LIBRO SECONDO
Introduzione
Prolegomeni
[1189] [363*] [CMA3] Quindi esce questo gran corollario: che non sia materia della sapienza intiera o sia universale, ciò di che la sapienza riposta [CMA4] de’ filosofi [CMA3] non n’ebbe l’occasioni dalla sapienza volgare [CMA4] de’ poeti; [CMA3] onde l’ateismo, non giá per sapienza, si ha a tenere per istoltezza e pazzia, poiché le prime nazioni, come dimostreremo, in tutte le cose criate videro dèi, e poi i metafisici migliori, [CMA4] quali son i platonici, che ’n questa parte di filosofia furono gli piú sublimi di tutti gli altri filosofi, [CMA3] in tutte le cose criate intesero Dio.
Capitolo Primo
[1190] [366] .... le nazioni si disponessero a ricevere la scienza del vero bene eterno ed infinito, in forza d’una fede sopranaturale, a certi avvisi rivelati da Dio, tutto mente e nulla corpo. Onde, appo gli ebrei, tal’avvisi furon dati da esso Dio o mandati dagli angioli o da’ profeti; appo cristiani, lasciatici da Giesu Cristo e datici ne’ di lei bisogni co’ dogmi della sua Chiesa.
Capitolo Secondo
[1191] [368] [CMA3] Di tal maniera che questa vien ad esser ad un fiato una storia dell’idee, una storia de’ costumi, ch’è tanto dire che delle leggi, ed una storia de’ fatti del gener umano. E vedrassi dalla storia dell’idee o sia delle menti uscir la storia de’ costumi o sia degli animi, e da entrambe uscir la storia delle lingue, e da tutte e tre uscir la storia della natura umana, che, propiamente, non è altro che mente, animo e lingua. E con tal condotta si descriverá la storia universale, che tutt’i dotti confessano mancare ne’ suoi princípi e nella perpetuitá ovvero continovazione, ma sopra un’idea che niuno de’ dotti ha potuto finora disiderare. La quale ci sará scritta da essa volgar sapienza in modo di commentari, ne’ quali le scienze vi tengon il luogo de’ consigli, i costumi quello de’ mezzi di tutto ciò che la natura umana ha operato in questo mondo di nazioni.
Capitolo Terzo
[1192] [371] .... dall’acqua, la cui necessitá s’intese prima del fuoco, .... avesse incominciato l’umanitá. [CMA3] Siccome viaggiatori riferiscono esservi ancor oggi nazioni selvagge che non hanno ancor inteso la necessitá del fuoco. E questa è l’origine delle sagre lavande ....
SEZIONE PRIMA
Capitolo Primo
[1193] [376*] Di piú, perché l’uomo è naturalmente portato a dilettarsi dell’uniforme, com’abbiam veduto nelle Degnitá, perché la mente umana agogna naturalmente di unirsi a Dio, dond’ella viene, ch’è ’l vero uno; e non potendo quelli primi uomini, per la loro troppo sensuale natura, esercitare la facultá (ch’era sotto i loro troppo vigorosi sensi seppolta) di astrarre da’ subbietti le propietá e le forme alle quali le particolari cose, che essi sentivano ed immaginavano, si conformassero, per ridurle alle loro unitá si finsero le favole. E naturalmente appresero per generali veritá quelle che in fatti erano non altro che generi fantastici o unitá immaginarie, o fussero finti modelli, a’ quali riducevano tutte le particolari cose che sentivano o immaginavano o essi stessi facevano, richiamando ciascuna al suo modello al quale si assomigliasse. E ne restarono detti con somma latina eleganza «genus» in significato di «forma» o «guisa» o «maniera» o «modello», e detta «species» in significato di «sembianza» o di «cosa che si assomiglia e rassembra»; e tal acconcezza d’assembramento delle cose fatte alle loro idee o modelli fu detta anco «species» in significazion di «bellezza».
Capitolo Secondo
[La redazione, che questo capitolo ebbe nella SN2, sembra a prima vista totalmente diversa da quella della SN3. Ma, a dir vero, piú che di altro, si tratta di spostamenti. E invero nella SN2 il capitolo constava di tredici paragrafi, che nelle CMA3 divennero quindici, avendone il V. aggiunto uno tra l’XI e il XII e un altro dopo il XIII. Nella SN3, invece, i paragrafi I e II vennero anticipati nel capitolo precedente,
formando parte del capov. 384; gli altri furono combinati e spostati giusta la seguente tabella:SN2 | SN3 |
§ III (sfrondato di molte citazioni erudite) e § IV | § I |
§§ VIII e XI, con giunte che si trovano in parte nelle CMA3 | § II |
Principio del § VI e § V, con una giunta che si trova in parte nelle CMA4 | § III |
Resto del § VI e § VII | § IV |
§ XIII bis (aggiunto, come s’è detto, nelle CMA3) | § V |
§ XI bis (aggiunto nelle CMA3) | § VI |
§§ XII e XIII | § VII |
Restarono fuori soltanto i paragrafi IX e X, riferiti qui tra le varianti].
[1194] [385*] Con tal principio dell’idolatria si è dimostrato altresí il principio della divinazione (ché nacquero al mondo ad un parto); a’ quali due princípi va di séguito quello dei sacrifici ch’essi facevano per proccurare o sia ben intender gli augúri. Da’ quali princípi dovevano cominciare i loro libri Cicerone, De natura deorum; Apollodoro, De origine deorum; Giraldo, De diis gentium; Daniel Classenio, De theologia civili; e ’l Vossio la sua maggior opera De theologia gentilium, e Cicerone gli altri De divinatione; Edone Nehusio, la sua Divinazione sacra e profana; Antonio Borremanzio, De poëtis et prophetis; gli autori De diis fatidicis e De oraculis sibyllinis; e Vandalè, i suoi De devinatione e De oraculis; e finalmente Stuchio, De sacrificiis gentium.
[1195] [389*] IX. — Quivi per alto consiglio della provvedenza ebbe il suo principio il diritto della forza, con la quale Giove legittima il suo regno [CMA3] sopra gli dèi e gli uomini con la gran catena d’Omero che noi qui sopra abbiamo spiegato (il qual diritto [SN2] si celebrò per tutto il tempo divino ed eroico, ond’Achille ripone la sua ragione nell’asta), acciocché gli uomini, fin quando non intendessero ragione, estimassero la ragion della forza, ma infrenata da alcun timore di religione (la qual sola, come abbiam nelle Degnitá veduto, poteva infrenar i violenti di Obbes); siccome per la religione i giganti s’assoggettiscono alla forza di Giove.
[1196] X. — Si scuoprono quindi ancor i princípi ond’ebbero incominciamento tutti i primi regni, che furono la forza e la froda; ma non giá, quali hanno finora stimato i cattivi politici, fatte da uomini ad altri uomini, ma che fecero gli uomini a se medesimi; e sí furono, forza e froda, dalla divina provvedenza permesse a bene del gener umano.
[1197] [392] .... ne dará una teogonia naturale .... sulla quale doveva Esiodo formare la sua e Giovanni Boccaccio descrivere la sua Genealogia degli dèi. La qual teogonia ne dará, quindi incominciando, la cronologia ragionata della storia poetica, che corse tralle nazioni almen un novecento anni innanzi di venire l’anno astronomico, dal qual finor ha cominciato la dottrina de’ tempi.
[1198] [399] .... come si ha nelle greche tradizioni; comincia il secol dell’oro a’ greci e quel di Saturno a’ latini, ne’ quali gli dèi praticavan in terra cogli uomini, la quale fu la prima etá del mondo gentilesco. [CMA4] La qual prima etá qui, come da una sua prima epoca, conforme si è nelle Degnitá divisato, incomincia da Giove e dalla religione degli auspíci ne’ di lui fulmini, da cui debbe incominciare tutta la storia universale. Di che i latini ci serbarono un certo avviso in queste tre voci: «auspicari», «augurari» (per «incominciare») ed «initia» (per dire «consegrazioni» e «incominciamenti» o «princípi»). Cosí i greci poeti .... [CMA3]
Capitolo Terzo
Come da questa debbano tutte l’altre scienze
prender i loro princípi
[1199] Questi sono gli aspetti generali per gli quali questa Scienza può essere riguardata. Ma da questo stesso primo principio di tutte le divine ed umane cose gentilesche, ch’abbiamo truovato dentro questa metafisica del gener umano, questa medesima Scienza sublime ne dará i princípi di tutte l’altre subalterne, le quali la metafisica deve assicurare della veritá di tutti i loro particolari subbietti. Che saranno le prime fila con le quali si tesserá la tela di questo libro e le prime linee con le quali s’incomincia a condurre il disegno della nostra storia dell’idee.
i
[1200] La logica da questa prende le sue prime idee, che si truovano tutte divine, e le prime voci, le quali si truovano tutti parlari mentali spiegati con atti mutoli.
ii
[1201] La morale da questa prende il suo primo principio, ch’è ’l conato, il qual è propio della volontá libera, la qual è ’l subbietto delle virtú e de’ vizi.
iii
[1202] L’iconomica da questa prende il timore della divinitá, ch’è ’l primo principio de’ matrimoni, i quali son il seminario delle famiglie.
iv
[1203] La politica da questa prende il suo subbietto, ché sono due spezie d’uomini che compongono le repubbliche; e incomincia dalla piú nobile di altri che vi comandino, che qui si sono truovati esser que’
pauci quos aequus amavit
Iupiter, a cui appresso seguirá l’altra di altri che v’ubidiscano. Poiché altro non è la politica che scienza di comandare e d’ubidire nelle cittá.
[1204] E qui si compierá il ramo delle scienze attive che proponemmo uscire dal tronco di questa poetica metafisica. L’altro ramo, che pur dicemmo, delle scienze specolative comincia ad uscire da questo tronco stesso con questa serie.
v
[1205] La fisica da questa metafisica prende i suoi princípi fantasticati divini, e ’ncomincia da quello ch’i primi giganti pii appresero:
Iovis omnia plena;
la qual poi con Platone terminò in una fisica divina, da esso ragionata nel Parmenide, nel quale stabilisce l’idea eterna per principio di tutte le cose in tempo.[1206] E la fisica particolare dell’uomo prende quinci i suoi princípi da questi giganti di vasti corpi e d’animi bestiali, da’ quali, come materia, col timore della divinitá incomincia ad edursi la forma delle nostre giuste corporature e de’ nostri animi umani.
vi
[1207] La cosmografia quindi incomincia dal primo cielo, che fu alle prime genti l’altura de’ monti, e dal primo mondo, che fu la loro proclivitá, la qual antichissima idea si conservò da’ latini in que’ loro favellari: «in mundo est» per «in proclivi est», per significar «egli è facile».
vii
[1208] L’astronomia qui comincia dal principe de’ pianeti, ch’è Giove, quando il Cielo regnò in terra e fu tanto benefico al gener umano che n’ebbe il grazioso titolo appo tutte le gentili nazioni di «ottimo».
viii
[1209] La cronologia qui pure da Giove dá incominciamento all’etá degli dèi, ch’è la pianta della nostra Tavola cronologica; e Giove sará la prima delle dodici minute epoche di altrettante divinitá maggiori, le quali serviranno per determinare tal prima etá del mondo aver durato novecento anni.
ix
[1210] E la geografia finalmente, che dalle regioni e misure del cielo accerta quelle della terra, quindi incomincia dalle regioni le quali disegnavano gli áuguri in cielo per prendere quindi gli auspíci di Giove, le qual’i latini dissero «templa caeli», delle quali fu il primo contemplare e la prima contemplazione alla quale attesero i primi uomini al mondo.
[1211] Talché queste nove scienze debbon essere state le nove muse, le qual’i poeti pur ci cantarono esser tutte figliuole di Giove;
e per tutte queste cose istesse ora si restituisce il suo propio significato istorico a quel motto:A Iove principium Musae.
[CMA3]
Capitolo Quarto
Riprensione delle metafisiche di Renato Delle Carte,
di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke
[1212] Laonde, se non s’incomincia da
un dio ch’a tutti è Giove,
non si può avere niuna idea né di scienza né di virtú. Cosí ha facile l’uscita la supposizione di Polibio, il qual dice che, se fusser al mondo filosofi, non sarebber uopo religioni! Perché le metafisiche de’ filosofi debbon andar di concerto con questa metafisica de’ poeti, in questo importantissimo punto, onde dall’idea d’una divinitá sono provenute tutte le scienze c’hanno arricchito il mondo di tutte l’arti dell’umanitá: come questa metafisica volgare insegnò agli uomini perduti nello stato bestiale a formar il primo pensiero umano da quello di Giove, cosí gli addottrinati non debban ammettere alcun vero in metafisica che non cominci dal vero Ente, ch’è Dio.
[1213] E Renato Delle Carte certamente l’arebbe riconosciuto, se l’avesse avvertito dentro la stessa dubitazione che fa del suo essere. Imperciocché, se io dubito se io sia o no, dubito del mio esser vero, del qual è impossibile ch’io vada in ricerca se non vi è il vero Essere, perch’è impossibile ricercar cosa della quale non s’abbia verun’idea. Or, dubitando io dell’esser mio né dubitando del vero Essere, il vero Essere è realmente distinto dall’esser mio. Il mio essere è terminato da corpo e da tempo, che mi fanno necessitá: adunque l’Ente vero è scevero da corpo, e perciò sopra il corpo, e quindi sopra il tempo, il qual è misura del corpo secondo il prima e ’l poi, o (per me’ dire) è misurato dal moto del corpo. E, ’n conseguenza di tutto ciò, l’Ente vero è eterno, infinito, libero. Cosí egli Renato arebbe, come a buon filosofo conveniva, cominciato da una idea semplicissima, che non ha mescolata niuna composizione, qual è quella dell’Ente; onde Platone con peso di parole chiamò la metafisica Ὀντολογία,/
«scienza dell’Ente». Ma egli sconosce l’Ente e ’ncomincia a conoscer le cose dalla sostanza, la qual è idea composta di due cose: d’una che sta sotto e sostiene, d’altra che vi sta sopra e s’appoggia.[1214] Cotal maniera di filosofare diede lo scandalo a Benedetto Spinosa, uomo senza pubblica religione e, ’n conseguenza, rifiuto di tutte le repubbliche, e per odio di tutte intimò una guerra aperta a tutte le religioni. E, non dando altro che la sostanza, e questa esser o mente o corpo, e non terminando né corpo mente né mente corpo, per tutto ciò stabilí un Dio d’infinita mente in infinito corpo, e perciò operante per necessitá.
[1215] Incontro a Spinosa si è fatto dalla parte opposta Giovanni Locke, il quale sullo stesso scandalo del Cartesio adorna la metafisica d’Epicuro, e vuole che tutte l’idee sien in noi per supposizione ed essere risalti del corpo, e sí è costretto a dar un Dio tutto corpo operante a caso. Ma il Locke veda s’ella è per supposizione l’idea del vero Essere, la qual io mi ritruovo aver innanzi l’idea del mio essere, ch’è tanto dire quanto innanzi del mio supposto; la qual, perch’è del vero Ente (essendo del vero bene), mi mena a ricercare nel suo Essere l’esser mio: talché ella non mi è venuta dal mio corpo, del qual io ancor dubito dentro la dubitazion del mio essere. Dal corpo è nato il tempo, e dal corpo e dal tempo, che si misura col moto del corpo (ove non sia mente la qual regoli il moto del corpo), esce il caso.
[1216] Con tali ragioni, se non andiamo errati, abbiamo scoverti manifestamente i paralogismi delle metafisiche che tengono diverso cammino dalla platonica. Perocché quella d’Aristotile non è altro che la metafisica di Platone trasportata dal dialogo al metodo didascalico, che noi diremmo «insegnativo»; siccome Proclo, gran mattematico e filosofo platonico, con un aureo libro portò i princípi fisici d’Aristotile (che sono quasi gli stessi ch’i princípi metafisici di Platone) al metodo geometrico.
[1217] Ora incominciamo ormai a ragionare partitamente delle subalterne scienze poetiche.
Sezione Seconda
Capitolo Primo
[1218] [403] .... che ne dessero le loro origini tutte univoche, come quelle de’ parlari volgari lo sono piú spesso analogiche: quali contese Cesare esserlo ne’ suoi libri De analogia, che scrisse contro Catone, che si era attenuto alla parte opposta ne’ libri De originibus. E ce ne giunse pur ....
[1219] [403*] [CMA4] Talché essendo l’etimologie quelle che ne dánno l’origini delle voci, e le favole furono le prime voci ch’usò la gentilitá, le mitologie poetiche sono appunto quelle che qui noi trattiamo, che ne dánno le vere origini delle favole. [SN2] E questa è la Periermenia o interpetrazione de’ nomi: parte di questa logica poetica, dalla quale doveva quella di Aristotile incominciare.
Capitolo Secondo
[1220] [407] .... Cosí la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per l’armadura, perché la materia è piú sensibile della forma: perocché «aes» per lo «danaio coniato» venne da’ tempi che «aes rude» spendevasi per moneta. Quel nastro di sineddoche e metonimia ....
[1221] [408] L’ironia .... è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di veritá. [CMA4] Onde qui riflettiamo non ricordarci d’aver letto ironia in tutta l’Iliade, e però preghiamo il leggitore ad osservarlo; ché s’è cosí, egli ne dará un grande argomento per la discoverta del vero Omero che si fará nel terzo di questi libri, e che l’Omero dell’Iliade fu a’ tempi della Grecia generosa, aperta, magnanima, e sí molto innanzi all’Omero dell’Odissea, la qual è tutta piena delle simolazioni e doppiezze d’Ulisse.
[1222] [410] .... Tal composizione d’idee fece i mostri poetici: di che abbiamo nella ragion romana che ogni padre di famiglia romano
ha tre «capi», per significare tre vite. Perché «vita» è termine astratto, e ’l capo è la piú cospicua sensibil parte dell’uomo, onde gli eroi giuravano «per lo capo» per significare che giuravano per la vita. Le quali tre vite erano: una, naturale, della libertá; un’altra, civile, della cittadinanza; la terza, famigliare, della famiglia.Capitolo Terzo
[1223] [414] Come gli ateniesi a Solone e gli spartani a Ligurgo attaccarono tante leggi quante dell’uno e dell’altro la greca storia ne narra, delle quali molte non solo non appartenevano loro, ma erano tutte contrarie alle loro condotte. Come a Solone l’ordinamento degli areopagiti, i quali erano giá stati ordinati sino dal tempo della guerra troiana, perocché Oreste del parricidio commesso nella sua madre Clitennestra fu da essi assoluto col voto di Minerva, o sia con la paritá de’ voti; e gli areopagiti infin a Pericle mantennero con la loro severitá in Atene lo Stato o almeno il governo aristocratico: lo che è contrario a Solone ordinatore della popolare libertá ateniese. Ed a rovescio, a Ligurgo, fondatore della repubblica spartana, che senza contrasto fu aristocratica, attaccano l’ordinamento della legge agraria, della spezie onde fu quella de’ Gracchi in Roma, [CMA3] quando il magnanimo re Agide, ne’ tempi piú avvanzati di quella repubblica eroica, volendo comandarvi la legge testamentaria convenevole alle repubbliche popolari (la qual certamente appo i romani precedette di gran tempo all’agraria de’ Gracchi) funne fatto impiccare dagli efori.
[1224] [425] .... appunto come fu brutto Tersite, descrittoci da Omero con le propietá di capoparte di plebe, che sono di dir sempre male de’ principi e di sollevar loro contro i popoli, ed è da Ulisse battuto .... nella Cittá di Dio. Ond’a torto i critici hanno finora ripreso Omero d’aver con gli eroi trammeschiato persone volgari e ridevoli.
[1225] [427] .... i pittagorici .... tutti furono spenti. [CMA3*] Perché il Carme aureo, il quale sotto il nome di Pittagora ci è pervenuto, sa pur troppo di scolastica platonica ultima; i simboli delli pittagorici devon essere stati provverbi enimmatici contenenti massime di sapienza volgare, i quali, per questa logica, devon
essere stati appiccati a Pittagora. Certamente in ciò convengono tutti: che Pittagora non lasciò nulla di sé scritto; e ’l primo, dopo piú secoli appresso, fu Filolao, il quale scrisse di pittagorica filosofia.Capitolo Quarto
[1226] [430] .... oppenioni .... le quali, perocché sono tante e tali, dovrebbono trallasciare di riferirsi. Ma, perché non sospetti il leggitore di noi ciò che molti autori fanno (e particolarmente oggidí), i quali, per promuovere le sole cose scritte da essi, non solo non espongono alla libertá di chi legge le cose scrittene dagli altri, ma anco vietan loro di leggerle, ci piace, per soddisfarlo, arrecargliene qualcuna. Come quella che, perocché a’ tempi barbari ritornati la Scandinavia ....
[1227] [431] Perché da questi princípi .... doveva Aristotile incominciare la sua Periermenia o sia «interpetrazione de’ nomi», come sopra si è detto, ché cosí non sarebbe in ciò stato contrario a Platone; e Platon doveva andarla a ritruovare nel Cratilo, ove con magnanimo conato il tentò e con infelice evento nol conseguí. E generalmente da questi princípi tutti i filosofi e tutti i filologi ....
[1228] [433] .... di che certamente dee intendersi la legge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet mancipiumque», [CMA3] cioè che parlò de’ campi dati da’ signori a’ plebei, per gli quali questi restarono a quelli «nexi», obbligati: talché la consegna di tal nodo, ch’abbisognava alla mancipazione, era una mutola professione che ’l podere il quale si consegnava era de’ nobili; ond’essi plebei furono nessi de’ nobili infino alla legge petelia, la qual fu comandata nel CCCCXIX di Roma. Le quali cose qui accennate molto rileveranno per intendere la natura dell’antiche revindicazioni, e se ne deve bene ricordare [il leggitore] per intendere la natura eterna ed universale de’ feudi; delle quali cose appieno ragionerassi nel libro quinto. Con l’istessa mente degli antichi latini gl’italiani ....
[1229] [436] .... la loro sapienza riposta sotto de’ geroglifici. Onde s’intenda con quanto di scienza scrissero Giamblico De mysteriis e Valeriano De hieroglyphicis aegyptiorum!
[1230] [439*] E dovettero tali caratteri pistolari essere come i geroglifici chinesi, ch’ascendono al numero di cenventimila, co’ quali
s’intendono i popoli, in quell’ampissimo regno, tra loro di lingue articolate diverse; appunto come nelle forme arabiche de’ numeri e de’ pianeti e nelle note della musica convengono di sentimento tutte le lingue diverse d’Europa. Di lettere sí fatte diciamo ch’ogni nazione si ritruovò le sue a suo piacere, non giá per forme, ma per segni de’ suoni umani articolati. E serbiamo la tradizione comunemente ricevuta da’ fenici, però secondo il giudizio disgiuntivo di Tacito: ch’eglino, o ricevute da altri o ritruovate da essi, sparsero le lettere nell’altre nazioni. Ed ammendando qui la boria e delle nazioni e de’ dotti, restrigniamo tutte l’altre nazioni alla sola greca e quindi alla latina: perché dovetter essere caratteri mattematici ovvero figure geometriche, ch’i fenici ricevettero da’ caldei e se ne servirono per forme de’ numeri, come, maiuscole, restarono per tali usi a’ greci e a’ latini. E i greci, con sommo pregio d’ingegno, le trasportarono, piú che a’ segni, alle forme de’ suoni umani articolati; da’ quali l’appresero poscia i latini, le quali il medesimo Tacito osserva essere somiglianti all’antichissime greche. Le quali forme, cosí, riuscirono le piú belle e le piú pulite di tutte l’altre, siccome i greci ingegni furono gli piú ben intesi e gli piú dilicati di tutte le nazioni.[1231] [444] .... elleno per queste lor origini naturali, debbon significare naturalmente. Imperciocché ogni parola volgare dovette incominciare certamente da alcuno d’una nazione, il quale, con atto o corpo ch’avesse natural rapporto all’idea ch’esso voleva comunicare ad altrui e, come mutolo, dargliene con tal atto o corpo ad intendere che cosa egli con tal voce volesse dire, e sí avere naturale l’origine, e perciò significare naturalmente. Lo che si osserva nella lingua latina, la qual è piú eroica ....
[1232] [449] .... E naturalmente nacque il canto, .... e nacque con voci monosillabe, siccome sono monosillabe nella musica le sei note del canto. Lo che, qui detto, quindi a poco recherá molto uso ....
[1233] [453] .... dall’indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi da’ medesimi addottrinati. Lo che si conferma con l’ellipsi, che per lo piú supplisce i verbi, che dee essere il principio dell’ellipsi sanziana. E pur i verbi, che sono i generi di tutti gli altri ....
[SN2]Capitolo Quarto bis
Dimostrazione della veritá della religion cristiana
[1234] E qui nasce una dimostrazione piú invitta di quante mai si son fatte della veritá della cristiana religione, la qual abbiamo sopra promesso. Ché le radici de’ verbi della lingua santa mettendo capo nella terza persona del numero del meno del tempo passato compiuto, dovetter i patriarchi, che la fondarono, dare gli ordini nelle loro famiglie a nome di un solo Dio; onde la Scrittura santa è piena di quella espressione «Deus dixit». Che dev’essere un fulmine da atterrare tutti gli scrittori che hanno oppinato gli ebrei essere stata una colonia uscita da Egitto; quando, dall’incominciar a formarsi, la lingua ebrea ebbe incominciamento da un solo Dio.
Capitolo Quinto
[1235] [462] .... ed affermano gli unni fussero stati cosí detti che le incominciassero tutte da «un». Lo stesso hassi a congetturare de’ vandali: come gli olandesi incominciano tutti i casati da «van»; onde è forte congettura ch’essi sieno una colonia de’ vandali, e che la prima natural necessitá di ritruovar i nomi fu per distinguersi tra loro i casati, che son i «nomi» propiamente a’ latini. Finalmente si dimostra che le lingue incominciaron col canto .... fecero i padri della Chiesa latina (truoverassi il medesimo della greca), incominciando da san Gregorio, talché le loro prose sembrano cantilene.
[1236] [469] .... Acilio Glabrione quest’altra: «Fudit, fugat», ecc.; altri quella: «Summas opes qui regum regias prosternit». [CMA3] I frammenti della legge delle XII Tavole .... «Pietatem adhibento», e con alquanto di licenza la seguente: «Opes amovento». Onde, al riferire di Cicerone medesimo ....
[1237] [471] .... Guntero, Guglielmo pugliese ed altri. Il Genebrando scrive essere stato composto in versi ritmici l’Alcorano, che fanno un canto troppo arioso. Senza contrasto, innanzi d’Omero non vi ha memoria di verso giambico, che succedette al tempo de’ primi poeti tragici, onde fu naturale ch’entrasse nella tragedia. Il qual errore comune fu preso per legge di dover entrare nella commedia,
quando giá si era ritruovata la prosa. Abbiam veduto i primi scrittori nelle novelle lingue d’Europa .... e sí, per inopia di verbi, avesser unito essi nomi. Talché l’origine delle voci composte è la medesima che quella che noi sopra abbiamo dimostrato dell’ellipsi e del torno, nel qual i tedeschi sono tanto piú raggirati de’ latini quanto i latini lo sono piú di essi greci. Che devon esser i princípi di ciò che scrisse il Morhofio in Disquisitionibus de germanica lingua et poësi; e ’l Loccenio, che scrisse de’ poeti tedeschi che si dissero «scaldi» o «scaltri», seguíto dal Wormio in Appendice Literaturae runicae. E questa sia una pruova ....[1238] [472] Ed ecco i princípi della poesia, dentro la metafisica e logica di essi poeti, ad evidenza dimostrati, non che diversi, tutti contrari a quelli che tutti i filosofi e filologi han finor immaginati; e dentro di essi scoverte le origini delle lettere e delle lingue, delle quali tutti, e filologi e filosofi, affatto avevano disperato. [CMA3] E questa discoverta dell’origine della poesia, che sará la miniera feconda di tutte l’altre le quali si faranno da questa Scienza, ella, come lavoro del suo disegno, esce dalla degnitá xxviii incominciando fin alla xxx, dalla xxxii fino alla xl, dalla lxii fin alla lxiv.
Capitolo Sesto
[1239] [476] .... ed ancor oggi conservano una volgar arte d’indovinare. Ed oppinaron il cielo esser templo di Giove, dove credevan eternarsi gli re con le loro stupende piramidi.
[1240] [478] De’ romani è famoso quel verso di Ennio: «Aspice hoc sublime cadens» (in significato di «pendens», cioè sospeso sulle colonne de’ monti, delle quali da’ greci due, Abila e Calpe, ne restaron dette colonne d’Ercole, e dagli arabi il diede Maometto a creder a’ turchi), «quem omnes invocant Iovem» ....
[1241] [481] Ma gli ebrei adorarono il vero Altissimo, ch’è sopra il cielo, entro il chiuso del tabernacolo: onde veda il Marshamo se gli ebrei presero dagli egizi il costume di fabbricar templi al vero Dio.
[1242] [482] .... «moure bleu» per «muoia Iddio». [CMA3] E qui è tutto spiegato ciò che si è sopra detto in accorcio: che l’idea del diritto nacque congenita con quella della provvedenza divina, perché il primo gius che nacque al mondo fu quello comandato dal vero Dio ad Adamo, e da Giove a’ primi fondatori delle nazioni gentili.
[1243] [483] .... contrasegnare con lettere o con imprese, bestiami o altre robe da mercantare, per distinguere ed accertarne i padroni. Le quali, a’ toscani dette «marche», si dissero «notae» a’ latini, a’ quali significarono anco lettere prime accorciate dalle loro intiere voci; e «nota», ove portava ignominia o infamia, si disse anco da’ medesimi «insigne» in sentimento di sfregio: per lo cui contrario senso di onore l’impresa si dice «insegna» agli italiani.
[1244] [484] .... o tre atti di falciare significano propiamente «tre anni». Ove, se ben si rifletta, cotal’imprese erudite deon esser trasformazioni poetiche, come «una torre» per Aiace, che fu detto «torre de’ greci», nella qual «Aiace» diventa «torre»; talché, essendo l’imprese erudite non altro che metafore dipinte, tutte le metafore deon essere poetiche trasformazioni.
Capitolo Settimo
[1245] [498] .... «poesie in un certo modo reali». [CMA4] Onde, se gli autori delle nazioni furon i fanciulli del gener umano, essi dovetter esser i poeti c’han fondato il mondo dell’arti, com’i filosofi, che vennero lunga etá appresso, s’innalzarono a meditare sopra il mondo delle scienze, onde fu affatto compiuta l’umanitá.
[1246] [CMA3] Ed è in ciò da ammirare il ricorso che fanno le nazioni (del quale, in tutta la distesa di tal materia, ragioneremo nel libro quinto): che a’ tempi barbari ritornati, tutte le invenzioni massime si ritruovarono [CMA4] o da idioti o da barbari. [CMA3] Come la bussola nautica, da un pastore d’Amalfi, che compié l’arte nautica, ne ha dato lo scuoprimento del mondo nuovo e quasi il compimento della geografia; e pure nella magnanima audace impresa si segnalarono tre ingegni, due italiani, che furono Cristoforo Colombo genovese ed Americo Vespucci fiorentino, che ha dato il nome a tutta quella gran quarta parte del mondo, e Ferdinando Megaglianes portoghese, ivi penetrando lo stretto, a cui ha lasciato eterno il suo nome, con la sua famosa nave detta della Vittoria, girò col sole tutta la terra. La nave con le sole vele, [CMA4] che n’ha dato una nuova arte navale, [CMA3] perocché gli antichi l’ebbero tutte con vele e remi, ritruovate in Italia nelle maremme del Lazio, onde serbano il nome di «vele latine». Gli occhiali, ritruovati pur in Italia da [Salvino degli Armati] fiorentino,
de’ quali privi, gli antichi con le guastadette piene d’acqua soccorrevano alle bisogne degli occhi. Il cannocchiale, ritruovato da un idiota occhialaio olandese, il qual perciò con aria latina chiamano «conspicilla batavica»; che ne ha dato al gran Galileo, pur italiano, la discoverta di nuove stelle, il compimento dell’astronomia ed un altro sistema mondano. La polvere e lo schioppo, ritruovati in Germania da un tal Bertoldo; onde poi nacque il cannone, la prima volta di cuoio, pur in Italia inventato in una guerra tra genovesi e viniziani, che ne ha dato una nuova bellica. Il lambicco, ritruovato dagli arabi, da’ quali ha la voce «alembich», il qual n’ha dato questa spargirica, tanto disiderata dagli antichi, come l’aveva ne’ suoi maggiori voti Galeno, e n’ha fruttato la chimica. Pur ritruovato degli arabi, ricevuto da tutte le nazioni, sono le dieci figure de’ numeri, c’hanno facilitato l’aritmetica sopra quella degli antichi, i quali le somme sformatamente numerose contavano per punti. La carta, ritruovato di questi tempi, e gli piú vogliono nell’Italia, e la stampa, ritruovata in Magonza (contesa a torto alla Germania dall’Olanda, la qual pretendeva essersi ritruovata in Arlem), che ne ha dato la soprabbondante copia di libri, la quale oggimai n’opprime. L’orologio, pur ritruovato nella Germania, quanto ingegnoso tanto necessario per osservare in ogni luogo, in ogni tempo, l’esatte misure del tempo. Filippo Brunelleschi fiorentino non arebbe ritruovato la cupola di Santa Maria de’ fiori in Firenze, se avesse ceduto agli architetti antichi, i quali tutti gliel’avevano contrastato, che produsse una nuova architettura. La circolazione del sangue n’ha dato nuovi sistemi di [CMA4] notomia e di [CMA3] medicina; la quale, benché si contenda tra l’Inghilterra e l’Italia, questa d’averla ritruovata Paolo Sarpi e quella Guglielmo Arveo, certamente Marco Polo, gentiluomo viniziano, riferisce averla ritruovata, insieme con la stampa, [CMA4] discoverta innanzi, [CMA3] nella gran Tartaria.[1247] Tante e sí grandi invenzioni barbare, che poi destarono gl’ingegni de’ dotti a meditare tante bellissime ed utilissime scienze, se giugnessero a’ lontani secoli avvenire senza queste distinte notizie di storia certa, direbbono senza dubbio i vegnenti ch’i loro ritruovatori fussero stati ricolmi dell’innarrivabile sapienza barbaresca dell’Ornio, siccome finora noi abbiam creduto de’ Zoroasti, de’ Berosi, de’ Trimegisti, degli Atlanti e degli Orfei; e, come da quelli era stata la Grecia, cosí da questi fussesi illuminata la
Francia, ch’aprí la famosa scuola parigina agli studi della piú sublime teologia, tanto piú ch’andò ad insegnarlavi dall’Italia il famoso Pier lombardo, detto il «maestro delle sentenze», e vi lavorarono sopra acconci sistemi di sottilissima filosofia un Giovanni Dunz ed un Guglielmo Ocamo da Inghilterra ed un san Tommaso d’Aquino da Italia.[1248] Da sí grave ragionamento, che tratta di ricorso di nazioni, fuori d’ogni nostro proposito esce di fianco la risposta al libro del francese, il quale con tanta sicurezza porta questo problema in fronte: Se l’altre nazioni d’Europa abbiano pregio d’ingegno. Forse ciò avviene perché gl’ingegni delle nazioni sono come quelli de’ terreni, i quali, lunga etá incolti, poi coltivati, dánno frutti maravigliosi per grandezza, buono succo e sapore, e poi con la lunga e molta coltivazione gli rendono piccioli, poco sostanziosi e sciapiti? e che perciò da’ latini la facoltá ritruovatrice della mente umana fu detta «ingenium», quasi «ingenitum», che sia «natura», come dissero «ingenium caeli», «ingenium soli»; e tanto non si acquista e migliora che s’infievolisce e si disperde con la coltura delle scienze e dell’arti?
[1249] [499] [CMA3] Questa storia dell’umane idee, pruovata con l’antiche e ripruovata con le moderne nazioni, ci vien a maraviglia confermata dalla storia della filosofia, [CMA4] la quale lo Stanleo, come noi qui il facciamo in questa parte della logica, doveva filosoficamente narrare. Che la prima maniera ch’usarono gli uomini ....
[1250] [500] .... (tanto i primi popoli eran incapaci d’universali!). Le quali le menti cortissime di que’ primi uomini non potevan affatto intendere, e solamente le potevan sentire a certe comuni utilitá universalmente richieste da intieri comuni d’uomini, qual fu la prima legge agraria che nacque al mondo, com’appresso dimostreremo. Del rimanente, non intendevano il bisogno delle leggi senonsé fussero succeduti i fatti che domandavanle; come il re Tullo Ostilio apertamente il professa sulla storia romana, ove dice di non sapere che pena s’appartenga ad Orazio, accusato d’aver ucciso la sua sorella.
SEZIONE TERZA
Capitolo Unico
[1251] [507] .... le mogli erano a luogo di figliuole de’ lor mariti e di sorelle de’ lor figliuoli, ed appo molte nazioni barbare le mogli non meno che i figliuoli sono da’ lor mariti trattate da schiave. Finalmente, per tal prerogativa degli auspíci appo le prime nazioni, dovetter i matrimoni incominciare non solo con una sola donna ....
[1252] [508] .... Bacco nato da Semele fulminata; chiaro, quanto i due anzidetti, Perseo fatto con Danae da Giove cangiato in pioggia d’oro, per significare la gran solennitá degli auspíci con una pioggia di fulmini. Questo fu il primo motivo ....
[1253] [509] La seconda solennitá è che le donne si velino .... Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni, anco dagli ebrei; e i latini ne diedero il nome ....
[1254] [510] .... E dopo le prime terre occupate da’ giganti con ingombrarle coi corpi [CMA3] e con le mani, come appunto i pittori dipingono i giganti con le mani incatenate a terra sotto de’ monti, le mogli solenni si dissero «manucaptae».
[1255] [512] Onde Venere eroica .... si cuopre la vergogna col cesto dal quale furon detti da’ romani «incestuosi» i congiugnimenti vietati da strettezza di sangue; il qual cesto, poi, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl’incentivi della libidine. [CMA3] Ma forse meglio sará, alla maniera di Varrone, dar a cotal voce origine natia, e che le nozze contratte tra gli troppo stretti di sangue si dicano «inceste» perché sieno troppo caste, siccome la particella «in» per un gran numero di voci non toglie ma accresce il sentimento. Perché le prime nozze dovetter essere tra fratelli e sorelle, ch’avevano la comunanza dell’acqua, che faceva la castitá delle nozze, come quindi a poco diremo. Dipoi, essendosi propagata l’umana generazione, tal castitá fu soverchia, e, per piú propagarsi il gener umano, proibita. Alla stessa fatta poi, corrotta la severa storia degli auspíci ....
[1256] [513] .... in tal sentimento «heri» si dissero da’ latini, [CMA3] e con perpetuitá cosí restaron detti nel comandare, siccome costantemente s’osserva nelle commedie da’ servi dirsi «heri» i loro padroni. E ’l patrimonio del padre di famiglia difonto, che con voce natia latina era stata detta «familia» nella legge delle XII Tavole, poi da quest’origine greca restò detta «hereditas», che dapprima dovette significare «sovrana signoria», siccome tra gli dèi è signora e regina Giunone; e da essa legge delle XII Tavole .... e i figliuoli non meno che gli schiavi furono compresi sotto il nome «rei suae», anzi tutta la famiglia venne intesa sotto la voce «pecuniae», com’altri leggono quel capo con le voci «pecuniae tutelaeve». Lo che troppo gravemente appruova .... la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Per cotal signoria dovettero le madri di famiglia dirsi «dominae» da’ romani dalla voce «domi», ond’è «servare domi», «guardar la casa», perocché il dover iconomico delle madri di famiglia è di comandar e conservar nelle case; e quindi «donna», in sentimento di «signora», fu detta agl’italiani, «dueña» agli spagnuoli, «dame» a’ francesi. Le qual’origini di cose e di voci stando cosí, tanto dovette a’ greci significar «eroe» quanto «signore», e le repubbliche «eroiche» lo stesso che repubbliche «di signori», quali sono e si dicono le repubbliche aristocratiche.
[1257] [518-9] Tal morale divina finalmente diede a’ primi uomini quella pratica sperimentata, utile per tutti i tempi appresso ed assistita dalle ragioni delle migliori filosofie, di commettersi gli uomini tutti alla divina provvedenza e stimar bene tutto ciò ch’ella ci para davanti. Della morale eroica de’ tempi ultimi ragioneremo nella Discoverta del vero Omero.
SEZIONE QUARTA
Capitolo Primo
[1258] [521] .... Talché essi duumviri venivan ad essere quasi leggi vive e parlanti, [CMA3] come poi, ritruovate le lettere volgari, propiamente «legislatori» si dissero i consoli, per cagion d’esemplo, i quali dal senato portavano le leggi al popolo, le quali esso volesse comandare.
[1259] E qui sia lecito far una digressione a Tribuniano, il quale nell’Istituta vuole che la divisione del diritto romano in iscritto e non iscritto sia venuto da Grecia in Roma, cioè da Atene, che, come repubblica popolare, scriveva le leggi, e da Sparta, che, come repubblica aristocratica, osservava le costumanze. E ciò che fu, è e sará civil natura di tutti i popoli di vivere finalmente con costumanze e con leggi — perché, innanzi di ritruovarsi le lettere volgari, la divina provvedenza aveva ordinato che vivessero con costumanze, e poi, ritruovate le lettere, vivessero anche con le leggi, siccome l’avvertimmo nell’Annotazioni alla Tavola cronologica (onde il gius naturale, che precorse al civile in tutte le nazioni, egli da’ giureconsulti si diffinisce «ius divina providentia hominum moribus constitutum») — i romani il dovettero apparare da’ greci! Il qual errore, com’altri quanto numerosi tanto egualmente gravi, è germogliato da quello: che la legge delle XII Tavole fusse venuta da Grecia in Roma, come farem vedere nel Ragionamento ch’abbiam promesso nel fine di questi libri. Qui ora solamente s’avvertisca quanto nulla o assai poco Tribuniano, Teofilo, Doroteo, che composero l’Istituta e dovetter essere gli piú riputati di tutti gli altri greci giureconsulti di que’ tempi, furon essi filosofi, che da un errore cosí balordo incomincian a trattare de’ princípi della giurisprudenza. S’aggiugna che furon ignorantissimi delle cose romane. E finalmente faccia il cumulo che presero a trattar di leggi concepute in lingua straniera; d’intorno alle quali la cosa quanto necessaria tanto da Cuiacio, ne’ Paratitli de’ Digesti, è riputata la piú difficile, ch’è la diffinizione de’ nomi
di legge, la qual esce da essa interpetrazione delle parole. Per le quali cagioni tutte s’intenda che guasto hanno essi dato alla giurisprudenza romana con irreparabil danno, avendo fatti in minutissimi brani i libri de’ romani giureconsulti, i quali se avessero lasciati intieri tutti uniti in un corpo, altre testimonianze che marmi e medaglie arebbon avuto i filologi, altri lumi i filosofi, per iscuoprire quelli le romane antichitá e questi la natura di questo mondo di nazioni! Lo che Bacone da Verulamio, tra perché fu filosofo e non filologo, e perché gl’inghilesi nulla o poco curarono la romana giurisprudenza, non seppe nemmeno disiderare; e que’ pochi canoni, che dá d’intorno alla scienza delle leggi nel suo aureo libro De augumentis scientiarum, non hanno né ’l nerbo né ’l fondo c’hanno gli altri disidèri e discoverte delle quali si adorna il suo Novus orbis scientiarum.[1260] [530*] [CMA2] Ma perché è costume comune delle nazioni ch’i plebei, perché naturalmente ammirano la nobiltá, ne prendono i favellari come l’usanze, ed al contrario i nobili, perché naturalmente voglion esser distinti nelle cittá, altri e altre di nuovo ne truovano (la qual dee essere la gran cagione delle differenze delle parole in ciascuna lingua, le quali quanto sono lo stesso nella significazione tanto nel suono elleno son affatto diverse); [CMA3] e perché tra’ contadini come l’usanze cosí gli antichi favellari piú si conservano: cosí [CMA2] la voce «filius», la quale nel principio fu vocabolo eroico, e perciò quello che ’n giurisprudenza si dice «vocabulum iuris», poscia, divolgatosi nella plebe romana, passò a significare i figliuoli naturali ....; i nobili, per distinguersi, presero ad usare la voce «liberi», [CMA3] con la quale parola parla la legge delle XII Tavole, ond’è vocabolo ora di legge e comprende di qualunque grado i nipoti, i quali, naturalmente, non sono figliuoli.
[1261] [545] [CMA3] Appresso, menando innanzi la stessa maniera di pensare, dovettero dire «poma d’oro» prima il latte e dappoi le belle lane, che pur sono frutti di natura, con quest’ordine avvertiti dopo il frumento, perché appresso si mostrerá la pastoreccia esser venuta dopo la villereccia. Quindi appo Omero si lamenta Atreo che Tieste gli abbia rubato le pecore d’oro; e gli argonauti predarono il vello d’oro da Colco, ed Ercole faceva bottini di pecore e capre d’oro: dal qual pregio e carezza i poeti, delle loro amate donne, dissero «aureas papillas». Perciò lo stesso Omero appella con perpetuo aggiunto i suoi re ....
[1262] [547] [CMA3] Tanto vi volle di tempo che l’idea della carezza e del pregio passasse dall’oro frumento al metallo! Dallo che si raccogliono due bellissimi corollari. De’ quali uno è che non bisogna piú travagliarsi i mitologi a dire con molta serietá molte ciancie per giustificare d’avarizia, di sfacciatezza e d’ingratitudine un valoroso eroe, Diomede, che sembra avaramente voler cangiare il suo scudo di ferro con quello d’oro di Glauco, sfacciatamente fargliene la domanda, e senza grado alcuno nel riporta cangiato. L’altro è che la divisione dell’etá del mondo per gli quattro metalli, cioè d’oro, d’argento, di rame e di ferro, è ritruovato de’ poeti de’ tempi bassi, della quale non vi ha niun luogo appo Omero che ne faccia alcuna menzione. Perché quest’oro poetico diede a’ greci il nome dell’etá dell’oro ....
[1263] [550] .... cioè di sanginelli, sambuchi, che finoggi ne ritengono e l’uso e ’l nome, e di quella che pur dagl’italiani si dice «erba santa»; dette cosí dal sangue degli uccisi .... quella parte della legge che minaccia la pena a’ di lei trasgressori. [CMA4] Sí fatta istoria delle prime vervene (ché cosí pure si chiamarono tali erbe ch’adornarono i primi altari del gentilesimo) ella ci dimostra che gli altri popoli del Lazio celebravano privatamente lo stesso costume de’ romani di tenere sí fatte erbe per sante. Ch’è quello che qui pruoviamo generalmente; che il diritto natural delle genti ....
[1264] [552] E ’n questi princípi doveva dar Aristotile ed altri c’hanno scritto della dottrina iconomica, che, per difetto di questa Scienza, essi non poterono vedere per la parte de’ figliuoli, e molto meno per l’altra de’ famoli. Perché tutti i filosofi, ingannati da’ filologi, stimarono le famiglie nello stato di «natura» essere state di soli figliuoli ....
Capitolo Secondo
[1265] [553] .... uccidevano i violenti ch’avevano violato le loro [CMA3] arate terre. Che dovett’essere la prima violenza ingiusta fatta contro l’umana societá, perocché le violenze innanzi fatte nelle risse che produceva l’infame comunione delle cose e delle donne non erano state né giuste né ingiuste, a cagion che non si eran ancora gli uomini associati. E ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti ....
[1266] [557] .... E con una di queste famiglie dovette Abramo far guerre co’ re gentili. [CMA4] Cosí si può far verisimile la storia romana d’intorno alla calogna da Appio decemviro tramata contro Virginia, ch’ella fusse sua schiava, perché in que’ tempi i plebei erano come schiavi de’ nobili.
[1267] [564*] Ma i gramatici latini, ignari di quest’origini di cose, che dovevano dar lor la scienza dell’origini delle voci, essendo lor pervenuta la voce «lucus» in significazione di «bosco sagro» (perché ne’ primi tempi con aspetto di sagre si guardavano tutte le cose profane), ed osservando che folti fronzuti arbori con dense ombre facevano le delizie de’ boschetti sagri, si finsero l’antifrasi con cui fosse «lucus» stato detto perché «non lucet». Come se gli autori delle lingue, ch’erano tutti senso quando le si formarono, come sta appiena sopra dimostro, avesser dato i nomi alle cose dalle loro negazioni, le quali non lasciano vestigio in esso intelletto, tanto non posson fare impression alcuna ne’ sensi!
[1268] [565-6] .... pei quali forse fu immaginata Venere maschia, natane in mente de’ poeti eroi la fantastica idea dal veder essi quant’erano brutti, laidi, sozzi, irsuti, squallidi e rabuffati gli uomini empi che si rifuggivan a’ lor asili: nel quale stato sarebbono degni d’andare alcuni dotti con la loro sfumata letteratura, a’ quali dovrebbe far capo Bayle, che sostiene che senza religione si possa vivere, e che si viva di fatto, [in] umana societá. Di questa bellezza, e non d’altra, furono vaghi gli spartani .... come osserva Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea. [CMA4] E con la stessa eroica propietá Orazio dovette dire «infame monstrum» la regina Cleopatra, maritata a Marc’Antonio senza aver con lui il gius divino de’ romani auspíci comune.
SEZIONE QUINTA
Capitolo Primo
[1269] [582] .... e per tutto ciò naturali obbligazioni. [CMA3] Né le leggi romane s’impacciaron unquemai delle nazioni libere poste fuori del lor imperio, [CMA4] né loro apparteneva impacciarsene, le quali tutte essi stimavano barbare. Ch’anzi tal paterna potestá degli antichi romani ha del barbaro, e quella che si celebrò sotto gl’imperadori hassi a tener per umana.
[1270] [593] .... i vagiti di Giove bambino ...., che Saturno (il qual dee esser plebeo) volevasi divorare, per significare che con una fame di disiderio ne bramava il dominio de’ campi; dal quale nascondimento i latini gramatici, indovinando, dissero essere stato appellato Latium.
Capitolo Secondo
[1271] [601] .... tutti i regni eroici furono di sacerdoti, quali oggi sono nell’Indie orientali i regni de’ bonzi. I quali feudi sovrani ....
[1272] [603*] Di queste cose dovevano avere la scienza gli eruditi interpetri, ch’empiono tutte le carte del famoso «ius quiritium romanorum», e non seppero nulla de’ suoi princípi, perché trattarono le leggi romane senza veruno rapporto allo stato da cui, come prendono la forma, cosí debbon avere la lor vera interpetrazione le leggi. Ma, per ciò ch’appartiene al nostro proposito, per queste ed altre ragioni ch’a’ luoghi lor usciranno, si convince d’errore Oldendorpio, che credette i nostri feudi essere scintille dell’incendio dato da’ barbari al diritto romano; perché ’l diritto romano, come d’ogni altro popolo, è nato da questi princípi eterni de’ feudi. Si convince d’error Bodino, ove dice che i feudi sovrani soggetti ad altri sovrani sono ritruovati de’ tempi barbari, intendendo i secondi a noi vicini; perch’è pur troppo vero di tutti i tempi barbari ne’ quali da sí fatti feudi nacquero tutte le repubbliche
del mondo. [CMA3] Si riprende di falsa oppenione Cuiacio, il qual tiene cotal materia di feudi per vile; la quale nelle sue cagioni è tanto nobile e luminosa, ch’indi, nonché la giurisprudenza romana, illustra i suoi princípi essa dottrina politica, ch’è la regina di tutte le scienze pratiche.[1273] [611*] Dalla discoverta di tal’ospiti eroici si può facilmente intendere il trasporto di fantasia, per lo quale Cicerone negli Ufici vanamente ammira la mansuetudine degli antichi romani, che col benigno nome di «ospite» chiamavano il nimico di guerra. A cui affatto somigliante sono due altri: uno di Seneca, ove vuol pruovare che debbano i signori usare umanitá inverso gli schiavi, perocché gli antichi gli chiamarono «padri di famiglia»; l’altro è di Grozio, che, nell’annotazioni a’ libri De iure belli et pacis, con un gran numero di leggi di diverse barbare nazioni d’Europa crede dimostrare la mitezza delle antiche pene dell’omicidio, che condannano in pochi danai la morte d’un uomo ucciso. I quali tre errori escono dalla sorgiva di tutti gli altri che si sono presi d’intorno a’ princípi dell’umanitá delle nazioni, la quale è stata da noi additata tralle prime delle nostre Degnitá; perché tali etimologie e tali leggi dimostrano la fierezza de’ primi tempi barbari anzi che no, ne’ quali trattavano gli stranieri da nimici di guerra, i figliuoli a guisa di schiavi, come si è sopra veduto, e tenevano cotanto a vile il sangue de’ poveri vassalli rustici, che con la lingua feudale si dicevano «homines», di che si maraviglia Ottomano come abbiam accennato sopra.
Capitolo Quarto
[1274] [624] [CMA3] Tanto che la βουλή e l’ἀγορά .... dovetter essere tra’ romani le ragunanze curiate .... e le ragunanze tribunizie. D’una delle quali Pomponio fa menzione ove narra la legge con la quale Giunio Bruto pubblicò alla plebe romana l’ordinamento fatto da’ padri d’intorno agli re per sempre discacciargli da Roma. Sopra la nominazione della qual legge dicono tante inezie erudite i colti interpetri della romana ragione; delle quali quella non è punto da passare senza castigo: che cotal legge fusse stata appellata «tribunizia», [CMA4] quasi «Bruti Iunia»; e piú quell’altra: [CMA3] perocché Giunio Bruto, che comandolla, era allora tribuno de’ celeri, ch’ora si direbbe capitano delle guardie del corpo
del re. Con la quale sciocchezza vengon a dire che Bruto, il quale con tal legge comanda che sia spento eternalmente in Roma anco il nome di re (onde a Tarquinio Collatino, di tanto offeso dal figliuolo del Superbo, quanto fu la violenza dell’adulterio che ne patí e la morte che se ne diede la sua amabilissima casta e forte moglie Lucrezia, non per altro fece deponere il consolato che perché aveva il casato Tarquinio), avesse appellato tal legge da un maestrato che con l’armi ne aveva guardato la persona: quando a’ dittatori, ch’appresso, nelle bisogne pubbliche le quali gli richiedevano, con qualitá reale monarchica si crearono, si dava un maestrato che dovevane guardar le persone, ma per l’odio del nome reale [lo] dissero «maestro de’ cavalieri»; e, per riguardo della sola religione, superstiziosa delle parole [CMA4] e delle formole consagrate, [CMA3] «re delle cose sagre» (quali con Aristotile vedemmo essere stati gli re eroici, e perciò anco stati lo erano gli re romani), restò un nome attaccato al capo de’ feciali o sia degli araldi, [CMA4] i quali oggi, nella barbarie ricorsa, si veggono vestir le dalmatiche e diconsi «re dell’armi» e, come or sono questi, [CMA3] cotanto avvilito, che ’n tutta la storia romana appresso non se ne legge altro che ’l nome. Errore affatto somigliante a quello con cui han creduto [CMA4] essere stata appellata col nome, odiosissimo a’ romani, di «regia» [CMA3] la legge con la quale Tribuniano vaneggia aver il popolo romano trasferito il suo libero sovrano imperio in Augusto: della qual favola nel fine di questi libri, come abbiam sopra promesso, terremo un particolare ragionamento.[1275] [626] .... ed all’incontro tanto «plebeo» quanto «ignobile». [CMA3] Ma, dappoi che i plebei cominciaron a ragunarsi per comandar l’esiglio di chiari uomini nobili, ch’erano gravi alla loro libertá naturale, come avevano incominciato a farlo con Marcio Coriolano, indi in poi si disse «maximus comitiatus» la ragunanza grande de’ nobili e de’ plebei; della qual voce si serve la legge delle XII Tavole. Il qual superlativo porta necessariamente di séguito la ragunanza minore, ch’era la tribunizia de’ plebei, e la maggiore, ch’era la curiata de’ nobili. Ma, poi che Fabio Massimo introdusse il censo pianta della libertá popolare ...., il qual censo distingueva il popolo romano per tre ordini, secondo le facultá ....
[1276] [626*] [CMA3] La qual veritá si dimostra con un luminoso esemplo della casa Appia, la piú nobile di tutte le patrizie
romane, la qual da Regillo era fin da’ tempi di Romolo venuta in Roma con Atta Clauso, signore co’ suoi vassalli; della qual casa il ramo della famiglia Appia Claudia fu sempre senatoria, l’altro della famiglia Appia Pulcra, per la povertá, fu sempre plebea. E, della stessa Appia Claudia, Clodio, per ambiziosi disegni d’essere tribuno della plebe, non potendo esserlo se non fusse dell’ordine plebeo, fecesi da un plebeo adottare, né pertanto lasciò d’esser nobilissimo. Perché, con l’adozione, si perdeva la sola famiglia e quindi la sola agnazione; ma non si perdeva la casa o gente e, per essa, la gentilitá, [CMA4] siccome il professa Galba appo Tacito, il qual dice che, con l’adozione ch’egli faceva di Pisone, esso allo splendore della casa Sulpizia, che vantava di venire da Pasife e da Giove, univa quello delle case di Crasso e Pompeo, da’ quali Pisone traeva l’origine.[1277] [627] .... «plebiscitum», venendo egli da «sciscor», e non «scio». [CMA3] E ne’ comizi centuriati si serbò l’origine della voce «curia», perché delle novantanove curie, nelle quali, per tre ciascheduna, si eran divise le trentatré tribú di Roma, per ritondezza di numero e per leggiadria di favella, si dissero cosí quasi «centumcuriata».
[1278] [628] [CMA4] Lo che tutto era ciò che doveva dar i princípi al Gruchio, il quale scrisse un giusto volume De comitiis romanorum, al Sigonio ed altri autori, c’hanno adornato in questa parte le cose antiche romane.
Capitolo Sesto
[1279] [641] .... Questa stessa eterna inimicizia de’ primi popoli dee spiegarci che i giuochi equestri, ne’ quali i romani rapirono le donzelle sabine, dovetter essere ladronecci fatti da ospiti eroici, che convengono alle castissime sabine donzelle piú che vadano in cittá straniere a vedere i giuochi per gli teatri, [CMA3] le quali non si portavano in quelli delle cittá loro propie [SN2]. Dee spiegarci altresí che ’l lungo tempo ch’i romani avevano guerreggiato con gli albani .... aveva loro renduto il legittimo re Numitore. Ed è piú verisimile di quello che l’Orazia avesse riconosciuto la veste del suo Curiazio ucciso, mentre il fratello la portava con l’altre in trofeo, ch’ella di sua mano avessegliela ricamata; quando Penelope ci assicura che ’l piú nobil lavoro donnesco delle greche
regine era il tesser la tela. È molto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoria ....[1280] [644*] Onde l’antichissime leghe delle dodici cittá dell’Ionia, delle dodici cittá di Toscana, delle quarantasette latine sono sogni eruditi; né Servio Tullio, né Tarquinio Superbo, narratici da Dionigi d’Alicarnasso essere stati capitani della latina guerra alliata, sono altrimenti da prendersi che quali Ulisse ed Enea furono capitani de’ loro soci. E la lega delle Gallie sotto Vercingetorige e de’ Germani sotto d’Arminio non furono dettate da altro che dall’aver Cesare e Germanico fatta lor con l’armi un’uguale necessitá di difendersi. Ch’altrimente, non tòcchi, se ne sarebbono stati come fiere dentro le tane de’ loro confini, seguitando a celebrare la vita selvaggia ritirata e solitaria de’ polifemi, ch’abbiam sopra dimostrata.
[1281] [657] .... cosí noi la legge delle XII Tavole .... possiam chiamare «ius naturale gentium romanorum». Perché sel credano da oggi innanzi gli sciocchi che ne’ primi tempi di Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole venissero ab intestato alla successione de’ lor padri, e che la legge delle XII Tavole l’avesse riconosciuta. Perché ’l famoso «ius quiritium romanorum» ne’ suoi primi tempi era propiamente diritto di romani armati in adunanza (come si è detto), di cui o totale o primaria dipendenza era il dominio quiritario: dominio per ragion d’armi, il quale tra gli altri modi si acquistava con le successioni legittime; e, perché le donne non ebbero in niuna nazione il diritto dell’armi, quindi appo tutte restaron escluse dall’adunanze pubbliche, e particolarmente tra’ romani rimasero in perpetua tutela o de’ padri o de’ mariti o d’altri loro congionti.
Capitolo Settimo
[1282] [664*] Non vogliam qui accrescere di piú confusione e lui e tutti gli altri politici e critici romani ed eruditi interpetri della romana ragione, con ricordar loro le riflessioni che dovevan fare sopra il regno romano, per trarne dagli effetti la natura, se fusse stato monarchico o aristocratico; lo che abbiam fatto nella Scienza nuova prima. Solamente gli avvertiamo che non hanno pur un autor romano che loro assista, anzi che non sia loro contrario. Vaglia per tutti Livio, il quale, in narrando l’ordinamento fatto
da Giunio Bruto .... e, finito il regno annale, eran anco soggetti all’accuse, conforme gli re spartani erano fatti afforcare dagli efori. Se i consoli romani furono due re monarchi come sarebbono stati due dittatori, cosí prima gli re erano stati ciascuno a vita monarchi di Roma.[1283] [665] Né punto loro soccorre, ma contrasta Tacito, ove dice «libertatem et consulatum Iunius Brutus instituit», [CMA3] essendo egli un verbo comune all’«ordinare» (onde son detti «instituta maiorum», «ordinamenti de’ maggiori») ed all’«incominciare» o «avviare» (onde son dette «institutiones») nelle discipline. Perché Giunio Bruto ordinò il consolato, col quale restituí o sia rimise in piedi la libertá de’ signori dai tiranni, e con l’elezione d’anno in anno de’ consoli incominciò la libertá popolare, poiché la plebe ne volle eletto, del suo corpo, ancor uno, e ne riportò non solo uno ma tutt’i due. Perché lo stesso politico pone in bocca di Galba ch’è in luogo di libertá l’eleggersi l’imperadore, il qual era pur uno ed a vita; molto piú dovette qui intenderlo del consolato, il qual era annale diviso in due: ma dice esser a luogo di libertá, perché, come l’elezione degl’imperadori non mutò la forma monarchica dell’imperio romano, cosí l’elezione de’ consoli non mutò la forma aristocratica della romana repubblica. Che se Tacito avesse inteso Bruto aver ordinato la libertá popolare come ordinò il consolato, con la sua brevitá l’arebbe detto col solo verbo «ordinavit», perocché è frase solenne e quasi consegrata «ordinare rempublicam». Se non pur i romani, gente barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio ....
Capitolo Ottavo
[1284] [677] .... egli è ora per civil natura impossibile. [CMA3] Ma i dotti, in questa umanitá, che gli rende di menti scorte e spiegate, con le lor inefficaci riflessioni, le quali non mai fecero un eroe operante, ciò che fu effetto di nature corte e perciò d’ingegni particolari e presenti, ne han fatto un sublime interesse di giustizia inverso tutto il gener umano, la qual Achille sconosce con un suo pari, nel tempo stesso che corre con quello una stessa fortuna; ne han fatto quell’amor di gloria, ch’Achille non sente per tutta la sua greca nazione pericolante; ne han fatto quel disiderio d’immortalitá, ch’Achille nell’inferno contracambierebbe con la vita d’un vilissimo schiavo.
[1285] [SN2] Queste ragionate cose si compongano sulle degnitá dalla lxxxv [lxxxix] incominciando sino alla xc [xcv], sulle quali, come in lor base, si sono ferme. E quivi si combinino le cagioni dell’eroismo romano con l’ateniese, che, finché Atene, come ne udimmo Tucidide, fu governata dagli areopagiti, cioè fu di forma o almen di governo aristocratica (il qual tempo durò fin a Pericle ed Aristide, che furon il Sestio e ’l Canuleo ateniesi, ch’aprirono la porta degli onori a’ plebei), fece ella delle imprese sublimi e magnanime. Si combinino con lo spartano, il quale fu certamente di Stato aristocratico, e quanti nobili diede tanti eroi alla Grecia, che con merito si davan a conoscere essere discendenti di Ercole. E si vedrá ad evidenza pruovato che l’umana virtú non può umanamente sollevarsi che dalla provvedenza con gli ordini civili ch’ella ha posto alle cose umane, come ne abbiamo dato una degnitá. La quale ora stendiamo ancor alle scienze, le quali non si sono intese né accresciute che alle pubbliche necessitá delle nazioni: come la religione produsse l’astronomia a’ caldei; le innondazioni del Nilo, che disturbava i confini de’ campi agli egizi, produsse loro la geometria, e quindi la maravigliosa architettura urbana delle loro piramidi; la negoziazion marittima produsse a’ fenici l’aritmetica e la nautica; siccome oggi l’Olanda, per esser soggetta al flusso e riflusso del mare, ha tra’ suoi produtto la scienza della fortificazione nell’acque. Onde si veda se senza religione, che ne avesse fondate le repubbliche, gli uomini arebbono potuto avere verun’idea di scienza o di virtú!
SEZIONE SESTA
Capitolo Unico
[1286] [679] .... E Desiderio Erasmo con mille inezie, [CMA3] tralle quali son queste: ch’i denti son il numero delle lettere, e che gli uomini armati son i letterati, i quali nelle loro literarie contese combattono a morte tra loro e finalmente s’uccidono. La qual interpetrazione poteva egli afforzare con quella frase latina con cui si dice «exarare literas», e che lo stile «arava» sulle tavole incerate le lettere; e con quell’altra greca con cui dicono βουσροφηδόν γράφειν scrivere voltando lo stile a guisa de’ buoi quando arano la terra. Si veda quanto può la superstizione di un falso dogma ricevuto senza esame per vero, che fa dire tali ciancie ad un uomo il quale per la grande erudizione fu detto il Varrone cristiano ....
[1287] [686*] [CMA3] Il padre Monfocone, il quale noi vedemmo dopo aver dato alle stampe le nostre Lezioni omeriche, dove tratta dell’armi degli antichi, e spezialmente degli scudi, rapporta d’un letterato francese l’interpetrazione dello scudo d’Achille, e l’adorna con molta lode d’erudizione e d’ingegno. Prieghiamo il leggitore che vada ad osservarlo.
iv
[1288] [CMA3] Però conservarono tutta questa storia divina ed eroica le nazioni nel geroglifico della verga divina con in punta un’aquila, come vedemmo averla conservata gli egizi, i toscani e romani e ’n fin ad oggi gl’inghilesi: che dapprima fu il lituo degli áuguri nel tempo de’ governi divini; dappoi lo scettro de’ sacerdoti, che dappertutte le nazioni usaron corona e scettro; finalmente l’aste de’ capitani, ne’ tempi che, dopo le cittá, vennero le guerre. E tal verga o bacchetta, attaccatale la divinitá, fu ella dalle nazioni tenuta per dio, come Giustino ce n’accerta, e i romani eserciti ne venerarono l’aquile in cima all’aste per numi delle loro legioni.
SEZIONE SETTIMA
Capitolo Primo
[1289] [689] .... que’ che ne’ corpi sembran esser conati, sono moti insensibili, come si è detto sopra nel Metodo. Imperciocché Renato Delle Carte, che comincia la sua Fisica dal conato de’ corpi, egli veramente l’incomincia da poeta, ché dá a’ corpi, che son agenti necessari in natura, ciò ch’è della mente libera: di contener il moto per o quetarlo o dargli altra direzione. Da tal conato uscí la luce civile ....
[1290] [691*] Ci giovi però da tutto il ragionato raccogliere ch’è senso comune del gener umano, ch’ove non intendono gli uomini le cagioni delle cose, dicono cosí aver ordinato Iddio. Dalla qual metafisica volgare, di cui proponemmo una degnitá, cominciò la sapienza volgare de’ poeti teologi, e nella quale termina la sapienza riposta de’ migliori filosofi, e ’n conseguenza nella quale s’accorda tutta la sapienza criata di ragionar la fisica per princípi di metafisica che o vi scendino a dirittura, come fecero Platone prima e poi Aristotile, o vi dechinino per le mattematiche, come Pittagora fece co’ numeri e Zenone co’ punti, [CMA3] come sta da noi dimostrato nel primo libro De antiquissima italorum sapientia.
[1291] Ma, perché la meditazione de’ princípi fisici, i quali sono materia e forma, innalza la mente alla contemplazione dell’autore [della natura] dalle locuzioni latine, come di una lingua piú eroica di quello che ci pervenne la greca volgare, per una degnitá sopra posta, della quale dappertutto qui facciam uso, avremo piú certi vestigi di ciò che n’oppinarono i poeti teologi. I latini dissero «numen» la divina volontá da «nuere», «cennare», ond’è «nutus» «cenno», che dovette certamente cosí appellarsi da Giove, appreso ne’ tempi mutoli, che parlasse co’ cenni de’ fulmini e de’ voli dell’aquile; e sí credettero l’autore della natura essere provvedente. Con tal teologia convengono le voci «casus», «fortuna», «fatum». Perché «casus» è, latinamente, l’uscita che fanno le cose, onde «casus» poi si dissero l’uscite o terminazioni che fanno le parole: talché
le cose nel loro incominciare e progredire devono esser condotte da essa provvedenza. «Fortuna» è detta da «fortus», che agli antichi significò «buono», onde dovettero stimare «buona» anco l’avversa fortuna, e per ciò: che anco nell’avversa la provvedenza voglia il bene degli uomini, e quindi gli uomini anco nell’avversa debbano benedire gli dèi; onde poi, per distinguerla dalla rea, la buona fortuna dissero «fors fortuna». «Fatum» è da «far faris», che significa «parlar certo e innalterabile», com’era il parlare delle formole romane; onde i giorni ne’ quali il pretore rendeva ragione, la qual concepiva con sí fatte formole, si dissero «dies fasti». Appunto come la formola della condennagione d’Orazio narra Livio che doveva lo re eseguire anco se il reo si fusse ritruovato innocente; nella stessa guisa che Giove dice a Teti, appo Omero, che esso non può far nulla contro a ciò ch’una volta avevano gli dèi determinato nel Consiglio celeste (forse anco da Grecia si portò a Roma cotal ordine di giudizi?), onde gli stoici vogliono Giove soggetto al fato. Ma i latini ed essi greci, quando intendevano Iddio che regge e governa tutto, dissero «gli dèi»: talché questo è ’l «fas deorum», dal quale cominciò il «fas gentium», le quali dapprima, come appieno dimostriamo in questi libri, osservavano scrupolosamente le formole delle leggi e de’ patti. Perché era stata pur volontá di Giove di convocare il Consiglio celeste, ed era stata pur volontá degli dèi di cosí (come potevano altramenti?) decretare. Ond’Omero intese il Fato essere la determinata volontá degli dèi, la quale, perocché sia col decreto determinata, non cessa pertanto d’essere volontá.[1292] Dalle quali ed altre interminabili origini della lingua latina abbiamo in quest’opera tratto l’antichissima sapienza, non giá riposta dell’Italia, ma volgare di tutto il mondo delle nazioni; perché, essendoci accorti quella metafisica, la quale ne faceva il primo libro, esser una spezie di quella che noi qui chiamiamo «boria de’ dotti», alzammo la mente di meditare la fisica e la morale, ed applicammo a meditare ne’ Princípi del Diritto universale, che è stato un abbozzo di questa Scienza.
Capitolo Secondo
[1293] [693] L’uomo, per quanto è da’ fisici contemplato, egli è un ammasso di corpo e d’anima ragionevole; dalle quali due parti
cospira in lui un principio indivisibile d’essere, sussistere, muoversi, sentire, ricordarsi, immaginare, intendere, volere, maravigliarsi, dubitare, conoscere, giudicare, discorrere e favellare. Certamente gli eroi latini sentirono l’essere .... purissimo, che da niun esser è circoscritto, [CMA4] Quinci venne a’ latini la voce «ens» per significar astrattivamente «cosa che è»: venne sí tardi che si ha per scolastica, non per volgare latina; e lo stesso truoverassi de’ greci nel medesimo senso la voce ὤν. E quindi si tragge un grave argomento per la veritá della cristiana religione, ch’ella ha altri princípi incomparabilmente piú sublimi di quelli delle gentilesche: che questa voce, la qual venne sí tardi tra gli piú dotti gentili e non si usò che da’ filosofi, ella è antichissima volgare agli ebrei, per quel luogo di Mosè, il quale nel Sina domanda a Dio chi deve dir al popolo di averlo con la Legge mandato, e Iddio gli risponde «Qui est misit te»; e, domandandogli Mosè di nuovo chi esso si fusse, egli si descrive: «Sum qui sum» [CMA3*] (nel qual luogo Dionigi Longino ammira tutta la sublimitá dell’espressione, convenevole alla somma altezza del subietto), [CMA4] appunto come Platone, quando assolutamente dice ὤν, intende Iddio. [CMA3*] Lo che qui detto si può aggiugnere a ciò che se n’è sopra ragionato nella Metafisica poetica. [SN2] Sentirono la sostanza ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste: onde Achille portava i suoi fati sotto il tallone, com’a’ tempi barbari ricorsi i paladini portavano i talloni fatati, perché ivi stasse il lor fato, o sia la sorte del vivere e del morire.[1294] [694] .... come restò a’ latini «succiplenum» per «corpo carnuto insuppato di buon sangue», dal quale viene il vero buon colore, che fa il compimento della bellezza: onde, se non si è sano, non si può esser di vero bello.
[1295] [695] .... E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, perch’i fisici vogliono l’aria bisognar a’ pulmoni per rinfrescar le fiamme del cuore, ch’è l’ufficina del sangue, e col suo moto il ripartisce per le arterie nelle vene, onde se n’irrighi tutto il corpo animato.
[1296] [696] .... ch’è l’«igneus vigor» che testé ci ha detto Virgilio. [CMA3] Il quale, siccome colui ch’era stoico di setta, sembra aver voluto dire poeticamente ciò che que’ filosofi dicevano «senso etereo», ch’i peripatetici appellarono «intelletto agente». i platonici chiamarono «genio», [SN2] e i poeti teologi il sentivano e non intendevano .... Il qual principio poi da’ latini fu detto
«mens animi» (onde nacque quella volgar teologia che gli uomini avessero quella mente che Giove avesse lor dato); e sí, rozzamente, intesero quell’altissima veritá metafisica: Dio essere il primo principio della vita spirituale dell’uomo o sia del movimento degli animi, il quale non venga da impressione di corpo.[1297] [697] Intesero la generazione con una guisa che non sappiamo se piú propia n’abbiano potuto appresso ritruovar i dotti per ispiegare la sostanzialitá delle forme in metafisica, e ’nsiememente in fisica l’organizzazione di essi corpi formati. Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione. [CMA3*] La guisa tutta si contiene in questa voce «concipere» .... Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione (ch’ora si dee supplire con la platonica circumpulsione dell’aria, ch’essi poeti teologi non poterono intendere) di prendere d’ogn’intorno i corpi loro vicini ....
[1298] [699] .... E come naturalmente prima è ’l ritruovare, poi il giudicar delle cose [CMA4] (lo che appieno si è da noi ragionato in una replica ai signori giornalisti d’Italia d’intorno al primo libro De antiquissima italorum sapientia), cosí conveniva alla fanciullezza del mondo ....
[1299] [701] .... cioè l’irascibile nello stomaco, onde i greci dicevano lo «stomaco» per l’«ira», perocché, spremendovisi i vasi biliari, che vi son nati per la concozione de’ cibi, e diffondendovisi la contenuta bile per lo ventricolo, questi faccia la collera; e posero la concupiscibile, piú di tutt’altro, nel fegato ....
[1300] [702] .... quantunque spesso falsi nella materia. [CMA4] Ed essa voce «sentenza» ci conferma ch’i pareri uscivano dettati dal cuore: ond’è quella formola latina «ex animi tui sententia».
Capitolo Quarto
[1301] [705] [CMA3] Ma ora, perché le menti delle nazioni si son assottigliate col saper volgarmente di lettere, impicciolite col sapere di conto e ragione, e finalmente fatte astrattive con tanti vocaboli astratti, de’ quali oggi abbondano le lingue volgari, per le quali cagioni tutte oggi si pensa con animi riposati; e perché nel capo sono gli organi di due sensi, de’ quali [uno] è ’l piú disciplinabile, come il diffinisce Aristotile, ch’è l’udito, l’altro il piú acre, qual è quello della vista: perciò immaginiamo che l’anima nostra pensi nel capo. Talché, se questi due organi de’ sensi fusserci
dalla natura stati posti ne’ talloni, diremmo certamente che noi pensiamo ne’ piedi. Perché la posizione della glandola pineale, posta in cima del celabro, ove l’animo tenga il suo seggio, se non fusse di Renato Delle Carte, direi ch’è d’uomo che non s’intende affatto di metafisica. Però non altronde egli si può intendere con maggior maraviglia quanto i primi uomini, perché erano nulla o pochissima reflessione, essi valsero col vigore de’ sensi sopra ogni piú affinata riflessione; non altronde diciamo che con maggior maraviglia si possa intendere che da’ nomi ch’i latini diedero ad essi sensi e meglio che i greci gli conservarono. Che insiememente saranno due grandi ripruove: una dell’oppenion di Platone, che si parlò una volta una lingua naturale nel mondo; l’altra del vero che ha sostenuto per tanti secoli la volgar tradizione, che gli autori delle lingue fussero stati sappienti, però d’una sapienza de’ sensi.[1302] [706] [CMA3] De’ quali dissero «auditus», quasi «hauritus», quel dell’udito ed «aures» l’orecchie da «haurire», perocché l’udito si faccia da ciò, che gli orecchi tirano l’aria ch’è da altri corpi percossa, onde s’ingenera il suono. Dissero «cernere oculis» lo scernere o veder distinto, ch’è per latina eleganza diverso da «videre», ch’è un vedere confuso, perché dovettero sentire gli occhi essere come un vaglio .... Ond’è la ragione che la fiera che fugge, finch’è veduta dal padrone, non ricupera la natural libertá. L’odorare dissero «olfacere» ch’è propiamente far odore; e ’l dar odore, al contrario, dissero «olere»: che forse indi presero da sé, estimando l’api, ch’immaginavano con l’odorare facessero il mèle (perocché non potevan intendere che ne succiassero i sughi), cosí essi coll’odorare facessero gli odori. Lo che poi, con gravi osservazioni .... perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con sappiente trasporto stesero all’animo e ne dissero la «sapienza», ch’allor l’uomo sappia ovvero dia sapor di uomo, quando pensa, parla, opera le cose con propietá.
[1303] Talché è necessario che conoscessero per sensi quella gran fisica veritá, ch’or appena s’intende da’ migliori filosofi: che l’uomo faccia i colori, suoni, odori, sapori e tutt’altre sensibili qualitá con essi sensi del corpo; faccia le reminiscenze con la memoria, le immagini con la fantasia (perocché l’ingegno certamente non si esercita se non truova o fa nuove cose); e che molto meglio che i greci, i quali richiamavano al genere il qual dissero δύναμις/ (la qual con piú voci i latini voltarono «vis et potestas», onde
gl’italiani chiamano «potenze dell’anima» che usano le scuole), molto meglio, diciamo, i latini avevano per significarlo una sola voce natia, «facultas», dagli antichi detta «faculitas», e poi ingentilita e chiamata «facilitas», senza la quale facilitá di fare non si dice esser acquistata una facultá. Che doveva esser il principio della sua Logica ovvero Metafisica dell’inghilese barone Erberto, con la quale vuol provare che ad ogni nuova sensazione si desti nell’anima una nuova facultá; ch’è appunto quello che ne sembrava esser una goffa semplicitá de’ primi uomini, ch’ad ogni nuova aria di volto credevano vedere una nuova faccia, ad ogni nuova passione o pensiero credevano aver altro cuore (che truovammo esser il vero della favola di Proteo): e ’n conseguenza il parlar vero di quelle frasi poetiche «ora», «animi», «pectora», «vultus», usati per lo numero del meno da essi poeti, che oggi sembrerebbono fatte per ispiegare nell’accademie quella gran fisica veritá, che s’intese poi dagli piú avveduti filosofi: ch’in ogni momento appresso, tutte le cose in natura sono altre da quelle che sono state nel momento innanzi.[1304] [707] [CMA3] E deve essere stato cosí dalla divina provvedenza ordinato ch’avendo ella dato agli animali i sensi per la custodia de’ lor individui, in tempo ch’erano gli uomini caduti in uno stato bestiale, da essa stessa bestialitá avessero sensi scortissimi e, come gli animali bruti, sentissero anco le virtú dell’erbe che sanassero i loro malori. Siccome viaggiatori raccontano d’una generazion d’uomini in sommo grado selvaggi dell’Affrica, che sanno a maraviglia le virtú dell’erbe. I quali sensi scortissimi, venendo l’etá del senno con cui gli uomini potessero consigliarsi, si disperderono. Che tutto è pruova di ciò che ne’ Princípi dicemmo: che ora appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi autori del gener umano gentilesco.
SEZIONE NONA
Capitolo Secondo
[1305] [730] .... che corre il piú lungo anno di tutti gli altri pianeti; che misura l’etá degli uomini, perocché non poté tosto intender l’astronomia l’anno che misura la vita del mondo, detto «anno massimo» da Platone, che camina col moto delle stelle fisse. Talché l’ali troppo mal convengono a Saturno.
[1306] [731] .... Tanto essi dipendono da naturali cagioni! Tali dovrebbon essere stati i princípi dell’astronomia, piú ragionevoli che non quelli che ce ne cantarono ed Arato ed Igino.
SEZIONE DECIMA
Capitolo Primo
[1307] [733*] Ed ecco il perché la storia universale cotanto manca ne’ suoi princípi. Perché le manca questa cronologia ragionata; imperciocché tralle nazioni dovettero almeno passar mille anni per incominciarvi la voce dell’anno astronomico. Ond’è quel gran divario de’ tempi che ’l calcolo d’Eusebio errò di mille e cinquecento anni; nel qual errore si perdé il generoso sforzo di Piero cardinal di Alliac, arcivescovo di Parigi, nella sua Concordia dell’astrologia con la teologia, di truovare la certezza de’ tempi dentro le congiunzioni de’ pianeti maggiori; benché tal’incontri celesti, quantunque portassero, co’ lor influssi, straordinari effetti sopra il mondo degli uomini, v’arebbe bisognato almeno un milion d’anni innanzi, e sí d’avervi precorsi almeno trent’anni massimi di Platone, per averne, con la costanza dell’osservazione, la certa scienza che tali e non altri effetti significassero.
Capitolo Secondo bis
Supplimento della storia antidiluviana
[1308] Né qui si ferma la nostra critica. Ché col meditar il precorso delle stesse cagioni, ch’avevan dovuto produrre gli stessi effetti nella razza sperduta di Caino, innanzi, quali produssero, dopo il diluvio, nelle razze sperdute di Cam e Giafet subito, e tratto tratto in quella di Sem; per le quali cagioni tale si era desolata, innanzi, la religione di Seto nel solo Noè, quale si desolò, dopo, la religione di Semo nel solo Abramo: dovette il mondo crescere a tal cumolo di vizi, qual fu l’assiro a’ tempi di Sardanapalo, che meritava la collera di Dio di mandar altro diluvio; e ’l doveva pur mandare a’ tempi d’Abramo, quale l’aveva mandato a’ tempi di Noè, se Iddio non si fusse compiacciuto con Abramo d’entrar in una nuova allianza e nella di lui razza conservare la sua vera religione. E ’n cotal guisa si supplisce con l’intendimento il gran vuoto di mille e seicento anni, che la storia santa tace delle cose profane avanti il diluvio.
SEZIONE UNDECIMA
Capitolo Primo
[1309] [744] Dalla Tracia natia .... dovette venir Orfeo, un de’ primi poeti teologi greci. [CMA3] Altrimenti, s’egli è Orfeo della Sitonia, posta nello piú addentrato seno di Ponto, un tanto eroe, che fu fondatore della greca umanitá, vien ad essere uno scellerato traditore della sua patria, il quale scorgette i greci argonauti a farvi la ruba del vello d’oro. Ma il primo Ponto dovett’essere il picciolo stretto di mare dello Bosforo tracio, che poi distese il nome a tutto quel mare.
[1310] [750] .... che se fusse stato il monte Atlante nell’Affrica, era troppo difficile a credersi [CMA3] che, per banchettare, Giove e gli altri dèi avesser avuto a fare un viaggio, che gli piú disperati mercadanti, per l’audace ingordigia di strarricchire, [appena] arebbono fatto, quando esso Omero, estimando quella degli dèi dalla natura degli uomini, dice che Mercurio, con tutte l’ascelle, difficilissimamente pervenne nell’isola di Calipso ....
[1311] [753*] [CMA*] E qui aggiugniamo che per questi stessi princípi di geografia si dimostra:
[1312] I. — Che Zoroaste caldeo fu battriano, da Battro dapprima posto nel mezzo d’essa Asia verso settentrione.
[1313] II. — Che com’Ercole in Esperia, Perseo in Mauritania, Bacco nell’India, tutte poste dentro essa Grecia; cosí Tanai scita l’Egitto, e Sesostride egiziano avesse soggiogato la Scizia dentro essa Asia, dove fu il regno dell’Assiria; i quali due Giustino (o Trogo Pompeo, di cui è abbreviatore Giustino) propone per antiprincípi della storia universale, che ci facevan vedere il mondo assai piú antico di quel ch’è. I quali femmo vedere essere due mostri di geografia, sopra, nelle Note alla Tavola cronologica, a proposito di Zoroaste caldeo, narratoci battriano.
[1314] III. — Che Erodoto, con quell’ignoranza dell’antichitá sue propie la quale gli oppone Tucidide, con cui aveva detto che in Affrica i mori un tempo erano stati bianchi (i quali mori bianchi erano dentro la sua medesima Grecia), con quella stessa ed anco, come dovette, maggiore delle cose straniere, osserva per l’Asia
minore memorie di Sesostride egizio, che l’egizio sacerdote chiama Rampse appo Tacito, e, vaneggiando, dice a Germanico che quel loro re aveva signoreggiato fin [CMA4] nell’Asia minore, nella Libia e nella Bitinia.[1315] [CMA3*] IV. — E nella stessa guisa si vince ed atterra quell’altro mostro d’istoria: che Cambise aveva portato la guerra, nella quale morí, a Tearco re d’Etiopia, finor intesa per lo regno degli abissini, posto nel cuore dell’Affrica: ch’arebbe dovuto marciare con un grande esercito o per entro l’Egitto, chiuso naturalmente a tutt’altre nazioni, che per qualunque forza straniera non può perrompersi, e indi per gl’insuperabili monti della Luna calare nell’Etiopia, o per l’arene del regno di Barca, per le quali non vanno le picciole caravane se non provvedute di acqua e con la bussola, e a certi tempi che non vi soffiano venti, da’ quali restin anniegati in quel mare d’arene.
[1316] [754] [CMA3] Tali princípi di geografia assolutamente possono giustificare Omero di gravissimi errori o sfacciate menzogne che gli s’imputano in sí fatta scienza, siccome noi con questi princípi, non cosí come in questi libri si sono stabiliti, nel difendiamo nelle Note a’ Princípi del Diritto universale. Donde perché que’ libri non facciano piú di bisogno, rapportiamo, e piú afforzato, quel luogo qui.
[1317] [755] .... doveva in otto giorni far un viaggio [CMA3] di ventiduemilacinquecento e piú miglia; il qual errore gli è notato da Eratostene. Or qui aggiugniamo ch’i lotofagi furon anco della Caldea, perché Giobbe piange il felice stato onde cadde, ch’esso mangiava pane di frumento e li suoi servi si nutrivano di cortecce d’alberi.
[1318] [757*] [CMA3] IV. — Che l’oracolo dodoneo è posto da Omero tra i tesproti: dappoi i greci, per la somiglianza del culto, l’avessero osservato e detto in Egitto.
[1319] [759] .... non distese piú che venti miglia, come sopra abbiam detto, l’imperio, e pur l’acquisto di Corioli diede a Marcio il titolo di Coriolano, com’a conquistatore d’una provincia. L’Italia fu certamente circoscritta .... poi con le vittorie romane, si è disteso da Nizza di Savoia fino allo stretto di Messina, quale Livio il descrive.
[1320] [761] .... come greci (quelli di Menelao, di Diomede, d’Ulisse). E sopra queste novelle sparse per lo mondo da’ greci si dovrebbono con piú veritá descrivere le carte geografiche de’ viaggi
d’Ulisse e d’Enea. Osservaron essi per lo mondo sparso .... gli Ercoli dell’altre nazioni aver preso il nome dal lor Ercole egizio, per quel comun errore, che suol essere padre della boria, come madre n’è l’ignoranza, onde credevan essere la nazione piú antica ....Capitolo Secondo
[1321] [771] .... le favole debbon aver avuto alcun pubblico motivo di veritá, nella cui ricerca macera tanto di scelta erudizione Samuello Bocharto, De adventu Aeneae in Italiam, per farla istoria. Perché egli è Evandro sí potente .... fu egli il primo che menò una colonia nel mar vicino? E se tali frigi non sono i compagni d’Enea, tal difficultá s’avvanza vieppiú, quanto sono trecento anni piú antichi degli Ermodori che vengono da Efeso, cittá pur d’Asia, a far l’esiglio in Roma, per dar le notizie delle leggi ateniesi a’ romani, onde portino la legge delle XII Tavole da Atene in Roma; e vi viene da un cento anni dopo che nemmeno il nome di Pittagora .... non sapevano chi fusser i romani, giá potenti in Italia? Oh critica sopra gli scrittori troppo scioperata, che da tali princípi incomincia a giudicar il vero delle cose romane!
[1322] [772] .... e i vinti ricevuti in qualitá di soci eroici, dispersi per le campagne di quel distretto, obbligati a coltivare i campi per gli eroi romani; e ch’avessero avuto ben i romani l’idee di vagabondi, cosí mediterranei come marittimi, d’uomini senza terreni, e non avessero le voci da spiegare cotali cose straniere; ma che cosí l’ebbero da’ greci, che dovettero i vagabondi mediterranei chiamare «arcadi» uomini selvaggi, e i marittimi chiamare «frigi» per uomini usciti da cittá bruciate, stranieri venuti da mare e che non avevano terre. E cosí a capo di tempo che tali tradizioni per mano di gente barbara ....
[1323] [772*] Ma pur resta uno scrupolo sull’oppenione volgare de’ dotti, che i troiani non furon greci, ond’han creduto la frigia essere stata una lingua da quella de’ greci diversa. Certamente Omero non ha dato loro l’occasione di tal comun errore, perché egli chiami i greci d’Europa «achivi», e «frigi» quelli dell’Asia; e senza dubbio Troia per un picciolo stretto di mare era divisa dal continente d’Europa, come l’Ionia, dove fu Troia, senza contrasto tutta fu greca. Ma Aceste fu eroe troiano e fonda la lingua greca
in Sicilia, ed è di tanta antichitá che Enea il ritruova avervi fondato un potente regno; talché dovette menarvi una colonia eroica greca di Frigia molto tempo innanzi della guerra troiana.Capitolo Terzo
[1324] [775] .... dovettero chiamare «aras» (perché Virgilio osserva ch’a’ suoi tempi gl’italiani dicevano «aras» gli scogli che sovrastan al mare) e appellar anco «arces» tai luoghi forti di sito .... «sulcus designandi oppidi captus [CMA3] (cioè fu il campo arato dove poi surse la cittá), ut magnam Herculis aram amplecteretur, ara Herculis erat» (talché dice apertamente che cotal ara fu tanto ampia quanto lo fu poi la cittá di Roma nella prima sua pianta). Di sí fatte are è sparsa la prima geografia ....
[1325] [778] .... Cotal voce .... per immensi tratti di luoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane diede forse l’origine all’«araldo» degl’italiani, che con la sua santitá arretra ogni forza nimica, e donde venne «aratrum» a’ latini, la cui curvatura si disse «urbs» ....
CONCLUSIONE
[1326] [779] .... gliel’hanno piú tosto niegata [CMA3] e di quell’altra, della quale pure ne pervenne la volgar tradizione, di cui Cicerone ed altri hanno scritto che la sapienza degli antichi faceva i suoi saggi, con uno spirito, e filosofi e legislatori e capitani ed istorici. Appunto quali per tutto questo libro abbiamo ritruovato gli autori delle nazioni, dalla lor stessa sapienza poetica addottrinati, avere gittato le prime fondamenta di tutto l’umano e divin sapere, avere co’ loro stessi costumi dato le leggi a’ popoli, essere stati capitani e guide del gener umano, e finalmente aversi essi stessi descritta la lor istoria nelle lor favole. Dentro le quali, come in embrioni o matrici, si è discoverto .... i princípi di questo mondo di scienze.
[1327] [CMA3] E qui sono da compatire tutti i dotti di tutti i tempi che, osservando di piú arricchito questo mondo di nazioni di tutti i beni che ’l facessero contento del necessario, utile, comodo, piacere ed anco lusso umano, innanzi di provvenir in Grecia i filosofi, hanno, per quest’altra potente ragion ancora, cotanto lodata, ammirata e ricercata la sapienza degli antichi; ma con quanta vanitá, il facemmo apertamente vedere nella Logica poetica, ché tutte l’invenzioni massime, le quali hanci o ritruovato nuove scienze o migliorato l’antiche, tutte provvennero in tempi barbari o da idioti. Quindi si è dimostrato [SN2] con quanto nulla o poco di veritá si è ragionato de’ princípi del divino ed umano sapere in tutte le parti che ’l compiono, e con quanta scienza si sien arrecati luoghi di poeti, di filosofi, di storici, di gramatici, che sembrano essere stati luoghi comuni da pruovare in entrambe le parti opposte i problemi in tutte le scienze; talché sono state finor materia senz’impronto certo di propia forma. [CMA3] La quale, in osservandola, ci ammonisce doversi per tutto ciò benedire la provvedenza eterna, ammirare la sapienza infinita ed unirci alla somma bontá di Dio, come promettemmo di far vedere nel principio di questo libro.