LIBRO QUARTO
SEZIONE SETTIMA
[1342] [939] .... talché il pretore non potesse niegargliele. Che prima professavano, come Pomponio dice, «privati ingenii fiducia», da Augusto in poi (che, con saggio consiglio, a sé, come monarca e perciò fonte di tutto il diritto civile, volle anco richiamar questa parte) il professarono coloro a’ quali esso ne avesse permesso e dato la facultá. Che durò infin ad Adriano, il qual ordinò che, nata appo i giudici difficultá se la formola data dal pretore cadesse sul fatto o no, eglino, col tacer i nomi de’ litiganti, ne consultassero i giureconsulti ordinati da esso, a’ quali questi davano chiuse e suggellate le loro risposte, dalle quali «iudicibus recedere non licebat»: onde da Adriano salí in tanta riputazione la giurisprudenza, perché indi in poi in mano de’ giureconsulti erano tutti i giudizi romani. Cosí a’ tempi barbari ritornati, tutta la riputazione de’ dottori .... ch’era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giureconsulti. Il qual ricorso di cose in giurisprudenza non è stato avvertito da niuno di tutti gl’interpetri, ed antichi e moderni, della romana ragione.
SEZIONE NONA
Capitolo Secondo
[1343] [951] .... e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del [CMA3] ben pubblico al monarca ed a coloro a’ qual’il monarca, la somma a sé riserbando, ne commette la cura nelle parti minori, nelle quali una repubblica è ripartita; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni .... Ch’è l’«aequum bonum» considerato dalla natural equitá, ed è l’obbietto della giurisprudenza ultima, che cominciò ne’ tempi della romana libertá popolare e si compiè sotto gl’imperadori.
[1344] Dal qual ragionamento escono questi importantissimi corollari:
[1345] I. — Che tal è avvenuto della sapienza de’ romani quale della poesia d’Omero, estimate entrambe effetti d’innarrivabile filosofia, che furon, in fatti, produtte dalla lor eroica natura.
[1346] II. — Che, con troppo giusto senso, gli eroi, come sopra ragionammo nella Fisica eroica dell’uomo, posero la loro sapienza nel cuore; perché ove fussero cuori eroici, cioè sinceri, aperti, fidi, generosi e magnanimi, vi sarebbon i veri sappienti di Stato, i quali ad essi monarchi non consiglierebbono che ordini di pace ed imprese di guerra, che rendessero loro gloriosi gli Stati, i quali gloriosi non sono se non portano un’universale e durevole contentezza de’ sudditi.
[1347] III. — Ch’i romani per ciò furono sappientissimi di Stato sopra tutte le nazioni del mondo, perché si fecero guidare con giusti passi dalla divina provvedenza, la qual è tutta occupata a conservar il gener umano (dal qual fine assolutamente Ulpiano diffinisce la ragione di Stato); né troppo acuti per l’indole del cielo affricano, essi scaltrirono la loro sapienza co’ traffici marittimi, come fecero i cartaginesi; né troppo dilicati per lo presto passaggio che vi avevano fatto, assottigliarono la loro con le filosofie, come fecero i greci: la qual sapienza simulata, come la cartaginese, o affilata, come la greca, non piacque al senato nel tempo della romana virtú. La qual manomise Cartagine, e con
Cartagine l’Affrica, ed in Ispagna Numanzia nel di lei troppo ancor acerbo eroismo, ed in Italia Capova, ch’aveva risoluto troppo anzi tempo l’eroismo con le delizie del cielo e con l’abbondanza della terra: delle quali tre cittá aveva temuto Roma l’imperio dell’universo. Manomise quindi la Grecia, e con la Grecia l’Asia, e fece parti della sua quelle ch’erano state innanzi due grandi monarchie, la prima de’ persiani e la seconda de’ macedoni, e divenne signora di tutto il mondo, di cui per natura potette esser signora. Onde Cicerone, il qual non credeva la favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma (come altrove abbiamo dimostrato e meglio dimostreremo in un propio Ragionamento nel fine di questi libri), aveva ben onde anteporre il solo libretto di quella legge a tutte le librarie de’ filosofi. E i romani giureconsulti, in conformitá di tal loro pratica, posero in teorica per gran principio della giurisprudenza la provvedenza divina.[1348] IV. — La soluzione d’un altro egualmente (quanto questo, senza la soluzione di questo) difficil problema a solversi: — Perché la giurisprudenza nacque sola al mondo tra’ romani? — Perché essi soli, prima coi costumi e poi, essendosi questi portati nella legge delle XII Tavole, per mezzo dell’interpetrazione, seppero custodire religiosissimamente gli ordini naturali, co’ quali la provvedenza dapprima aveva ordinato il mondo delle nazioni; lo che, per le cagioni e naturali e civili ch’abbiamo testé arrecato, non poterono né Cartagine né Numanzia né Capova né essa dottissima Grecia.
[1349] V. — Si manifesta la fortuna la qual fu cagione della romana grandezza, cioè la divina provvedenza, da’ romani sopra l’altre nazioni del mondo tutto religiosamente osservata; la qual fortuna non seppe vedere Plutarco, alquanto individioso della romana virtú, né seppe additargliela Torquato Tasso nella sua generosa Risposta a Plutarco.
[1350] VI. — Il rovesciamento dell’idee c’hanno finor avuto i dotti: che l’eroismo andò di séguito alla sapienza degli antichi; quando de’ primi tempi, ne’ quali gli uomini erano tutti senso e pensavano nel cuore, la sapienza degli antichi dovette esser effetto dell’eroismo.
[1351] VII. — E finalmente si ha la piú luminosa pruova di ciò che sopra dicemmo: che la maraviglia e ’l disiderio, c’hanno finor avuto i dotti della sapienza degli antichi, furono sensi diritti d’intorno alla provvedenza divina, i quali poscia la loro boria depravò con immaginarla sapienza umana.
[1352] Dal fin qui ragionato facilmente s’intende la terza spezie di ragione, ch’è la ragion naturale della natura umana tutta spiegata, che si dice «aequitas naturalis». Della quale sola è capace la moltitudine ....
Capitolo Terzo
[1353] [952] [CMA3] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione ne dánno la ragione finor nascosta, la quale non han saputo tutti coloro c’hanno adornato la storia delle leggi romane, i quali riconoscono tre spezie di giurisprudenze, cioè antica, mezzana ed ultima, ma non han saputo il perché s’andarono d’una in altra cangiando. Perché non considerarono ch’i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati ....
[1354] [953] .... che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. [CMA3] Lo che fu alto consiglio della provvedenza, con cui secondo le diverse nature degli uomini ha ordinato la successione delle forme politiche. Ché nel tempo della somma fierezza del gener umano .... e l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi pratici di corte e serbata arcana dentro de’ gabinetti.
[1355] Tante cose e sí grandi nascondeva quest’arcano delle leggi che gl’interpetri, non sappiendo, han creduto impostura [CMA4] de’ romani patrizi, [CMA3] e Claudio Clapmario, De arcanis rerumpublicarum, non osservò. Per tutto lo che ragionato, quanto naturalmente erano stati appresi per giusti i rigori della giurisprudenza antica, tanto naturalmente se ne riconobbe appresso l’ingiustizia dalla giurisprudenza mezzana, e molto piú dalla ultima. Che dee esser il vero c’ha dovuto sostenere la volgar tradizione della legge delle XII Tavole venuta da Grecia in Roma: perché nacque in tempi che durava ancora la maniera di parlare per caratteri poetici; e, per tutto il tempo che la giurisprudenza antica usò del rigore nel ministrarla, fu detto essa legge esser venuta da Sparta, repubblica la qual a mille pruove abbiamo dimostrato essere stata di forma aristocratica, qual abbiam truovato essere stata la romana infin alla legge publilia; ma, dappoi che la giurisprudenza mezzana cominciò a temprarne i rigori con la ragion naturale, si disse esser venuta da Atene, repubblica popolare, quale fu la romana dalla legge publilia in poi. E tal oppenione restò, perché questa spezie d’interpetrazione si ricevette e s’accrebbe dalla giurisprudenza ultima sotto gl’imperadori.
SEZIONE DECIMA
Capitolo Primo
[1356] [955] .... e nel secondo per «excipere». [CMA3] Tanto che queste dovetter essere le prime orazioni fatte agli dèi; ond’a’ latini gli avvocati restaron detti «oratores». A’quali anco da tali orazioni ed obsecrazioni, con eleganti differenze, restarono «oro» ed «obsecro» per cose gravissime, «rogo» e «quaeso» per cose leggieri. Tali richiami agli dèi si faccevano dapprima dalle genti ....
[1357] [955*] [CMA3] Sulla qual credenza Boiocalo, valoroso principe degli angrivari ed assai benemerito de’ romani, avendo ad Avito, luogotenente generale dell’esercito romano in Germania, domandato terre, dove esso ed altri germani principi, ch’avevano fatto lui capitano di quella spedizione, potessero vivere co’ loro vassalli, ed avendogliele il romano niegato, se ne richiamò al cielo con quell’apostrofe, che non fu uno sparuto colore di rettorica, ma piena di eroica vivezza: «solem inde respiciens — ci serviamo delle stesse parole di Tacito, perché adeguano la grandezza della storia — et cetera sydera vocans, quasi coram interrogabat: vellentne contueri inane solum? potius mare superinfunderent adversus terrarum ereptores». La qual sublimitá di lingua non nacque altronde che dalla sublimitá del di lui cuore. Perocché, da tal detto commosso, Avito avendogli profferto per lui solo e i di lui vassalli le domandate terre, egli generosamente, «tanquam proditionis precium aspernatus», diede in quella risposta magnanima: «deesse nobis terra, in qua vivamus, potest; in qua moriamur, non potest»; com’esso con tutte quelle nazioni, disperatamente combattendo, morirono. La qual istoria appruova a maraviglia ciò che noi diciamo: che con la barbarie sta la vera grandezza e sublimitá, la quale non è da sperarsi né dalle sottigliezze delle filosofie né dalle pulitezze dell’arti.
[1358] [957*] [CMA3] E qui si faccia una stretta ma pesante raccolta di cose de’ tempi divini della gentilitá. La prima fede fu la forza degli dèi; il primo culto fu la coltivazione de’ campi; le prime are
essi campi arati; le prime contemplazioni quelle degli auspíci; i primi templi le regioni del cielo, le quali disegnavano gli áuguri per contemplarglivi; i primi misteri essi auspíci medesimi, onde i poeti teologi se ne dissero «mystae», che Orazio volta «interpetri degli dèi», i quali si tenevano per sappienti di tal teologia mistica, e tai poeti n’ebbero il titolo di «divini», cioè dotti in divinitá o sia nella scienza della divinazione; le prime cerimonie e le prime solennitá quelle degli atti legittimi; le prime orazioni furono l’accuse o difese; le prime devozioni furono l’esegrazioni de’ rei; i primi voti cotali rei consegrati; i primi sagrifici i supplíci di tali rei; le prime ostie, le prime vittime, cotali rei giustiziati. Dalle quali cose tutte si vede apertamente le prime religioni gentilesche essere state tutte sparse di fierezza e di sangue; e tutto ciò dalla divina provvedenza ordinato, acciocché la generazione degli uomini, nel ferino errore perduti, temprando l’indole immane della fiera natura con ispaventose e crudeli (e per ciò crudeli, perché spaventose) religioni, si riducesse finalmente all’umanitá.Capitolo Terzo
[1359] [966] .... e ’l popolo, a cui si appellò, l’assolvette piú perché il delitto si nascose dentro lo splendore della sua gloria che per alcun merito della causa, come il tutto si può raccogliere da Livio. [CMA3] Il qual diritto eroico durò fin a’ tempi di Giustiniano, che tutti i giudizi, perch’eran tutti ordinari, erano tutti condennatòri, perché la formola di tutti dal pretore si concepiva: «Si paret reum esse, condemna, iudex»; onde, se non appariva il reo, non vi era bisogno di assolversi, perché non vi era stato giudizio, il quale tutto consisteva in essa formola. Oggi, che tutt’i giudizi sono estraordinari, ordinati dalla ragion naturale, sono tutti assolutòri; perché o si truova in fatti reo, e, col condennarsi, si assolve naturalmente dal debito; o non si truova, e si dice assolversi «ab impetitis», si assolve dall’ingiusta o falsa oppenione, perché in tali giudizi regna la natural giustizia e la veritá. Cotali giudizi ordinari bisognarono a’ tempi d’Achille, [SN2] che riponeva tutta la ragion nella forza .... fu in cautelare i clienti. Il qual costume natural delle nazioni diede l’argomento a tutta una commedia di Plauto, intitolata Il persiano, nella quale i testimoni, che vi si adoperano, professan esser uomini dabbene, e sono dal padrone dello schiavo
informati di tutto l’ordine della trappola che esso tende contro il ruffiano; e non sono d’altro soleciti o scrupolosi che di vedere contarsi dallo schiavo al ruffiano il danaio; e ’l ruffiano, di ciò da essi convinto, si fugge da Atene, per non essere condennato d’aver corrotto lo schiavo altrui. [CMA3]Capitolo Quinto
Riprensione del sistema d’Ugone Grozio
ne’ libri «De iure belli et pacis»
[1360] E, per dimostrar ad evidenza, particolarmente contro il Grozio, quanto sia difettuoso e vada errato il suo gran sistema De iure belli et pacis, è da riflettersi che i romani, i quali senza contrasto furono sappientissimi di tal diritto sopra tutte l’altre nazioni del mondo, quelli che Livio dice «sunt quaedam belli et pacis iura» il qual motto diede il primo motivo al Grozio di meditare quell’opera incomparabile, essi sperimentarono prima privatamente con que’ plebei, contro a’ quali udimmo Aristotile nelle Degnitá che gli eroi giuravano d’esser eterni nimici; e quelle leggi, che lor avevano dato in casa, poi fuori nelle guerre diedero alle vinte nazioni. Le leggi furono queste cinque e non piú, quali in quest’opera abbiamo ritruovato:
1. le clientele di Romolo,
2. il censo di Servio Tullio,
3. il «ius nexi mancipique» della legge delle XII Tavole,
4. la legge de’ connubi,
5. e finalmente quella di comunicarsi il consolato alla plebe.
[1361] Perocché riducevano le provincie fiere e feroci a’ giornalieri di Romolo con mandarvi le colonie romane; — regolavano le mansuete col censo di Servio Tullio, o sia col dominio bonitario; — alla splendida e luminosa Italia, ch’era contenta d’essere nel suo seno Roma, capo del mondo, permise il dominio quiritario de’ campi con la mancipazione, o sia tradizione solenne del nodo della legge delle XII Tavole, onde furono detti i fondi «soli italici»; — a’ popoli benemeriti dentro essa Italia comunicarono il connubio e col connubio la cittadinanza, che (siccome i plebei romani, ove si facessero de’ grandi meriti) fussero capaci degli onori e del consolato, quali furon i municipi romani.
[1362] Sopra sí fatte cinque leggi essi andarono stendendo con giustizia le conquiste e ingrandendo con clemenza il romano imperio; che è quello onde doveva con sodezza di princípi trattare queste cose romane il gran Carlo Sigonio con l’immensa minuta erudizione con cui n’ha scritto. Quindi s’intenda quanto il Grozio trattò il diritto della guerra e della pace assai meno della mettá e senza scienza di princípi, contemplando tutto ad un colpo le nazioni entro la societá di tutto il gener umano! Il qual errore nacque da quell’altro: ch’egli ne ragiona non co’ princípi della provvedenza, come n’avevano ragionato i romani giureconsulti; la quale prima addottrinò dentro i popoli privatamente, senza saper nulla l’uno dell’altro, d’intorno a queste leggi, le quali, usciti poi fuori con le guerre, riconobbero giuste cosí i vincitori di darle, come di riceverle i vinti.
SEZIONE UNDECIMA
[CMA3]
Capitolo Secondo
Dimostrazione di fatto istorico contro lo scetticismo
[1363] Or qui sieci lecito di far una digressione, non inutile però alla somma dell’opera, in una dimostrazione di fatto istorico, che pruovi ad evidenza che le sètte de’ filosofi vanno a seconda della corrozione della setta de’ tempi umani, ne’ quali abbiam dimostro nascer esse filosofie, e che le rovinose all’umana societá vengono da impuritá di cuore, ch’appesta le menti d’una sapienza perniziosa al gener umano. Tal dimostrazione di fatto è la storia d’intorno allo scetticismo.
[1364] Imperciocché Socrate, il qual fu detto padre di tutte le scuole de’ filosofi, ne’ tempi ancor costumati della Grecia, professò sapere questa sola cosa: ch’esso non sapeva nulla. Su di che Platone stabilí quel criterio di veritá: ch’è un grande argomento del vero sembrar una cosa la stessa a tutti; della quale non vi ha regola piú sicura nella vita umana, con cui tutte le nazioni accertano l’elezioni, le giudicature, i consigli. Tanto che Socrate e, dopo di lui, Platone aprirono l’Accademia antica sopra questo dogma: doversi vedere nelle cose se si accosti al vero piú questo che quello. S’andarono piú corrompendo i costumi greci, e Carneade in Roma un giorno ragionò esservi giusto in natura, e ’l giorno appresso ragionò che ’l giusto era nell’oppenione degli uomini; ed aprí la scuola dell’Accademia mezzana, che si cominciò a dire scettica, la qual lasciava almeno rattenuti gli uomini sulla dubbiezza d’esser o questo o quello. Appresso, incominciandosi a sfacciare la Grecia, venne Arciselao e portò piú innanzi lo scetticismo, con insegnar e questo e quello, e sí lasciò libertá d’indifferenza agli uomini d’operare qualunque delle due con non poco d’audacia. Ma, quando la Grecia finalmente, perduto ogni rossore, faceva professione d’una sapienza di laidissimi gusti e di furiose dilicatezze, l’Accademia di Socrate degenerò nell’Accademia ultima, detto «pirronismo», da Pirrone, ch’insegnò né questo né quello; onde gli uomini con tutta la sfacciatezza confusero il lecito e l’illecito, l’onesto e ’l disonesto, il giusto e l’ingiusto.
SEZIONE DUODECIMA
Capitolo Secondo
[1365] [985] .... funne fatto strozzare o appiccare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni. Perché ’l testamento di Telemaco, narrato da Omero e riferito da Giustiniano nell’Istituta, fu donazione particolare fatta mortis caussa. Della quale s’intese la necessitá nelle guerre, perch’i beni, ch’erano appo i soldati i quali morivano nelle battaglie, non restassero senza signore; e ne rimase l’eterna propietá: che ’l soldato, che fa testamento in procinto di battagliare, possa morire «pro parte testatus, pro parte intestatus». Onde s’intenda quanto ella è saggia la critica degli eruditi interpetri delle leggi romane, i quali con tanta esattezza fissano nella tavola undecima il capo ....
[1366] [990*] [CMA3] E qui finalmente ci abbiamo riserbato di esaminare quel detto d’Aristotile, il quale ne’ suoi Libri politici udimmo nelle Degnitá dire ch’i regni per successione sieno celebrati da’ barbari e che per elezione si diferirono i regni eroici. Perché Aristotele non visse tanto, che vedesse de’ suoi umanissimi greci i regni di Siria, d’Egitto, di Macedonia ed altri molti, ne’ quali tra’ capitani d’Alessandro Magno si divise la monarchia persiana, essere stati tutti per successione; né poté vedere l’imperio romano nella sua piú splendida umanitá essere stato per cinque imperadori un retaggio della casa di Cesare, come l’appella Galba (appo Tacito), che fu il primo imperadore romano eletto. Ma egli fu ingannato dalla boria de’ dotti, d’estimare gli antichi eroi qual’i filosofi l’hanno finor immaginati, non quali furono per natura, che, come a tante pruove s’è in questi libri dimostrato, fu natura di barbari.
[1367] [992] Ed è degno di due riflessioni. Delle quali una è: su due sconcissimi errori presi da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole: uno che tali successioni ab intestato, con tal’imperi ciclopici, con tali pene crudelissime, quali appresso diremo, fa venir in Roma da Atene ne’ tempi che godeva la piú mansueta libertá popolare; l’altro che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato .... delle cose che sono dette nullius o in quella
de’ beni vacanti. L’altra riflessione, che piú rileva, è che per l’agrarie si fecero dalla plebe delle grandi rivolte, ma per tali contese eroiche non se ne fece pur una, perché quelle guardavan cosa fuori delle persone de’ nobili e che si potevan avere da’ plebei senza i nobili: ma i connubi, i consolati, i sacerdozi eran attaccati alle persone de’ nobili, e i plebei in tanto l’ambivano in quanto gli godessero insieme co’ nobili. Onde le contese, essendo tutte d’onore in pace, portavano i plebei a fare delle grandi imprese in guerra, come sta proposto nelle Degnitá, per appruovar a’ nobili ch’essi eran degni de’ diritti de’ nobili; come Sestio, tribuno della plebe, una volta il rimpruovera a’ nobili. Laonde conobbero, ma di sottil profilo, questa gran veritá, da una parte Macchiavelli, che disse la cagione della romana grandezza essere stata la magnanimitá della plebe, e dall’altra Polibio, che la rifonde tutta nella romana pietá: perocché (noi lor soggiugniamo) i padri dicevano tutti i diritti eroici essere loro propi, perché «sua essent auspicia». I quali scrittori, entrambi da noi cosí spiegati, possono accusar Plutarco d’invidia, che fa della romana grandezza fabra la romana fortuna, ed avvertire Torquato Tasso di non averlo ben còlto nella sua Risposta a Plutarco.[1368] [996*] [CMA2] E Tacito, che vuole anche con esse propietá delle voci dar i suoi avvisi politici, nel principio degli Annali disse «ius tribunorum militum», usando un vocabolo generale di diritto, non lo propio e grave d’«imperio». Come con iscienza pur aveva detto, nel verso sopra, «decemviralis potestas»: perché nel primo anno fu imperio legittimo; nel secondo, fermatovisi a forza Appio con gli altri nove, il decemvirato divenne tirannide (come «dieci tiranni» s’appellano sulla storia), e sí fu una potestá di fatto, non di ragione.
[1369] [997] .... «tribunorum plebis potestas». Lo che dá apertamente a divedere quanto s’intendesse della natura delle cose umane civili Giovan Bodino, che vorrebbe nella sua monarchia francese restituita la patria potestá de’ romani antichi!
Capitolo Terzo
[1370] [999] .... al narrare di Pomponio. [CMA3] Dov’è da farsi questa importante riflessione: che, perciocché la sapienza degli auspíci era stata agli eroi il primo principio di tutte le loro ragioni
eroiche, i plebei furono rattenuti di domandare, senonsé all’ultimo, comunicarsi loro da’ nobili la ragion eroica de’ sacerdozi e de’ ponteficati, che portava di séguito la scienza delle leggi, della quale prima e principal parte era quello che dicevano «ius augurium», di cui s’intendeva la scienza augurale; per la qual parte la giurisprudenza si diffiní «notitia rerum divinarum», dalla quale dipendeva l’altra parte «humanarum»; le quali entrambe ne compiono tutto l’obietto adeguato. Perciò qui noi ragioneremo della custodia delle leggi ....[1371] [1001] .... e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero. Onde Tiberio, di lui successore, poi godeva di veder nella curia da una parte i suoi figliuoli combattere le leggi e dall’altra tutto il senato difenderle, le quali pur eran vinte; e Caligula, mal sopportando le formole delle leggi, che ponevano in suggezione la sua libera sovranitá, diceva a’ giureconsulti quelle parole: «redigam illos ad aequum», che dasse il suono di «eccum», in atto di additare se stesso. E i seguenti principi usarono non per altro il senato che per fare senaticonsulti ....
[1372] [1002] ...., talché Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa; ma non ne sa la ragione: perché è ritornato il diritto natural delle genti, che naturalmente s’osservò a’ tempi di Giustiniano.
[1373] [1003] .... con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole, in conformitá degli Stati che si cangiavano, prima libero e poi monarchico, secondo l’avviso politico che Tacito pur ne dá: che le leggi non si mutino tutte ad un tempo. Onde forse per cotal cagione principalmente ....
SEZIONE DECIMATERZA
Capitolo Primo
[Nella SN2 questo capitolo e i due che seguono costituiscono una lunga introduzione, senza titolo, del libro quinto. Ma giá nelle CMA1 questa introduzione, pur restando al medesimo posto, venne spezzata in due capitoli, i quali, divenuti tre, nelle CMA3 mercé lo sdoppiamento del primo, furono, nella SN3, anticipati al quarto libro].
[1374] [1004] Da sí lunga, numerosa, multiforme, costante e perpetua successione di cose umane .... apertamente e con evidenza si è da noi dimostrato che, per tutta l’intiera vita .... ma di forme seconde mescolate col governo delle prime; il qual mescolamento naturale, quanto è vero in natura, tanto egli non è stato punto osservato da tutti i politici. [CMA3] Questo ha fruttato scrivere di sí fatta scienza sull’idee boriose particolari de’ dotti, e non sopra le comuni delle medesime nazioni, dalla comune natura delle quali, che questa Scienza contempla, naturalmente nascono essi Stati e secondo quella naturalmente si ordinano essi governi civili. Egli è tal mescolamento fondato [SN2] sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini ne’ lor costumi, ritengono per qualche tempo l’impressione del vezzo primiero, e per quella metafisica veritá: che le forme per la lor unitá si sforzano quanto piú possono di discacciar dai loro subbietti tutte le propietá d’altre forme.
Capitolo Secondo
[1375] S’introdusse la legge monarchica con questa natural legge regia, che sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani, e per la quale Bodino si maraviglia dell’effetto, perché non sa la cagione, che tutti gli ordini necessari alla monarchia esso osserva esser uniformi tra gli ebrei, romani, turchi e francesi, e solamente variar nel suono delle voci di quattro lingue diverse. Perché queste quattro nazioni
con un senso uniforme sentirono tali e non altri, tanti né piú né meno, bisognar alla monarchia. Se non vogliamo che la legge regia di Samuello, con la quale Saulle da Dio fu ordinato monarca, con gli stessi viaggi di Pittagora per lo mondo, avesse caminato dagli ebrei a’ romani, da’ romani a’ turchi ed a’ francesi. E i pareggiatori del diritto attico fanno venire la legge delle XII Tavole da Atene in Roma per alquanti pochi costumi civili romani, ch’osservano sopra autori greci essere stati conformi in Atene. Ma della patria potestá, della suitá, agnazione, gentilitá, e quindi delle successioni legittime, de’ testamenti, delle tutele, della mancipazione (con cui si solennizzavano tutti gli atti legittimi, tra’ quali erano i matrimoni e le adozioni, e senza la quale tra’ vivi non s’acquistava dominio civile), delle usucapioni e finalmente delle stipulazioni (con le quali s’avvalorano tutti i patti), nelle quali cose consiste tutto il corpo del diritto romano, siccome negli ordini osservati dal Bodino uniformi tralle quattro anzidette nazioni si contiene tutta la forma del governo monarchico, essi non ne rapportano verun luogo pari da niuno greco scrittore; e ciò che loro fece prender abbaglio, fu il lusso greco de’ funerali, che truovaron vietato dalle leggi romane. Ma vi voleva questa Scienza, che lor dasse la discoverta de’ caratteri poetici, co’ quali parlarono per lunga etá le antiche nazioni, per poter intendere che dovette introdursi in Roma dopo che i romani si erano conosciuti co’ greci, che fu con l’occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella con Pirro; e che nelle XII Tavole si andarono tratto tratto aggiugnendo le leggi che dal CCCIII di Roma si comandarono lunga etá appresso, come noi ne’ Corollari della Logica poetica abbiamo pienamente sopra dimostro.[1376] [1007] Or, ritornando al proposito, diciamo che cotal legge regia naturale, ch’intesero tutte le nazioni, non seppero vedere tutti gl’interpetri delle leggi romane, occupati tutti d’intorno alla favola delle legge regia di Tribuniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano ne’ Digesti. D’intorno alla quale se Tribuniano non avesse favoleggiato, essi non saprebbero render alcuna ragione della monarchia romana che fu fondata da Augusto; [CMA3] siccome Ugon Grozio, per renderne ragione, egli è, quantunque a torto, con vani o falsi o irragionevoli argomenti notato dal Gronovio, che vi scrive le note a compiacenza della libertá olandese, che ’l Grozio in ciò sia adulatore della francese monarchia. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani ....
[1377] [1008] .... la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico; [CMA3] e nelle cose politiche il maggior numero si tiene a luogo di tutti, siccome nelle morali lo «per lo piú» si tien a luogo di «sempre». Lo che Tacito, sappientissimo di diritto natural delle genti ....
Capitolo Terzo
[1378] [1014] .... [CMA3] a celebrar le cittá, ed a cingerle di muraglie. Tanto gli antichissimi monarchi sognati da’ politici, da’ qual’incomincia la sua posizione il Bodino, erano stati lontani dal pensier d’infrenar le cittá col timore delle fortezze! E tanto i fondatori delle cittá essi furono quelli ....
[1379] [1015] .... Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare! Dovrá perciò il Bodino, per mantener il suo detto, ricorrere a’ servi co’ quali Abramo fece guerra co’ re gentili. Ma gli schiavi si fanno in guerra, che, per la sua posizione, hanno ancora da cominciare.
[1380] [1016] .... degli schiavi, che vennero dopo le cittá con le guerre. E contro sua voglia si salvi Gian Bodino, che fa materia delle repubbliche uomini liberi e servi, e si perde in ritruovarne la guisa. Ma Abramo non fece guerre alliato con altri patriarchi, e, se con altri patriarchi avesse fatto le guerre che fece contro gli re gentili, se non vi fosse stato diverso ordinamento dato espressamente da Dio, doveva con quelli dividere le conquiste.
[1381] [1017] .... [CMA3*] E sí gli antichi franchi, che ’l Bodino, francese, non intende, il diedero alla sua Francia. Il qual costume umano usa tuttavia la religione di Malta, la quale distingue le nazioni de’ suoi cavalieri per «lingue».
[1382] [1019] perché gli uccidevano per ordine di essi senati regnanti. [CMA3] Come Bruto dovette liberar Roma dal tiranno Tarquinio, ch’aveva fatto uccider una gran parte del senato; né l’arebbe liberata altrimente se non fusse avvenuto il fatto di Lucrezia, il qual commosse la plebe contro il tiranno. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli ....
SEZIONE DECIMAQUARTA
Capitolo Primo
[1383] [1025] E finalmente come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposar sotto le monarchie. [CMA3] E, se ben si rifletta sulla storia universale, si osserverá che le monarchie non mai si fondarono e stabilirono senonsé dopo lunghe e grandi guerre civili de’ popoli.
[1384] [1026] Tutto il ragionato in questo libro è propio di questa Scienza, prima e principalmente per l’aspetto ch’ella ha di storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini; la quale, come da’ suoi particolari princípi, si avrá tutta spiegata e ferma sulle degnitá [CMA3] lxvi, lxvii, lxviii e particolarmente la lxxx, la xciv, xcv e xcvi, [SN2] dalle quali, come sue sorgive, deesi richiamare. Dipoi, come in conseguenza di tal istoria ideal eterna questa Scienza ha l’aspetto di sistema del diritto natural delle genti, esce, come da semenze le frutte, dalle degnitá [CMA3] cv fin alla cxiv, [SN2] ch’è l’ultima. Sulle quali si rincontrino le cose che qui se ne dicono, e si vedrá dimostrato ch’i romani, i quali con essi umani costumi si fecero condurre dalla divina provvedenza, acconciamente a tal pubblica loro pratica diffinirono nella teorica delle loro leggi, come ogniun sa, «ius naturale gentium divina providentia constitutum». La qual, principalmente con essi romani costumi, l’abbiamo per tutta quest’opera, e particolarmente in questo libro, ragionata. Che Grozio non fece, il qual, per troppo affetto ch’egli ebbe alla veritá, professa il suo sistema reggere anco precisa ogni cognizione di Dio (del qual diritto non può reggere niun sistema, se non comincia dalla cognizione d’un Dio provvedente); — Seldeno la suppone; — Pufendorfio non ne ragiona con gravitá, perché l’incomincia da un’ipotesi epicurea dell’uomo gittato in questo mondo senza niuna cura ed aiuto di Dio; — e per la boria de’ dotti han creduto tutti e tre di
concerto che le genti, perdute nell’error della colpa, osservato avessero coi costumi un diritto naturale comune con gli ebrei, ch’eran illuminati dal vero Dio, ed avesserlo inteso co’ filosofi, che, dopo lungo tempo fondate le nazioni, furono schiariti in parte de’ lumi dell’universal eterna giustizia.Capitolo Secondo
[1385] [1034] .... [CMA3] «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato dapprima «vestir pelli di fiere uccise», com’Ercole vestiva quella del lione. Lo che non era lecito ch’a soli eroi, perch’essi soli, com’abbiam sopra detto, avevano il diritto dell’armi; ond’ancor oggi in Lamagna, nazion eroica, non è ad altri lecita la caccia ch’a soli nobili. E n’è rimasto certamente il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne salvaggine cacciate», detto cosí da Opi, dea della forza, a cui dovevano innanzi consegrare le fiere che bramavano uccidere, nel tempo che credevano ch’ogni cosa facesser gli dèi, come si è appieno sopra dimostrato. Laonde, come dovettero le prime mense opime esser queste dove s’imbandivano tali carni, che facevano tutta la lautezza delle cene eroiche, quali appunto le descrive Virgilio; e poi, passando il pregio da’ cibi a’ pesci, i quali oggi rendono sontuose le tavole de’ grandi, restò «opsonari» per «comperar pesci», come l’avvertono i latini gramatici; — cosí «personari» dovett’essere «vestir pelli di fiere uccise», e ’n conseguenza queste dovetter essere le prime spoglie opime, che riportarano dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come abbiamo sopra ragionato, e poi se ne dissero «spoglie opime» quelle degli re uccisi in guerra da’ romani re o da’ consoli, ch’eran appese in voto a Giove Feretrio nel Campidoglio.
[1386] [1037] Ma, venuti finalmente i tempi umani delle repubbliche popolari .... le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». E della mente de’ popoli legislatori [CMA3] (e sen rida pure il celebratissimo giureconsulto di Arnoldo Vinnio, perch’egli non può intendere questi sublimi e finor seppelliti princípi di legal metafisica) si fece una platonica idea, detta «intellectus iuris», alla qual idea la volontá de’ cittadini si debbe conformare, acciocché ella sia, per dirla
co’ dottori, «investita» e, piú propiamente co’ filosofi, «informata» del diritto. Il qual intelletto è appunto la mente d’eroe scevera di passioni, la quale divinamente Aristotile diffinisce la buona legge; perché in cotal intelletto consiste il gius, che non ha punto di corpolenza, dalla quale vengono alla mente le passioni; e quivi consistono tutti que’ diritti che non hanno corpo, dov’essi si esercitino, quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi [di] corpolenza, e si dicono «in intellectu iuris consistere». Cosí i romani giureconsulti in forza di essa giurisprudenza, i cui princípi richiamavano dalla provvedenza divina, sentirono ciò che Platone in forza d’una sublime metafisica, nella quale dimostra la provvedenza, intese dell’idee eterne: che, perocché i diritti sono modi di sostanza spirituale, perciò son individui, perché la divisibilitá è propia de’ corpi, e, perocché son individui, son quindi eterni, perché la corrozione non è altro che la division delle parti.