del mondo, e quivi esser fissa l’epoca delle famiglie. Perché de’ nostri pastori non è propio il pascere, ma il guidar e guardare gli armenti e i greggi, non avendosi potuto la pastoreccia introdurre che dopo alquanto assicurati
i confini delle prime cittá, per gli ladronecci che si celebravano a’ tempi eroici. Che dev’essere la cagione perché la bucolica o pastoral poesia venne a’ tempi umanissimi egualmente tra’ greci con Teocrito, tra’ latini con Virgilio e tra gl’italiani con Sannazaro.[1060] La voce «servitium» appruova queste cose istesse essere ricorse ne’ tempi barbari ultimi: per lo cui contrario rapporto il barone si disse «senior», nel senso nel qual s’intende «signore». Talché questi servi nati in casa dovetter esser gli antichi franchi de’ quali si maraviglia il Bodino, e generalmente ritruovati, sopra, gli stessi che «vernae», li quali si chiamarono dagli antichi romani; da’ quali «vernaculae» si dissero le lingue volgari, introdutte dal volgo de’ popoli, che noi sopra truovammo essere state le plebi dell’eroiche cittá, siccome la lingua poetica era stata introdutta dagli eroi, ovvero nobili delle prime repubbliche.
[1061] Tal ossequio d’affranchiti — essendosi poi sparsa e quindi dispersa la potenza de’ baroni tra’ popoli nelle guerre civili, nelle qual’i potenti han da dipender da’ popoli, e quindi facilmente riunita essendosi nelle persone de’ re monarchi — passò in quello che si dice «obsequium principis», nel qual, all’avviso di Tacito, consiste tutto il dovere de’ soggetti alle monarchie. Al contrario, per la differenza creduta delle due nature, un’eroica, altra umana, i signori de’ feudi furon detti «baroni», nello stesso senso che noi qui sopra truovammo essere stati detti «eroi» da’ poeti greci e «viri» dagli antichi latini; lo che restò agli spagnuoli, da’ quali l’«uomo» è detto «baron», appresi tai vassalli, perché deboli, nel sentimento eroico, che sopra dimostrammo, di «femmine».
[1062] Ed oltre a ciò che testé abbiam ragionato, i baroni furon detti «signori», che non può altronde venire che dal latino «seniores», perché d’essi si dovettero comporre i primi pubblici parlamenti de’ nuovi reami d’Europa; appunto come Romolo il Consiglio pubblico, che naturalmente aveva dovuto comporre de’ piú vecchi della nobiltá, aveva detto «senatum». E, come da quelli, che perciò erano e si dicevano «patres»,
dovettero venire detti «patroni» coloro che dánno agli schiavi la libertá; cosí, in italiano, da questi dovettero venir chiamati «padroni» in significazione di «protettori», i quali «padroni» ritengono nella loro voce tutta la propietá ed eleganza latina. A’quali, per lo contrario, con altrettanta latina eleganza e propietá risponde la voce «clientes», in sentimento di «vassalli rustici», a’ quali Servio Tullio, con ordinar il censo, qual è stato sopra spiegato, permise sí fatti feudi, col piú corto passo col quale poté procedere sulle clientele di Romolo, come si è sopra pienamente pruovato. Che son appunto gli affranchiti, i quali poi diedero il nome alla nazione de’ franchi, come si è detto, nel libro precedente, al Bodino.[1063] In cotal guisa ritornarono i feudi, uscendo dalla lor eterna sorgiva additata nelle Degnitá, dove indicammo i benefizi che si possono sperare in civil natura; onde i feudi, con tutta propietá ed eleganza latina, da’ feudisti eruditi si dicono «beneficia». Ch’è quello ch’osserva, ma senza farne uso, Ottomano: che i vincitori tenevano per sé i campi colti delle conquiste e davano a’ poveri vinti i campi incolti per sostentarvisi. E sí ritornarono i feudi del primo mondo che nel secondo libro si son truovati, rincominciando però (come dovett’essere per natura, quale sopra abbiam ragionato) da feudi rustici personali, che truovammo essere state dapprima le clientele di Romolo, delle quali osservammo nelle Degnitá essere stato sparso tutto l’antico mondo de’ popoli. Le quali clientele eroiche, nello splendore della romana libertá popolare, passarono in quel costume col qual i plebei con le toghe si portavano la mattina a far la corte a’ grandi signori, e davano loro il titolo degli antichi eroi: «Ave, rex», gli menavano nel fòro e gli rimenavano la sera in casa; e i signori (conforme gli antichi eroi furon detti «pastori de’ popoli») davano loro la cena.
[1064] Tai vassalli personali devon essere stati appo gli antichi romani i primi «vades», che poi restarono cosí detti i rei obbligati nella persona di seguir i lor attori in giudizio: la qual obbligazione dicesi «vadimonium». I quali vades, per le nostre Origini della lingua latina, debbon esser derivati dal retto
«vas», che da’ greci fu detto βᾶς e da’ barbari «was», onde fu poi «wassus» e finalmente «vassallus». Della quale spezie di vassalli abbondano oggi tuttavia i regni del piú freddo Settentrione, che ritengono ancor troppo della barbarie, e sopra tutti quel di Polonia, ove si dicono «kmetos», e son una spezie di schiavi, de’ quali que’ palatini sogliono giuocarsi l’intiere famiglie, le quali debbono passare a servir ad altri nuovi padroni; che debbon essere gl’incatenati per gli orecchi, che, con catene d’oro poetico (cioè del frumento) che gli escono di bocca, gli si mena, dove vuol, dietro l’Ercole gallico.[1065] Quindi si passò a’ feudi rustici di spezie reali, a’ quali [si giunse] con la prima legge agraria delle nazioni, che truovammo essere stata tra’ romani quella con la quale Servio Tullio ordinò il primo censo, per lo quale permise, come ritruovammo, a’ plebei il dominio bonitario de’ campi loro assegnati da’ nobili sotto certi non, come innanzi, sol personali ma anco reali pesi; che dovetter esser i primi «mancipes», che poi restaron detti coloro i quali in robe stabili son obbligati all’erario. Della qual spezie debbon essere stati i vinti, a’ quali Ottomano disse poc’anzi ch’i vincitori davano i campi incolti delle conquiste per sostentarvisi col coltivargli; e sí ritornarono gli Antei annodati alle terre da Ercole greco e i nessi del dio Fidio, ovvero Ercole romano (qual sopra truovammo), sciolti finalmente dalla legge petelia.
[1066] Tali nessi della legge petelia, per le cose le quali sopra ne ragionammo, con tutta loro propietá cadon a livello per ispiegar i vassalli, che dapprima si dovettero dire «ligi», [perché] da cotal nodo legati; i quali ora da’ feudisti son diffiniti coloro i quali debbono riconoscere per amici o nimici tutti gli amici o nimici del lor signore: ch’è appunto il giuramento ch’i vassalli germani antichi, appo Tacito, come altra volta l’udimmo, davano a’ loro principi di servire alla loro gloria. Tali vassalli ligi, poscia, isplendidendosi tali feudi fin a sovrani civili, furono gli re vinti, a’ quali il popolo romano, con la formola solenne con cui la storia romana il racconta, «regna dono dabat», ch’era tanto dire quanto «beneficio dabat»; e ne divenivano
alleati del popolo romano, di quella spezie d’alleanza che i latini dicevano «foedus inaequale», e se n’appellavano «re amici del popolo romano», nel sentimento che dagl’imperadori si dicevano «amici» i loro nobili cortegiani. La qual alleanza ineguale non era altro ch’un’investitura di feudo sovrano, la quale si concepiva con quella formola che ci lasciò stesa Livio: che tal re alleato «servaret maiestatem populi romani»; appunto come Paolo giureconsulto dice che ’l pretore rende ragione «servata maiestate populi romani», cioè che rende ragione a chi le leggi la dánno, la niega a chi le leggi la niegano. Talché tali re alleati erano signori di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranitá: di che ritornò un senso comune all’Europa, che per lo piú non vi hanno il titolo di «Maestá» che grandi re, signori di grandi regni e di numerose provincie.[1067] Con tali feudi rustici, da’ qual’incominciarono queste cose, ritornarono l’enfiteusi, con le quali era stata coltivata la gran selva antica della terra; onde il laudemio restò a significar egualmente ciò che paga il vassallo al signore e l’enfiteuticario al padrone diretto.
[1068] Ritornarono l’antiche clientele romane, che furono dette «commende», le quali poco piú sopra abbiamo fatto vedere; onde i vassalli, con latina eleganza e propietá, da’ feudisti eruditi ne sono detti «clientes», ed essi feudi si dicono «clientelae».
[1069] Ritornarono i censi, delle spezie del censo ordinato da Servio Tullio, per lo quale i plebei romani dovettero lungo tempo servir a’ nobili nelle guerre a lor propie spese; talché i vassalli detti ora «angarii» e «perangarii» furono gli antichi assidui romani, che, come truovammo sopra, «suis assibus militabant»; e i nobili fino alla legge petelia, che sciolse alla plebe romana il diritto feudale del nodo, ebbero la ragione del carcere privato sopra i plebei debitori.
[1070] Ritornarono le precarie, che dovettero dapprima essere di terreni dati da’ signori alle preghiere de’ poveri per potervisi sostentare col coltivargli; ché tali sono le possessioni appunto, le quali non mai conobbe la legge delle XII Tavole, come sopra si è dimostrato.
[1071] E perché la barbarie con le violenze rompe la fede de’ commerzi, né lascia altro curar a’ popoli ch’appena le cose le quali alla natural vita fanno bisogno, e perché tutte le rendite dovetter esser in frutti che si dicono «naturali», perciò a’ medesimi tempi vennero anco i livelli come permutazioni di beni stabili. De’ quali si dovett’intender l’utilitá, com’altra volta si è detto, ch’altri abbondasse di campi che dassero una spezie di frutti de’ quali altri avesse scarsezza, e cosí a vicenda, e perciò gli scambiassero tra di loro.
[1072] Ritornarono le mancipazioni, con le quali il vassallo poneva le mani entro le mani del suo signore, per significare fede e suggezione; onde i vassalli rustici, per lo censo di Servio Tullio, poco sopra abbiam detto essere stati i primi «mancipes» de’ romani. E, con la mancipazione, ritornò la divisione delle cose mancipi e nec mancipi, perché i corpi feudali sono nec mancipi, ovvero innalienabili dal vassallo, e sono mancipi del signore; appunto come i fondi delle romane provincie furono nec mancipi de’ provinciali e mancipi de’ romani. Nell’atto delle mancipazioni, ritornarono le stipulazioni, con le infestucazioni o investiture, che noi sopra dimostrammo essere state l’istesse. Con le stipulazioni, ritornarono quelle che dall’antica giurisprudenza romana osservammo sopra propiamente essere state dapprima dette «cavissae», che poi in accorcio restarono dette «caussae», che da’ tempi barbari secondi della stessa latina origine furon dette «cautele»; e ’l solennizzare con quelle i patti e i contratti si disse «homologare», da quelli «uomini» da’ quali qui sopra vedemmo detti «hominium» ed «homagium»: perocché tutti i contratti di quelli tempi dovetter esser feudali. Cosí, con le cautele, ritornarono i patti cautelati nell’atto della mancipazione, che «stipulati» si dissero da’ giureconsulti romani, che sopra truovammo detti da «stipula» che veste il grano; e sí nello stesso senso ch’i dottori barbari, da esse investiture, dette anco «infestucazioni», dissero «patti vestiti». E i patti non cautelati, con la stessa significazione e voce, da entrambi si dissero «patti nudi».
[1073] Ritornarono le due spezie di dominio diretto ed utile, ch’a
livello rispondono al quiritario e bonitario degli antichi romani. E nacque il dominio diretto come tra’ romani era nato prima il dominio quiritario, che noi truovammo nel suo incominciamento essere stato dominio de’ terreni dati a’ plebei da’ nobili; dalla possessione de’ quali se questi fussero caduti, dovevano sperimentare la revindicazione con la formola «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», in tal senso (come abbiamo sopra dimostro) ch’essa revindicazione non altro fusse ch’una laudazione di tutto l’ordine de’ nobili (che nell’aristocrazia romana aveva fatto essa cittá) in autori, da’ quali essi plebei avevano la cagione del dominio civile, per lo quale potevano vindicar essi fondi. Il qual dominio dalla legge delle XII Tavole fu sempre appellato «autoritas», dall’autoritá di dominio ch’aveva esso senato regnante sul largo fondo romano, nel quale il popolo poi, con la libertá popolare, ebbe il sovrano imperio, come sopra si è ragionato.[1074] Della qual «autoritá» della barbarie seconda, alla quale, come ad innumerabili altre cose, noi in quest’opera facciam luce con le antichitá della prima (tanto ci sono riusciti piú oscuri de’ tempi della barbarie prima questi della seconda!), sono rimasti tre assai evidenti vestigi in queste tre voci feudali. Prima nella voce «diretto», la qual conferma che tal azione dapprima era autorizzata dal diretto padrone. Dipoi nella voce «laudemio», che fu detto pagarsi eziandio per lo feudo che si fusse dovuto per cotal laudazione in autore che noi diciamo. Finalmente nella voce «laudo», che dovette dapprima significare sentenza di giudice in tali spezie di cause, che poi restò a’ giudizi che si dicono «compromessi»; perché tali giudizi sembravano terminarsi amichevolmente a petto de’ giudizi che si agitavano d’intorno agli allodi (che Budeo oppina essere stati cosí detti quasi «allaudi», come appo gl’italiani da «laude» si è fatto «lode»), per gli quali prima i signori in duello la si avevan dovuto veder con l’armi, come sopra si è dimostrato. Il qual costume ha durato infino alla mia etá nel nostro Reame di Napoli, dove i baroni, non coi giudizi civili, ma co’ duelli vendicavano gli attentati fatti da altri baroni dentro i
territori de’ loro feudi. E come il dominio quiritario degli antichi romani, cosí il diretto degli antichi barbari restarono finalmente a significare il dominio che produce azione civile reale.[1075] E qui si dá un assai luminoso luogo di contemplare nel ricorso che fanno le nazioni anco il ricorso che fece la sorte de’ giureconsolti romani ultimi con quella de’ dottori barbari ultimi; ché, siccome quelli avevano giá a’ tempi loro perduto di vista il diritto romano antico, com’abbiamo a mille pruove sopra fatto vedere, cosí questi negli ultimi loro tempi perderono di veduta l’antico diritto feudale. Perciò gl’interpetri eruditi della romana ragione risolutamente niegano queste due spezie barbare di dominio essere state conosciute dal diritto romano, attendendo al diverso suono delle parole, nulla intendendo essa identitá delle cose.
[1076] Ritornarono i beni ex iure optimo, qual’i feudisti eruditi diffiniscono i beni allodiali, liberi d’ogni peso pubblico nonché privato, e ’l confrontano con quelle poche case che Cicerone osserva ex iure optimo a’ suoi tempi essere restate in Roma. Però, come di tal sorta di beni si perdé la notizia entro le leggi romane ultime, cosí di tali allodi non si truova a’ nostri tempi pur uno affatto. E, come i predi ex iure optimo de’ romani innanzi, cosí dopoi gli allodi ritornarono ad essere beni stabili liberi d’ogni peso reale privato, ma soggetti a’ pesi reali pubblici; perché ritornò la guisa con la quale dal censo ordinato da Servio Tullio si formò il censo che fu il fondo dell’erario romano: la qual guisa sopra si è ritruovata. Talché gli allodi e i feudi, ch’empiono la somma divisione delle cose in diritto feudale, si distinguettero tra loro dapprima: ch’i beni feudali portavano di séguito la laudazione del signore, gli allodi non giá. Dove, senza questi princípi, si debbono perdere tutt’i feudisti eruditi, come gli allodi, ch’essi, con Cicerone, voltano in latino «bona ex iure optimo», ci vennero detti «beni del fuso», i quali, nel propio loro significato, come sopra si è detto, erano beni di un diritto fortissimo, non infievolito da niuno peso straniero, anche pubblico; che, come pure sopra abbiam detto, furono i beni de’ padri nello stato
delle famiglie, e durarono molto tempo in quello delle prime cittá, i quali beni essi avevano acquistato con le fatighe d’Ercole. La qual difficultá, per questi stessi princípi, facilmente si scioglie con quel medesimo Ercole il quale poi filava, divenuto servo di Iole e d’Onfale: cioè che gli eroi s’effeminarono e cedettero le loro ragioni eroiche a’ plebei, ch’essi avevano tenuti per femmine (a petto de’ quali essi si tenevano e si chiamavano «viri», come si è sopra spiegato), e soffersero assoggettirsi i loro beni all’erario col censo, il quale prima fu pianta delle repubbliche popolari e poi si truovò acconcio a starvi sopra le monarchie.[1077] Cosí, per tal diritto feudale antico, che ne’ tempi appresso si era perduto di vista, ritornarono i fondi ex iure quiritium, che spiegammo «diritto de’ romani in pubblica ragunanza, armati di lancie», che dicevano «quires»; de’ quali si concepí la formola della revindicazione: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», ch’era, come si è detto, una laudazione in autore della cittá eroica romana; — come dalla barbarie seconda certamente i feudi si dissero «beni della lancia», i quali portavano la laudazione de’ signori in autori, a differenza degli allodi ultimi, detti «beni del fuso» (col quale Ercole, invilito, fila, fatto servo di femmine): onde sopra diemmo l’origine eroica al motto dell’arme reale di Francia, iscritto «Lilia non nent», ché ’n quel regno non succedon le donne. Perché ritornarono le successioni gentilizie della legge delle XII Tavole, che truovammo essere «ius gentium romanorum», quale da Baldo udimmo la legge salica dirsi «ius gentium Gallorum»; la qual fu celebrata certamente per la Germania, e cosí dovette osservarsi per tutte l’altre prime barbare nazioni d’Europa, ma poi si ristrinse nella Francia e nella Savoia.
[1078] Ritornarono finalmente le corti armate, quali sopra truovammo essere state le ragunanze eroiche che si tenevano sotto l’armi, dette di cureti greci e di quiriti romani; e i primi parlamenti de’ reami d’Europa dovetter essere di «baroni», come quel di Francia certamente lo fu di pari. Del quale la storia francese apertamente ci narra essere stati capi sul principio
essi re, i quali in qualitá di commessari criavano i pari della curia, i quali giudicasser le cause; onde poi restaron detti i «duchi e pari» di Francia. Appunto come il primo giudizio, che Ciceron dice essersi agitato della vita d’un cittadino romano, fu quello in cui il re Tullo Ostilio criò i duumviri in qualitá di commessari, i quali, per dirla con essa formola che Tito Livio n’arreca, «in Horatium perduellionem dicerent», il qual aveva ucciso la sua sorella.[1079] Perché, nella severitá di tai tempi eroici, ogn’ammazzamento di cittadino (quando le cittá si componevano di soli eroi, come sopra pienamente si è dimostrato) era riputato un’ostilitá fatta contro la patria, ch’è appunto «perduellio»; ed ogni tal ammazzamento era detto «parricidium», perch’era fatto d’un padre, o sia d’un nobile, siccome sopra vedemmo in tali tempi Roma dividersi in padri e plebe. Perciò da Romolo infin a Tullo Ostilio non vi fu accusa d’alcun nobile ucciso, perché i nobili dovevan esser attenti a non commettere tali offese, praticandosi tra loro i duelli, de’ quali sopra si è ragionato; e, perché, nel caso di Orazio, non v’era chi con duello avesse vindicato privatamente l’ammazzamento d’Orazia, perciò da Tullo Ostilio ne fu la prima volta ordinato un giudizio. Altronde, gli ammazzamenti de’ plebei o eran fatti da’ loro padroni medesimi, e niuno li poteva accusare, o erano fatti da altri, e, come di servi altrui, si rifaceva al padrone il danno, come ancor si costuma nella Polonia, Littuania, Svezia, Danimarca, Norvegia. Ma gl’interpetri eruditi della romana ragione non videro questa difficultá, perché riposarono sulla vana oppenione dell’innocenza del secol d’oro, siccome i politici, per la stessa cagione, riposarono su quel detto d’Aristotile: che nell’antiche repubbliche non erano leggi d’intorno a’ privati torti ed offese; onde Tacito, Sallustio ed altri per altro acutissimi autori, ove narrano dell’origine delle repubbliche e delle leggi, raccontano, del primo stato innanzi delle cittá, che gli uomini da principio menarono una vita come tanti Adami nello stato dell’innocenza. Ma, poi che entrarono nella cittá quelli «homines» de’ quali si maraviglia Ottomano e da’ quali viene
il diritto naturale delle genti che Ulpiano dice «humanarum», indi in poi l’ammazzamento d’ogni uomo fu detto «homicidium».[1080] Or in sí fatti parlamenti dovettero discettarsi cause feudali d’intorno o diritti o successioni o devoluzioni de’ feudi per cagione di fellonia o di caducazione; le quali cause, confermate piú volte con tali giudicature, fecero le consuetudini feudali, le quali sono le piú antiche di tutte l’altre d’Europa, che ci attestano il diritto natural delle genti esser nato con tali umani costumi de’ feudi, come sopra si è pienamente pruovato.
[1081] Finalmente, come dalla sentenza, con la qual era stato condennato Orazio, permise il re Tullo al reo l’appellagione al popolo, ch’allor era di soli nobili, come sopra si è dimostrato, perché da un senato regnante non vi è altro rimedio a’ rei che ’l ricorso al senato medesimo; cosí e non altrimente dovettero praticar i nobili de’ tempi barbari ritornati di richiamarsi ad essi re ne’ di lor parlamenti, come per esemplo agli re di Francia, che dapprima ne furon capi.
[1082] De’ quali parlamenti eroici serba un gran vestigio il Sagro Consiglio napoletano, al cui presidente si dá titolo di «Sagra Regal Maestá», i consiglieri s’appellano «milites» e vi tengono luogo di commessari (perché ne’ tempi barbari secondi i soli nobili eran soldati, e i plebei servivano lor nelle guerre, come de’ tempi barbari primi l’osservammo in Omero e nella storia romana antica), e dalle di lui sentenze non v’è appellagione ad altro giudice, ma solamente il richiamo al medesimo tribunale.
[1083] Dalle quali cose tutte sopra qui noverate hassi a conchiudere che furono dappertutto reami, non diciamo di Stato, ma di governo aristocratici; come ancora nel freddo Settentrione or è la Polonia (come, da cencinquant’anni fa, lo erano la Suezia e la Danimarca), che, col tempo, senonsé le impediscano il natural corso straordinarie cagioni, verrá a perfettissima monarchia.
[1084] Lo che è tanto vero ch’esso Bodino giugne a dire del suo regno di Francia che fu, non giá di governo (come diciam noi), ma di Stato aristocratico duranti le due linee merovinga
e carlovinga. Ora qui domandiamo il Bodino: — Come il regno di Francia diventò, qual ora è, perfettamente monarchico? Forse per una qualche legge regia, con la quale i paladini di Francia si spogliarono della loro potenza e la conferirono negli re della linea capetinga? — Se egli ricorre alla favola della legge regia finta da Triboniano, con la quale il popolo romano si spogliò del suo sovrano libero imperio e ’l conferí in Ottavio Augusto, per ravvisarla una favola, basta leggere le prime pagine degli Annali di Tacito, nelle quali narra l’ultime cose d’Augusto, con le quali legittima nella di lui persona aver incominciato la monarchia de’ romani, la qual sentirono tutte le nazioni aver incominciato da Augusto. — Forse perché la Francia da alcuno de’ capetingi fu conquistata con forza d’armi? — Ma di tal infelicitá la tengono lontana tutte le storie. Adunque e Bodino, e con lui tutti gli altri politici e tutti i giureconsulti c’hanno scritto de iure publico, devono riconoscere questa eterna natural legge regia, per la quale la potenza libera d’uno Stato, perché libera, deve attuarsi: talché, di quanto ne rallentano gli ottimati, di tanto vi debbano invigorire i popoli, finché vi divengano liberi; di quanto ne rallentano i popoli liberi, di tanto vi debbano invigorire gli re, fintanto che vi divengan monarchi. Per lo che, come quel de’ filosofi (o sia de’ morali teologi) è della ragione, cosí questo delle genti è diritto naturale dell’utilitá e della forza; il quale, com’i giureconsulti dicono, «usu exigente humanisque necessitatibus expostulantibus», dalle nazioni vien celebrato.[1085] Da tante sí belle e sí eleganti espressioni della giurisprudenza romana antica, con le quali i feudisti eruditi mitigano di fatto e possono mitigare vieppiú la barbarie della dottrina feudale (sulle quali si è qui dimostrato convenirvi l’idee con somma propietá), intenda Oldendorpio (e tutti gli altri con lui) se ’l diritto feudale è nato dalle scintille dell’incendio dato da’ barbari al diritto romano; ché ’l diritto romano è nato dalle scintille de’ feudi, celebrati dalla prima barbarie del Lazio, sopra i quali nacquero tutte le repubbliche al mondo. Lo che, siccome in un particolar ragionamento sopra (ove ragionammo
della Politica poetica delle prime) si è dimostrato, cosí in questo libro (conforme nell’Idea dell’opera avevamo promesso di dimostrare) si è veduto dentro la natura eterna de’ feudi ritruovarsi l’origini de’ nuovi reami d’Europa.[1086] Ma finalmente, con gli studi aperti nell’universitá d’Italia, insegnandosi le leggi romane comprese ne’ libri di Giustiniano, le quali vi stanno concepute sul diritto naturale delle genti umane, le menti, giá piú spiegate e fattesi piú intelligenti, si diedero a coltivare la giurisprudenza della natural equitá, la qual adegua gl’ignobili co’ nobili in civile ragione, come lo son eguali in natura umana. E appunto come, da che Tiberio Coruncanio cominciò in Roma ad insegnare pubblicamente le leggi, n’incominciò ad uscire l’arcano di mano a’ nobili, e a poco a poco se n’infievolí la potenza; cosí avvenne a’ nobili de’ reami d’Europa, che si erano regolati con governi aristocratici, e si venne alle repubbliche libere e alle perfettissime monarchie.
[1087] Le quali forme di Stati, perché entrambe portano governi umani, comportevolmente si scambiano l’una con l’altra; ma richiamarsi a Stati aristocratici egli è quasi impossibile in natura civile. Tanto che Dione siragosano, quantunque della real casa, ed aveva cacciato un mostro de’ principi, qual fu Dionigio tiranno, da Siragosa, ed era tanto adorno di belle civili virtú che ’l resero degno dell’amicizia del divino Platone, perché tentò riordinarvi lo stato aristocratico, funne barbaramente ucciso; e i pittagorici (cioè, come sopra abbiamo spiegato, i nobili della Magna Grecia), per lo stesso attentato, furono tutti tagliati a pezzi, e pochi, che s’erano in luoghi forti salvati, furono dalla moltitudine bruciati vivi. Perché gli uomini plebei, una volta che si riconoscono essere d’ugual natura co’ nobili, naturalmente non sopportano di non esser loro uguagliati in civil ragione; lo che consieguono o nelle repubbliche libere o sotto le monarchie. Laonde, nella presente umanitá delle nazioni, le repubbliche aristocratiche, le quali ci sono rimaste pochissime, con mille solecite cure e accorti e saggi provvedimenti, vi tengon, insiem insieme, e in dovere e contenta la moltitudine.
[Capitolo Terzo]
Descrizione del mondo antico e moderno delle nazioni osservata conforme al disegno de’ princípi di questa scienza.
[1088] Questo corso di cose umane civili non fecero Cartagine, Capova, Numanzia, dalle quali tre cittá Roma temé l’imperio del mondo: perché i cartaginesi furono prevenuti dalla natia acutezza affricana, che piú aguzzarono coi commerzi marittimi; i capovani furono prevenuti dalla mollezza del cielo e dall’abbondanza della Campagna felice; e finalmente i numantini, perché sul loro primo fiorire dell’eroismo furono oppressi dalla romana potenza, comandata da uno Scipione Affricano, vincitor di Cartagine ed assistito dalle forze del mondo. Ma i romani, da niuna di queste cose mai prevenuti, camminarono con giusti passi, faccendosi regolar dalla provvedenza per mezzo della sapienza volgare, e per tutte e tre le forme degli Stati civili, secondo il lor ordine naturale, ch’a tante pruove in questi libri si è dimostrato, durarono sopra di ciascheduna finché naturalmente alle forme prime succedessero le seconde; e custodirono l’aristocrazia fin alle leggi publilia e petelia, custodirono la libertá popolare fin a’ tempi d’Augusto, custodirono la monarchia finché all’interne ed esterne cagioni che distruggono tal forma di Stati poterono umanamente resistere.
[1089] Oggi una compiuta umanitá sembra essere sparsa per tutte le nazioni, poiché pochi grandi monarchi reggono questo mondo di popoli; e, se ve n’hanno ancor barbari, egli n’è cagione perché le loro monarchie hanno durato sopra la sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere, col congiugnervisi in alcune la natura men giusta delle nazioni loro soggette.
[1090] E, faccendoci capo dal freddo Settentrione, lo czar di Moscovia, quantunque cristiano, signoreggia ad uomini di menti
pigre. Lo cnez o cam di Tartaria domina a gente molle, quanto lo furono gli antichi seri, che facevano il maggior corpo del di lui grand’imperio, ch’or egli ha unito a quel della China. Il negus d’Etiopia e i potenti re di Efeza e Marocco regnano sopra popoli troppo deboli e parchi.[1091] Ma in mezzo alla zona temperata, dove nascon uomini d’aggiustate nature, incominciando dal piú lontano Oriente, l’imperador del Giappone vi celebra un’umanitá somigliante alla romana ne’ tempi delle guerre cartaginesi, di cui imita la ferocia nell’armi, e, come osservano dotti viaggiatori, ha nella lingua un’aria simile alla latina; ma, per una religione fantasticata assai terribile e fiera di dèi orribili, tutti carichi d’armi infeste, ritiene molto della natura eroica. Perché i padri missionari, che sonvi andati, riferiscono che la maggior difficultá, ch’essi hanno incontrato per convertire quelle genti alla cristiana religione, è ch’i nobili non si possono persuadere ch’i plebei abbiano la stessa natura umana ch’essi hanno. Quel de’ chinesi, perché regna per una religion mansueta e coltiva lettere, egli è umanissimo. L’altro dell’Indie è umano anzi che no, e si esercita nell’arti per lo piú della pace. Il persiano e ’l turco hanno mescolato alla mollezza dell’Asia, da essi signoreggiata, la rozza dottrina della loro religione; e cosí, particolarmente i turchi, temperano l’orgoglio con la magnificenza, col fasto, con la liberalitá e con la gratitudine.
[1092] Ma in Europa, dove dappertutto si celebra la religion cristiana (ch’insegna un’idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la caritá inverso tutto il gener umano), vi sono delle grandi monarchie ne’ lor costumi umanissime. Perché le poste nel freddo Settentrione (come da cencinquant’anni fa furono la Suezia e la Danimarca, cosí oggi tuttavia la Polonia e ancor l’Inghilterra), quantunque sieno di Stato monarchiche, però aristocraticamente sembrano governarsi; ma, se ’l natural corso delle cose umane civili non è loro da straordinarie cagioni impedito, perverranno a perfettissime monarchie. In questa parte del mondo sola, perché coltiva scienze, di piú sono gran numero di repubbliche popolari che non si osservano affatto nell’altre
tre. Anzi, per lo ricorso delle medesime pubbliche utilitá e necessitá, vi si è rinnovellata la forma delle repubbliche degli etoli ed achei; e, siccome quelle furon intese da’ greci per la necessitá d’assicurarsi della potenza grandissima de’ romani, cosí han fatto i Cantoni svizzeri e le Provincie Unite ovvero gli Stati d’Olanda, che di piú cittá libere popolari hanno ordinato due aristocrazie, nelle quali stanno unite in perpetua lega di pace e guerra. E ’l corpo dell’imperio germanico è egli un sistema di molte cittá libere e di sovrani principi, il cui capo è l’imperadore, e nelle faccende che riguardano lo stato di esso imperio si governa aristocraticamente.[1093] E qui è da osservare che sovrane potenze, unendosi in leghe, o in perpetuo o a tempo, vengon esse di sé a formare Stati aristocratici, ne’ quali entrano gli anziosi sospetti propi dell’aristocrazie, come si è sopra dimostro. Laonde, essendo questa la forma ultima degli Stati civili (perché non si può intendere in civil natura uno Stato il quale a sí fatte aristocrazie fusse superiore), questa stessa forma debb’essere stata la prima, ch’a tante pruove abbiamo dimostrato in quest’opera che furono aristocrazie di padri, re sovrani delle loro famiglie, uniti in ordini regnanti nelle prime cittá. Perché questa è la natura de’ princípi: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare.
[1094] Ora ritornando al proposito, oggi in Europa non sono d’aristocrazie piú che cinque, cioè Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, e quasi tutte son di brevi confini. Ma dappertutto l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanitá, che vi si abbonda di tutti i beni che possano felicitare l’umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri cosí della mente come dell’animo. E tutto ciò in forza della cristiana religione, ch’insegna veritá cotanto sublimi che vi si sono ricevute a servirla le piú dotte filosofie de’ gentili, e coltiva tre lingue come sue: la piú antica del mondo, l’ebrea; la piú dilicata, la greca; la piú grande, ch’è la latina. Talché, per fini anco umani, ella è la cristiana la migliore di tutte le religioni del mondo, perché unisce una
sapienza comandata con la ragionata, in forza della piú scelta dottrina de’ filosofi e della piú colta erudizion de’ filologi.[1095] Finalmente, valicando l’oceano, nel nuovo mondo gli americani correrebbono ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoperti dagli europei.
[1096] Ora, con tal ricorso di cose umane civili, che particolarmente in questo libro si è ragionato, si rifletta sui confronti che per tutta quest’opera in un gran numero di materie si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi delle nazioni antiche e moderne; e si avrá tutta spiegata la storia, non giá particolare ed in tempo delle leggi e de’ fatti de’ romani o de’ greci, ma (sull’identitá in sostanza d’intendere e diversitá de’ modi lor di spiegarsi) si avrá la storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corron i fatti di tutte le nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini, se ben fusse (lo che è certamente falso) che dall’eternitá di tempo in tempo nascessero mondi infiniti. Laonde non potemmo noi far a meno di non dar a quest’opera l’invidioso titolo di Scienza nuova, perch’era un troppo ingiustamente defraudarla di suo diritto e ragione, ch’aveva sopra un argomento universale quanto lo è d’intorno alla natura comune delle nazioni, per quella propietá c’ha ogni scienza perfetta nella sua idea, la quale ci è da Seneca spiegata con quella vasta espressione: «Pusilla res hic mundus est, nisi id, quod quaerit, omnis mundus habeat».
CONCHIUSIONE DELL’OPERA
Sopra un’eterna repubblica naturale, in ciascheduna
sua spezie ottima, dalla divina provvedenza ordinata.
[1097] Conchiudiamo adunque quest’opera con Platone, il quale fa una quarta spezie di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori; che sarebbe la vera aristocrazia naturale. Tal repubblica, la qual intese Platone, cosí condusse la provvedenza da’ primi incominciamenti delle nazioni, ordinando che gli uomini di gigantesche stature, piú forti, che dovevano divagare per l’alture de’ monti, come fanno le fiere che sono di piú forti nature, eglino, a’ primi fulmini dopo l’universale diluvio, da se stessi atterrandosi per entro le grotte de’ monti, s’assoggettissero ad una forza superiore, ch’immaginarono Giove, e, tutti stupore quanto erano tutti orgoglio e fierezza, essi s’umiliassero ad una divinitá. Ché, ’n tal ordine di cose umane, non si può intender altro consiglio essere stato adoperato dalla provvedenza divina per fermargli dal loro bestial errore entro la gran selva della terra, affine d’introdurvi l’ordine delle cose umane civili.
[1098] Perché quivi si formò uno stato di repubbliche, per cosí dire, monastiche, ovvero di solitari sovrani, sotto il governo d’un Ottimo Massimo, ch’essi stessi si finsero e si credettero al balenar di que’ fulmini, tra’ quali rifulse loro questo vero lume di Dio: — ch’egli governi gli uomini; — onde poi tutte l’umane utilitá loro somministrate e tutti gli aiuti pórti nelle lor umane necessitá immaginarono esser dèi e, come tali, gli temettero e riverirono. Quindi, tra forti freni di spaventosa superstizione e pugnentissimi stimoli di libidine bestiale (i quali entrambi in tali uomini dovetter esser violentissimi), perché
sentivano l’aspetto del cielo esser loro terribile e perciò impedir loro l’uso della venere, essi l’impeto del moto corporeo della libidine dovettero tener in conato. E sí, incominciando ad usare l’umana libertá (ch’è di tener in freno i moti della concupiscenza e dar loro altra direzione, che, non venendo dal corpo, da cui vien la concupiscenza, dev’essere della mente, e quindi propio dell’uomo), divertirono in ciò: ch’afferrate le donne a forza, naturalmente ritrose e schive, le strascinarono dentro le loro grotte e, per usarvi, le vi tennero ferme dentro in perpetua compagnia di lor vita. E sí, co’ primi umani concubiti, cioè pudichi e religiosi, diedero principio a’ matrimoni, per gli quali con certe mogli fecero certi figliuoli e ne divennero certi padri; e sí fondarono le famiglie, che governavano con famigliari imperi ciclopici sopra i loro figliuoli e le loro mogli, propi di sí fiere ed orgogliose nature, acciocché poi, nel surgere delle cittá, si truovassero disposti gli uomini a temer gl’imperi civili. Cosí la provvedenza ordinò certe repubbliche iconomiche di forma monarchica sotto padri (in quello stato principi), ottimi per sesso, per etá, per virtú; i quali, nello stato che dir debbesi «di natura» (che fu lo stesso che lo stato delle famiglie), dovettero formar i primi ordini naturali, siccome quelli ch’erano pii, casti e forti, i quali, fermi nelle lor terre, per difenderne sé e le loro famiglie, non potendone piú campare fuggendo (come avevano innanzi fatto nel loro divagamento ferino), dovettero uccider fiere, che l’infestavano, e, per sostentarvisi con le famiglie (non piú divagando per truovar pasco), domar le terre e seminarvi il frumento; e tutto ciò per salvezza del nascente gener umano.[1099] A capo di lunga etá — cacciati dalla forza de’ propi mali, che loro cagionava l’infame comunione delle cose e delle donne, nella qual erano restati dispersi per le pianure e le valli in gran numero — uomini empi, che non temevano dèi; impudichi, ch’usavano la sfacciata venere bestiale; nefari, che spesso l’usavano con le madri, con le figliuole; deboli, erranti e soli, inseguiti alla vita da violenti robusti, per le risse nate da essa infame comunione, corsero a ripararsi negli asili de’ padri; e
questi, ricevendogli in protezione, vennero con le clientele ad ampliare i regni famigliari sopra essi famoli. E sí spiegarono repubbliche sopra ordini naturalmente migliori per virtú certamente eroiche; come di pietá, ch’adoravano la divinitá, benché da essi per poco lume moltiplicata e divisa negli dèi, e dèi formati secondo le varie loro apprensioni (come da Diodoro sicolo, e piú chiaramente da Eusebio ne’ libri De praeparatione evangelica, e da san Cirillo l’alessandrino ne’ libri Contro Giuliano apostata, si deduce e conferma); e, per essa pietá, ornati di prudenza, onde si consigliavano con gli auspíci degli dèi; di temperanza, ch’usavano ciascuno con una sola donna pudicamente, ch’avevano co’ divini auspíci presa in perpetua compagnia di lor vita; di fortezza, d’uccider fiere, domar terreni; e di magnanimitá, di soccorrere a’ deboli e dar aiuto a’ pericolanti: che furono per natura le repubbliche erculee, nelle quali pii, sappienti, casti, forti e magnanimi debellassero superbi e difendessero deboli, ch’è la forma eccellente de’ civili governi.[1100] Ma finalmente i padri delle famiglie, per la religione e virtú de’ loro maggiori lasciati grandi con le fatighe de’ lor clienti, abusando delle leggi della protezione, di quelli facevan aspro governo; ed essendo usciti dall’ordine naturale, ch’è quello della giustizia, quivi i clienti loro contro si ammutinarono. Ma, perché senz’ordine (ch’è tanto dir senza Dio) la societá umana non può reggere nemmeno un momento, menò la provvedenza naturalmente i padri delle famiglie ad unirsi con le lor attenenze in ordini contro di quelli; e, per pacificarli, con la prima legge agraria che fu nel mondo, permisero loro il dominio bonitario de’ campi, ritenendosi essi il dominio ottimo o sia sovrano famigliare: onde nacquero le prime cittá sopra ordini regnanti di nobili. E sul mancare dell’ordine naturale, che, conforme allo stato allor di natura, era stato per spezie, per sesso, per etá, per virtú, fece la provvedenza nascere l’ordine civile col nascere di esse cittá, e, prima di tutti, quello ch’alla natura piú s’appressava: — per nobiltá della spezie umana (ch’altra nobiltá, in tale stato di cose, non poteva estimarsi che dal
generar umanamente con le mogli prese con gli auspíci divini), e sí per un eroismo, i nobili regnassero sopra i plebei (che non contraevano matrimoni con sí fatta solennitá), e, finiti i regni divini (co’ quali le famiglie si erano governate per mezzo de’ divini auspíci), dovendo regnar essi eroi in forza della forma de’ governi eroici medesimi, la principal pianta di tali repubbliche fusse la religione custodita dentro essi ordini eroici, e per essa religione fussero de’ soli eroi tutti i diritti e tutte le ragioni civili. Ma, perché cotal nobiltá era divenuta dono della fortuna, tra essi nobili fece surgere l’ordine de’ padri di famiglia medesimi, che per etá erano naturalmente piú degni; e tra quelli stessi fece nascere per re gli piú animosi e robusti, che dovettero far capo agli altri e fermargli in ordini per resistere ed atterrire i clienti ammutinati contr’essoloro.[1101] Ma, col volger degli anni, vieppiú l’umane menti spiegandosi, le plebi de’ popoli si ricredettero finalmente della vanitá di tal eroismo, ed intesero esser essi d’ugual natura umana co’ nobili; onde vollero anch’essi entrare negli ordini civili delle cittá. Ove dovendo a capo di tempo esser sovrani essi popoli, permise la provvedenza che le plebi, per lungo tempo innanzi, gareggiassero con la nobiltá di pietá e di religione nelle contese eroiche di doversi da’ nobili comunicar a’ plebei gli auspíci, per riportarne comunicate tutte le pubbliche e private ragioni civili che se ne stimavano dipendenze; e sí la cura medesima della pietá e lo stesso affetto della religione portasse i popoli ad esser sovrani nelle cittá: nello che il popolo romano avanzò tutti gli altri del mondo, e perciò funne il popolo signor del mondo. In cotal guisa, tra essi ordini civili trammeschiandosi vieppiú l’ordine naturale, nacquero le popolari repubbliche. Nelle quali, poiché si aveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il caso o ’l fato non vi regnasse, la provvedenza ordinò che ’l censo vi fusse la regola degli onori; e cosí gl’industriosi non gl’infingardi, i parchi non gli pròdigi, i providi non gli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtú o con alcuna immagine di virtú non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli
ottimi del governo. Da repubbliche cosí fatte — gl’intieri popoli, ch’in comune voglion giustizia, comandando leggi giuste, perché universalmente buone, ch’Aristotile divinamente diffinisce «volontá senza passioni», e sí volontá d’eroe che comanda alle passioni — uscí la filosofia, dalla forma di esse repubbliche destata a formar l’eroe e, per formarlo, interessata della veritá; cosí ordinando la provvedenza: che, non avendosi appresso a fare piú per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intendere le virtú nella lor idea, in forza della quale riflessione, se gli uomini non avessero virtú, almeno si vergognassero de’ vizi, ché sol tanto i popoli addestrati al mal operare può contenere in ufizio. E dalle filosofie permise provenir l’eloquenza, che dalla stessa forma di esse repubbliche popolari, dove si comandano buone leggi, fusse appassionata del giusto; la quale da esse idee di virtú infiammasse i popoli a comandare le buone leggi. La qual eloquenza risolutamente diffiniamo aver fiorito in Roma a’ tempi di Scipione Affricano, nella cui etá la sapienza civile e ’l valor militare, ch’entrambi sulle rovine di Cartagine stabilirono a Roma felicemente l’imperio del mondo, dovevano portare di séguito necessario un’eloquenza robusta e sappientissima.[1102] Ma — corrompendosi ancora gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calonniare la veritá), e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte — provenne che, mal usando l’eloquenza (come i tribuni della plebe nella romana) e non piú contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; [e], come furiosi austri il mare, commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sí, da una perfetta libertá, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è piggiore di tutte), ch’è l’anarchia, ovvero la sfrenata libertá de’ popoli liberi.
[1103] Al quale gran malore delle cittá adopera la provvedenza uno di questi tre grandi rimedi con quest’ordine di cose umane civili.
[1104] Imperciocché dispone, prima, di ritruovarsi dentro essi popoli uno che, come Augusto, vi surga e vi si stabilisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte le leggi ritruovate per la libertá punto non piú valsero a regolarla e tenerlavi dentro in freno, egli abbia in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza dell’armi; ed al contrario essa forma dello stato monarchico la volontá de’ monarchi, in quel loro infinito imperio, stringa dentro l’ordine naturale di mantenere contenti i popoli e soddisfatti della loro religione e della loro natural libertá, senza la quale universal soddisfazione e contentezza de’ popoli gli Stati monarchici non sono né durevoli né sicuri.
[1105] Dipoi, se la provvedenza non truova sí fatto rimedio dentro, il va a cercar fuori; e, poiché tali popoli di tanto corrotti erano giá innanzi divenuti schiavi per natura delle sfrenate lor passioni (del lusso, della dilicatezza, dell’avarizia, dell’invidia, della superbia e del fasto) e per gli piaceri della dissoluta lor vita si rovesciavano in tutti i vizi propi di vilissimi schiavi (come d’esser bugiardi, furbi, calonniatori, ladri, codardi e finti), divengano schiavi per diritto natural delle genti, ch’esce da tal natura di nazioni, e vadano ad esser soggette a nazioni migliori, che l’abbiano conquistate con l’armi, e da queste si conservino ridutte in provincie. Nello che pure rifulgono due grandi lumi d’ordine naturale: de’ quali uno è che chi non può governarsi da sé, si lasci governare da altri che ’l possa; l’altro è che governino il mondo sempre quelli che sono per natura migliori.
[1106] Ma, se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malore, che né dentro acconsentino ad un monarca natio, né vengano nazioni migliori a conquistargli e conservargli da fuori, allora la provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che — poiché tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch’alle particolari propie utilitá di ciascuno ed avevano dato nell’ultimo della dilicatezza o, per me’ dir, dell’orgoglio, a guisa di fiere, che, nell’essere disgustate d’un pelo, si risentono e s’infieriscono,
e sí, nella loro maggiore celebritá o folla de’ corpi, vissero come bestie immani in una somma solitudine d’animi e di voleri, non potendovi appena due convenire, seguendo ogniun de’ due il suo propio piacere o capriccio, — per tutto ciò, con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vadano a fare selve delle cittá, e delle selve covili d’uomini; e, ’n cotal guisa, dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere piú immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso. Perché quella scuopriva una fierezza generosa, dalla quale altri poteva difendersi o campare o guardarsi; ma questa, con una fierezza vile, dentro le lusinghe e gli abbracci, insidia alla vita e alle fortune de’ suoi confidenti ed amici. Perciò popoli di sí fatta riflessiva malizia, con tal ultimo rimedio, ch’adopera la provvedenza, cosí storditi e stupidi, non sentano piú agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilitá della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e, per la ritornata primiera semplicitá del primo mondo de’ popoli, sieno religiosi, veraci e fidi; e cosí ritorni tra essi la pietá, la fede, la veritá, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sono grazie e bellezze dell’ordine eterno di Dio.[1107] A questa semplice e schietta osservazione fatta sulle cose di tutto il gener umano, se altro non ce ne fusse pur giunto da’ filosofi, storici, gramatici, giureconsulti, si direbbe certamente questa essere la gran cittá delle nazioni fondata e governata da Dio. Imperciocché sono con eterne lodi di sappienti legislatori innalzati al cielo i Ligurghi, i Soloni, i decemviri, perocché si è finor oppinato che co’ loro buoni ordini e buone leggi avesser fondato le tre piú luminose cittá che sfolgorassero mai delle piú belle e piú grandi virtú civili, quali sono state Sparta, Atene e Roma; le quali pure furono di brieve durata e pur di corta distesa, a riguardo dell’universo de’ popoli, ordinato con tali ordini e fermo con tali leggi, che dalle stesse sue corrottelle prenda quelle forme di Stati, con le quali unicamente
possa dappertutto conservarsi e perpetuamente durare. E non dobbiam dire ciò esser consiglio d’una sovrumana sapienza? la quale, senza forza di leggi (che, per la loro forza, Dione ci disse sopra, nelle Degnitá, essere simiglianti al tiranno), ma facendo uso degli stessi costumi degli uomini (de’ quali le costumanze sono tanto libere d’ogni forza quanto lo è agli uomini celebrare la lor natura, onde lo stesso Dione ci disse le costumanze essere simili al re, perché comandano con piacere), ella divinamente la regola e la conduce?[1108] Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da’ filosofi e da’ filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini piú ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castitá de’ matrimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl’imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono agl’imperi civili, onde surgono le cittá; vogliono gli ordini regnanti de’ nobili abusare la libertá signorile sopra i plebei, e vanno in servitú delle leggi, che fanno la libertá popolare; vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella soggezion de’ monarchi; vogliono i monarchi in tutti i vizi della dissolutezza, che gli assicuri, invilire i loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitú di nazioni piú forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché ’l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché ’l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuitá, sempre cosí faccendo, escono nelle medesime cose.
[1109] Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dá il caso e i di lui seguaci Obbes e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone,
e con lui Spinosa, che dánno il fato: al contrario, di fatto è stabilito a favor de’ filosofi politici, de’ quali è principe il divino Platone, che stabilisce regolare le cose umane la provvedenza. Onde aveva la ragion Cicerone, che non poteva con Attico ragionar delle leggi, se non lasciava d’esser epicureo e non gli concedeva prima la provvedenza regolare l’umane cose. La quale Pufendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno suppose e Grozio ne prescindé; ma i romani giureconsulti la stabilirono per primo principio del diritto natural delle genti. Perché in quest’opera appieno si è dimostrato che sopra la provvedenza ebbero i primi governi del mondo per loro intiera forma la religione, sulla quale unicamente resse lo stato delle famiglie; indi, passando a’ governi civili eroici ovvero aristocratici, ne dovette essa religione esserne la principal ferma pianta; quindi, innoltrandosi a’ governi popolari, la medesima religione serví di mezzo a’ popoli di pervenirvi; fermandosi finalmente ne’ governi monarchici, essa religione dev’essere lo scudo de’ principi. Laonde, perdendosi la religione ne’ popoli, nulla resta loro per vivere in societá: né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo.[1110] Quindi veda Bayle se possan esser di fatto nazioni nel mondo senza veruna cognizione di Dio! E veda Polibio quanto sia vero il suo detto, che, se fussero al mondo filosofi, non bisognerebbero al mondo religioni! Ché le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente muovono gli uomini ad operarle, e le massime da’ filosofi ragionate intorno a virtú servono solamente alla buona eloquenza per accender i sensi a far i doveri delle virtú. Con quella essenzial differenza tralla nostra cristiana, ch’è vera, e tutte l’altre degli altri, false: che, nella nostra, fa virtuosamente operare la divina grazia per un bene infinito ed eterno, il quale non può cader sotto i sensi, e, ’n conseguenza, per lo quale la mente muove i sensi alle virtuose azioni; a rovescio delle false, ch’avendosi proposti beni terminati e caduchi cosí in questa vita come nell’altra (dove aspettano una
beatitudine di corporali piaceri), perciò i sensi devono strascinare la mente a far opere di virtú.[1111] Ma pur la provvedenza, per l’ordine delle cose civili che ’n questi libri si è ragionato, ci si fa apertamente sentire in quelli tre sensi: — uno di maraviglia, l’altro di venerazione c’hanno tutti i dotti finor avuto della sapienza innarrivabile degli antichi, e ’l terzo dell’ardente disiderio onde fervettero di ricercarla e di conseguirla; — perch’eglino son infatti tre lumi della sua divinitá, che destò loro gli anzidetti tre bellissimi sensi diritti, i quali poi dalla loro boria di dotti, unita alla boria delle nazioni (che noi sopra per prime degnitá proponemmo e per tutti questi libri si son ripresse), loro si depravarono; i quali sono che tutti i dotti ammirano, venerano e disiderano unirsi alla sapienza infinita di Dio.
[1112] Insomma, da tutto ciò che si è in quest’opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietá, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio.