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Giambattista Vico: Opere
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IV-2: La Scienza Nuova (II) (giusta l'edizione del 1744)
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Brani Delle Redazioni
LIBRO PRIMO

LIBRO PRIMO


[Sezione Prima]

[1139] [55] .... come in quest’opera tal civil costume di quasi tutte, come si ha certamente della romana, vien dimostrato. [CMA4] Sicché tal avesse fatto prima Nino contro di Zoroaste, quale fece poi Arbace contro Sardanapalo, ultimo re dell’Assiria; onde dicono ch’indi in poi furono due regni d’Assiria, con due cittá capitali: Ninive e Babillonia, la qual veritá usano i critici bibbici per ischiarire la storia sagra ove narra la schiavitú babilonese del popolo ebreo. Ed essa storia pur ci racconta ....

[1140] [59] .... dovettero agli orientali essere Zoroasti. [CMA3] Perocché i mitologi, con le loro interpetrazioni erudite, fanno Ercole anche dotto d’astronomia, e ne spiegano quella favola ch’egli succedette al vecchio Atlante, stanco di piú sostenere sopra i suoi òmeri il cielo; ed or or vedremo che Atlante egli è da’ filologi creduto scolare di Zoroaste. [SN2] Però di quelli il primo di tutti è ’l caldeo, che ci appruova la Caldea essere stata la prima nazione di tutta la gentilitá. Ma la boria de’ dotti .... gli ha appiccato gli oracoli della filosofia, appigliatisi temerariamente a due volgari tradizioni: una, che Zoroaste fu sappiente (ma quella intese della sapienza volgare con la quale si fondarono i popoli); l’altra, che gli oracoli sono le cose piú antiche che ci narra essa antichitá (ma questa volle dir oracoli d’indovini, non di filosofi). E ’n fatti tali oracoli di Zoroaste non fann’altro che smaltire per vecchia una troppo nuova dottrina .... e non si conobbero tra loro che con l’occasion delle guerre o per cagione de’ traffichi.

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[1141] Quindi, frattanto, però s’intenda di che bollore di fantasia fervette cotal boria de’ dotti nel capo di Samuello Reyero, De mathesi mosaica, ove vaneggia che la torre di Babillonia fossesi innalzata per osservatoio delle stelle. Lo che deve andar di séguito a ciò che, forse per conciliar con le novelle curiose la maraviglia a’ suoi libri De caelo, [CMA1] (se pur son suoi, [CMA3] perocché i critici glieli negano), [SN2] narra Aristotile: che Callistene, suo genero, gli aveva mandato l’osservazioni astronomiche fatte da’ caldei ben mille e novecento e tre anni del tempo suo, le quali, tornando indietro, portavano fin al tempo ch’essa torre si alzò.

[1142] [CMA3*] Certamente de’ Zoroasti ce ne vennero nominati il caldeo, il medo, l’ero‐armenio, il panfilio, i quai solamente ha saputo osservar e raccogliere lo Stanleo nella sua Istoria della filosofia. Ma queste notizie son troppo oscure e confuse per poter ragionare con iscienza de’ princípi della storia universale, la quale, con tutte queste notizie, ella, cosí per gli mostri di cronologia poco sopra accennati, come per questi di geografia i quali qui accenneremo, ha finor mancato al mondo delle scienze. Diciamo adunque [CMA4] che, per una maniera poetica di pensare (che nella Metafisica poetica si truoverá uniforme per natura in tutte le prime nazioni gentili), siccome gli egizi tutti i fondatori dell’altre nazioni dissero aver preso il nome dall’Ercole egizio, e siccome i greci fecero andar il lor Ercole per lo mondo a disseminare per le nazioni l’umanitá, cosí i caldei tutti gli autori delle nazioni dell’Asia dissero Zoroasti.

[1143] [CMA3*] E per questi stessi nostri princípi di geografia ritruoveremo che Zoroaste caldeo fu battriano, come narrano le storie, però da Battro posto dentro i confini della Caldea medesima; siccome ritruoveremo Orfeo essere stato della Tracia posta dentro i confini della medesima Grecia, perch’egli certamente fu uno de’ poeti teologi greci; e che cosí Orfeo uscí dal di lei settentrione a fondare la Grecia, come Zoroaste uscí dal di lei settentrione a fondar la Caldea. E tali princípi s’hanno a dare alla Caldea, ne’ suoi primi tempi di brievissimi confini, dentro i quali Battro, donde fu Zoroaste, dev’essere stato nel mezzo dell’Asia, perché si faccia ancor verisimile il vero della storia sagra d’intorno a questi tre punti massimi:

1. che, dopo il diluvio, l’arca si fermò ne’ monti dell’Armenia,

2. che Noè si fermò nella Mesopotamia,

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3. che Semo quivi propagò la sua nazione, da’ cui rinniegati provennero essi caldei; ed ad un fiato si faccia credibile la storia profana, la qual, appo Giustino, propone come suoi antiprincípi, innanzi alla monarchia degli assiri, Tanai scita e Sesostride egizio ....

[1144] Con tanta traccuratezza hanno finora tutti i dotti ricevuto i princípi della storia universale! E ciò sia detto di Zoroaste.

[1145] [60] .... come restò a’ latini «chaldaeus» per «astrolago giudiziario». Per tutto ciò abbiamo noi allogato Zoroaste a lato di Giapeto, perocché sia il carattere della razza di Sem, che tratto tratto passò dalla vera religione all’idolatria, dalla quale si fondò il regno di Nebrod.

[1146] [62] La quale per gli nostri princípi si dimostra esser avvenuta nella discendenza di Sem per lo mondo dell’Asia orientale, ma essere stata diversa l’origine della diversitá delle lingue nelle razze giá fatte e disperse per l’Asia settentrionale (e quindi nella Scizia) e per la meridionale (e quindi nell’Indie), per l’Affrica e per l’Europa, con l’errore di dugento anni, nel quale Cam e Giafet l’avevano mandate. Ché tante vi volle di tempo dalla divisione della terra tra questi tre figliuoli di Noè infin alla confusione babillonese delle lingue, se mai la divisione tra queste razze fusse avvenuta prima della confusione babillonese: lo che però appare contrario a ciò che la Scrittura sagra ne divisa nel Genesi. Perocché, altrimenti, se la divisione fosse seguíta prima della confusione, seguirebbe questa sconcezza: che, essendosi cominciati da dugento anni innanzi a dividere sulla terra gli tre figliuoli di Noè, le razze empie di Cam e Giafet arebbono conservato la lingua santa avantidiluviana, e si sarebbono sottratti al divin castigo le razze empie di Cam e Giafet, e solamente punita la razza di Sem, ch’era pur pia, perché credeva in una qualche divinitá, e derivata la pena anco nel popolo di Dio. Perocché vogliono padri che, con la confusione babillonese delle lingue, si venne tratto tratto a perdere la puritá della lingua santa avantidiluviana.

[1147] Né per ciò si dice cosa punto contraria a ciò che narra la storia santa: che, avanti la confusione, tutti gli uomini sopra la terra erano d’un labbro solo, cioè d’una sola spezie di lingua. Perché le razze sperdute di Cam e Giafet, se la divisione fosse sortita prima della confusione (lo che non si può dire, essendo apertamente contrario a ciò che si narra nel Genesi), dovettero ritenere della lingua ebrea fin tanto che, a poco a poco, come

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fiere bestie disperse per la gran selva della terra, a capo di dugento anni che corsero dal partaggio di essa, cioè di un anno dopo il diluvio, ne’ quali avvenne essa confusione, disumanandosi, avevano affatto perduto ogni umana favella.

[1148] Quindi si traggono tre veritá: la prima, che questa Scienza conserva alla storia santa la degnitá;

la seconda, perché i caldei andarono piú prestamente degli altri alle false religioni, truovarono una spezie di divinazione piú dilicata e piú dotta che non fu quella che truovarono le razze di Cam e Giafet, che fu la divinazione da’ fulmini, tuoni, voli e canti d’uccelli;

la terza, che essi caldei, per questo istesso presto cammino alle false religioni, prevenendo tutt’altre nel corso che fanno le nazioni, gittarono le fondamenta alla prima monarchia degli assiri.

[1149] [66] .... l’avesser insegnate all’altre nazioni del mondo. Ma i greci si portarono troppo ingrati inverso un tanto benefattore, che e ne sconciarono il proprio nome, e l’accomunarono a tutte l’altre divinitadi, e ne truovarono per lui un altro, che è Ἡρμῆς,/ che vuol dire Mercurio. Dipoi non iscrissero le loro leggi co’ geroglifici ....

[1150] [68] Ora, per ciò ch’attiensi a questo gran momento della cristiana religione — che Mosè non abbia fatto alcun uso della religione né della polizia degli egizi — travaglia la cronologia. Perché Eusebio, seguíto da Beda, sperava di superar tal difficultá col suo calcolo, per lo quale poneva l’uscita degl’israeliti da Egitto sotto la condotta di Mosè da un mille anni innanzi alla guerra di Troia; il qual novero d’anni fu seguíto da’ cristiani antichi. Ma ora egli è stato corretto ed emendato piú d’un migliaio e mezzo d’anni da’ cristiani ultimi, i quali oggi sieguono il calcolo di Filone giudeo, la qual correzione si confermerá per gli nostri princípi, co’ quali dimostreremo che, per l’etá degli dèi e per l’etá degli eroi, abbia dovuto correre un settecento anni tra l’etá di Mosè e la guerra troiana; e sí, per tal calcolo di tanto scemato, viene Mosè a fiorire da quattrocento anni innanzi la guerra troiana, e, ’n conseguenza, a’ tempi di Cecrope, e perciò vien ad essere dopo di questo Mercurio egizio. Però questa grande difficultá della cronologia cristiana si truova spianata da’ nostri princípi, fermati in un luogo veramente d’oro di Giamblico .... ma un carattere de’ primi fondatori della nazion egizia. Laonde tal Mercurio [CMA3]

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degli egizi, ch’è ’l Cam dell’Asia meridionale e dell’Affrica, [SN2] sarebbe su questa Tavola da porsi [CMA4] a manca di Zoroaste, [CMA3], ch’è la razza empia di Sem sparsa per l’Asia orientale, e di [SN2] Giafet, ch’è ’l Giapeto dell’Asia settentrionale e dell’Europa, nel livello della divisione che fecero della terra i tre figliuoli di Noè. E per questo istesso luogo di Giamblico ....

[1151] [70] Quindi, come da vecchio covile, esce un gran mostro di cronologia: che da Elleno a Giapeto corrono due vite, di Deucalione e Prometeo, viva pur ciascuno cinquanta anni (quando i cronologi le vite incerte stabiliscono di trenta e poco piú), e sí abbiano corso cento anni. Ma ne corrono quattrocentoventicinque! Questi mostri ha nudrito nascostamente finora per la cronologia l’oppenione d’essere stati particolari uomini quelli che ci ha narrato la storia favolosa! Da quest’Elleno i greci natii si disser «elleni» .... ond’essi eran venuti colonie in Italia, ed altrettanto ne seppero i latini, mentre si formaron la lingua. Perché tal voce ....

[1152] [80] .... Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilitá fa sant’Agostino [CMA3] per questo motivo preso dall’Eunuco di Terenzio, a cui ora noi soggiugniamo queste ponderazioni. Che ’l Cherea si finge dal poeta un giovinetto di sedici anni, d’una sublime ardente natura, giudice di bellezze d’un gusto raffinatissimo, che di niuna si era fin allor compiaciuto, come il professa col suo amico Antifone. S’innamora della schiava ad un’occhiata, in vedendola per istrada passare (che dá ad intendere di che bellezza luminosa ella fusse); e ne concepisce all’istante un amore cosí perduto, che un gentiluomo ateniese, cioè a dire della cittá la quale dappertutto spirava beninteso, convenevole ed aggiustato, soffre travvestirsi da eunuco, e da vile schiavo di esser menato da Parmenone, suo servo, a servire una meretrice di Taide; e faceva fine di tutti i suoi disidèri il poterla vedere, parlarle, talora mangiarvi insieme e dormirle alcuna volta da presso. Ma, in guardare la pittura di Giove, il quale, cangiato in pioggia d’oro, si giace con Danae, quell’ardire che non gli diedero tante e sí possenti naturali cagioni, da tal divino esemplo prende di violarla.

[1153] [89] .... potessero veleggiar un intiero giorno. [CMA3] Tal veritá osservò Omero quando portossi in Egitto, dove narra che la moglie del re Tono aveva ad Elena donato il nepente; della cui simigliante maniera dev’essere stato in Fenicia, dov’Elena pur aveva da’ grandi ricevuti de’ gran doni; e quivi narra l’isola di Calipso, detta Ogigia ....

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[1154] [94*] [CMA3] Le quali cose tutte ad un colpo devono rovesciar il sistema di Giovanni Seldeno, il quale pretende il diritto naturale della ragion eterna essere stato dagli ebrei insegnato a’ gentili sopra i sette precetti lasciati da Dio a’ figliuoli di Noè; devono rovesciar il Faleg di Samuello Bocarto, che vuole la lingua santa essersi propagata dagli ebrei all’altre nazioni e tra queste fossesi difformata e corrotta; e finalmente devono rovesciare la Dimostrazion evangelica di Daniello Uezio, che va di séguito al Faleg di Bocarto, come il Faleg del Bocarto va di séguito al sistema del Seldeno, nella quale l’uomo eruditissimo s’industria di dar a credere che le favole siano sagre storie alterate e corrotte da’ gentili e sopra tutti da’ greci.

[1155] [104] .... onde Publilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittator popolare». Perocché ’l dittatore non si criava senonsé negli ultimi pericoli dentro o fuori della repubblica, e perciò si criava con somma monarchica potestá di poter riformare anco, se fusse di bisogno, lo Stato, conforme con la dittatura il cambiò, se non di Stato, certamente di governo, da libera in aristocratica, per cinque anni Silla. [CMA3] E ’l dittatore si preconizzava dal senato, perché il dicevano, non co’ verbi «creare» o «facere», come de’ consoli, pretori e d’altri maestrati, ma «dicere dictatorem»; ove i romani, sappientissimi delle cose dello Stato, intesero la forza monarchica della dittatura e che i monarchi si fanno da Dio e si acclaman dagli uomini. E perciò non solamente da dittatore, durando, non si appellava, né si rendeva ragione finita la dittatura, ma, riassumendo quello in sé tutti gl’imperi minori, sotto di lui, per dirla con l’elegante espressione latina, «omnes magistratus silebant». Lo che ben avvisò Tacito nel terzo motto degli Annali, ove dice «Dictaturae ad tempus sumebantur», usando una delle due formole de’ legati detti «per vindicationem», per ogniuna delle quali i legatari gli si prendevano di propia autoritá, né avevano bisogno di ricevergli dalla mano dell’erede, le quali formole erano «capito» ovvero «sumito». [SN2] Per le quali ragioni, essendo messa su di nuovo con nuove rivolte cotal contesa d’intorno alla forma dello Stato popolare, per rassettarla se ne criò Ortensio dittatore, che confermò la legge publilia.

[1156] Le quali due leggi sono state finora guardate dagli eruditi interpetri della ragion romana per insegnar dalle cattedre a’ semplici giovinetti che con tali leggi fu data a’ plebisciti, o leggi tribunizie, forza eguale alle leggi consolari, e ci lasciarono la repubblica

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romana con due potestá somme legislatrici, indistinte ne’ distretti, nelle materie e ne’ tempi (che è un gran mostro di repubblica); perché non ne han saputo intendere il linguaggio: che, di ciò ch’avesse la plebe comandato con le leggi tribunizie, non potesse il popolo comandar il contrario con le leggi consolari. Lo che appresso sará da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che vediamo un’idea per ipotesi.

[1157] [112] Con uguali passi, gli stessi tribuni s’avvanzarono nella potestá di comandare le leggi. Perocché prima i loro plebisciti non eran altro che dichiarazioni che faceva la plebe de’ nobili ad essolei esosi, perocché fussero gravi alla sua libertá, [CMA3] come aveva fatto a Coriolano. [SN2] Perché non poterono da principio certamente i loro plebisciti comandar pena, perché la plebe non aveva imperi; onde crediamo che i primi plebisciti romani sieno stati gli stessi che gli ostracismi d’Atene, co’ quali i chiari cittadini prendevansi per diece anni l’esiglio, e l’esiglio appo romani fin a’ tempi de’ principi non fu spezie di pena, ma scampo. Ma ne’ tempi di Filone dovettero giugnere i plebei a comandar leggi universali, [CMA3] come dalla storia delle leggi romane chiaramente apparisce averne di fatto comandate molte. [SN2] Quindi, essendo la repubblica romana caduta in questo grandissimo disordine, di nudrire dentro il suo seno due potestá, .... ordinò che d’intorno a ciò che la plebe avesse comandato ne’ comizi tributi, ne’ quali prevalevano i plebei, siccome quelli da’ quali si davano i voti per teste, i quiriti, i romani in adunanza (ché tanto, propiamente, suona tal voce, né «quirite» nel numero del meno si è detto mai), fussero da’ plebisciti obbligati. Che è tanto dire quanto non potessero ordinare leggi a quelli contrarie ne’ comizi centuriati, ne’ quali prevalevan i nobili, siccome quelli ch’ivi davan i voti per patrimoni. [CMA4] Onde, perché ne’ comizi centuriati prevalevano i senatori, pesandovisi i voti per patrimoni, e ne’ comizi tributi prevalevano i plebei, numerandovisi i voti per teste, avevano la ragione i padri di lamentarsi, appo Livio, ch’avevano perduto piú in pace ch’acquistato in guerra quell’anno, nel quale pur fecero i romani molte e grandi conquiste. Per tutto ciò, essendo giá, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti ....

[1158] [115] .... Il qual grand’effetto di cose romane, se non com’in sua propia cagione regge sulla ragion eterna de’ feudi (da noi scoverta nell’opera, schiarita nell’Annotazioni e molto piú avvalorata,

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come si vedrá, in questi libri), non sappiamo certamente qual via s’abbiano tutti i politici e tutt’i giureconsulti c’hanno scritto de iure publico da poterne uscir con onore; particolarmente con due luoghi, quanto per noi opportuni, tanto duri scogli ad essi da rompervi, entrambi di Cicerone. De’ quali uno è in una Catilinaria, dov’afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica — [CMA3] lo che pur egli oratoriamente dice, spostandone il sentimento, ch’andava ben di séguito alla formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: «Qui rempublicam salvam velit, consulem sequatur» (quando sembra il senato turbar piú tosto lo Stato, che s’oppone al popolo, signore dell’imperio, che vuol disporre de’ campi da esso acquistati per forza d’armi nelle provincie) — [SN2] e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato. L’altro è nell’orazione a pro di Roscio Amerino, ove dice che Silla aveva iure gentium riportato vittoria di Mario.
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[Sezione Seconda]

[1159] [119] .... cosí deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni. Onde non piú (come finora in tutti i ragionamenti che si leggono sui libri d’intorno a’ princípi di religioni, lingue, ordini, costumi, leggi, potestadi, imperi, domíni, commerzi, giudizi, pene, guerre, paci, allianze, che l’intiero subbietto ne compiono) ragioni contro ragioni, autoritá contro autoritá con ostinata guerra combattino, ma si compongano in una perpetua pace.

[1160] [120] [CMA2] La prima e principale di tutte le degnitá [CMA3] qui appresso proposte [CMA2] era questa gran metafisica veritá, [CMA3] la qual noi certamente avevamo usata in tutta quest’opera per rinvenire l’origini delle nazioni e delle scienze, le quali senza dubbio da esse nazioni sono state ritruovate; ma non avevano fin a quest’altra impressione avvertita. La qual è che l’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo, e, con questa smisurata misura, esso, delle cose che ignora, immagina sformatamente piú di quello ch’elleno son in fatti.

[1161] [123*] Questa stessa degnitá dimostra la boria essere figliuola dell’ignoranza e dell’amor propio, il quale ci gonfia, perciocché in noi sono troppo indonnate l’idee ch’abbiamo di noi medesimi e delle cose nostre, e con quelle come matti guardiamo le cose che da noi non s’intendono.

[1162] [127] A tal boria di nazioni aggiugniamo noi la boria de’ dotti, i quali ciò che essi sanno vogliono che lo sia antico quanto che ’l mondo; onde ogni ragionamento erudito che si faccia d’intorno ad ogni materia, udiamo incominciare dalla formazione del primo uomo, e che ciò che essi sanno sia principio al quale sien da richiamarsi tutte le cose che sanno gli altri.

[1163] [128*] Entrambe queste degnitá deon ammonir il leggitore il qual voglia profittare di questa Scienza (poiché entrambe queste borie provengono da ignoranza) di porsi in uno stato [piuttosto] di non saper nulla con docilitá, che con orgoglio di giá saper tutto de’ princípi dell’umanitá.

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[1164] [146] .... Ma in cotal guisa egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli con umano provvedimento, [CMA3] come dall’imperadore Antonino Pio in poi fu il diritto civile romano comunicato a tutto il mondo soggetto al romano imperio, e non sarebbe un diritto con essi umani costumi naturalmente ordinato dalla divina provvedenza a tutte le nazioni, le quali, riconoscendo tai costumi uniformi senza avergli le une all’altre comunicati, gli osservarono come «iura a diis posita» e τῶν θεῶν δώρον, «dono degli dèi», come ne diffinisce il diritto natural delle genti Demostene. Questo sará lo piú gran lavoro che si fará per tutti questi libri ....

[1165] [163] .... le quali si prendono dalle inverisimiglianze, [CMA3] assurdi, sconcezze, contradizioni e impossibilitá di cotali oppenioni. Ma di queste quattro la prima ne dará altresí i primi fondamenti delle ragioni con le quali questa Scienza stabilisce i princípi dell’umanitá gentilesca, che si truoveranno esser quelli della poesia, a cagion che i di lei fondatori, per la lor somma ignoranza faccendosi regola dell’universo, con le loro favole formarono gli tre mondi descritti nella dipintura, cioè quello degli dèi, quello della natura e quello loro propio degli uomini. Le seguenti degnitá dalla quinta fin alla decimaquinta ....

[1166] [195] Questa stessa degnitá con l’antecedente ne dee determinare dugento anni ne’ quali le razze [CMA3] sperdute di Cam subito, di Giafet alquanto dopo, e finalmente di Sem alla fine, tratto tratto [SN2] fussero andate in uno stato ferino .... e con l’educazione ferina vi fussero provenuti e truovati giganti nel tempo che la prima volta dopo il diluvio fulminò il cielo. Ma per l’altezza della Mesopotamia, ch’è la terra piú mediterranea della parte piú terrestre del mondo, donde incominciò la divisione della terra tra’ figliuoli di Noè, è necessario vi avesse fulminato il cielo da un cento anni prima; donde si truovarono uniti in popolo li caldei, i quali, dugento anni dopo il diluvio, sotto Nebrod alzarono in Babillonia la torre della confusione. Lo che si dimostra da ciò: che ora la vasta terra, ove fu Babillonia, è tutta sfruttata, perché per la sua altezza ne sia scorso giú l’umidore, che conservano tuttavia l’altre terre del mondo.

[1167] [240] .... «lex» dovett’essere «raccolta di cittadini», [CMA3] o sia civil ragunanza per comandarvi le leggi: onde la presenza del popolo solennizava gli atti legittimi tra’ romani, e quindi i testamenti i quali si dicevano farsi «calatis comitiis», ch’erano

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per necessitá di natura tutti nuncupativi, perché i testamenti scritti furono appresso introdutti dal pretore, poi che s’era ritruovata la scrittura volgare; e a’ tempi barbari ritornati, ne’ quali erano radi coloro che sapessero di lettera, la pubblica ragunanza fu detta «parlamento». Finalmente, poi che fu ritruovata la scrittura volgare, fu da’ gramatici con comune errore creduto che «lex» sia stata detta a «legendo», quando, per le origini delle lingue che dentro si truoveranno, da «lex» deve venire esso «legere», che altro non è che raccoglier lettere. Tanto la scrittura è di sostanza della legge! [SN2] E questa degnitá con l’altra antecedente tornano a rinniegare la sapienza riposta de’ fondatori de’ primi popoli.

[1168] [267] .... gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, [CMA3] ed erano prefetti delle divine cerimonie, [SN2] e che i regni antichi si diferivano per elezione, non per successione, il quale civil costume riputa esser propio de’ barbari. [CMA3] Il qual ultimo detto sará da noi esaminato nel libro quarto.

[1169] [268] Di questa degnitá la prima parte per la lxxviii [lxxxii] è conseguenza della lxviii [lxxii]; la seconda cade tutta a livello ne’ due regni eroici di Teseo e di Romolo .... ove Tullio Ostilio ministra la legge nell’accusa d’Orazio. E perché le leggi erano osservate come cose sagre ne’ tempi eroici, gli re romani erano anco re delle cose sagre .... il capo de’ feciali o sia degli araldi. E sí nelle persone degli re eroici passarono unite sapienza di leggi, sacerdozio di cerimonie divine e regno d’armi; e l’uno e l’altro regno si diferí per elezione: l’ateniese fino a’ Pisistratidi, il romano fin a’ Tarquini. Né queste cose dette da noi turba punto il regno spartano, che fu eroico, nel quale succedevano i soli Eraclidi, perché, come si spiegherá dentro, vi venivano per elezione i nobili della razza di Ercole.

[1170] [271] .... i nobili giuravano d’esser eterni nemici, come fu la casa nobilissima Appia alla plebe romana.

[1171] [292*] [CMA3] Questa degnitá con la seguente, unita con la lxviii, scuopriranno queste tre veritá importantissime:

1. i princípi finor seppolti della dottrina politica;

2. la natural successione delle repubbliche;

3. e finalmente che dalle plebi de’ popoli vengono sempre e tutte le mutazioni degli Stati civili.

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[310*] [CMA1]

civ bis.

[1172] Le sorgive di tutte le umane azioni sono tre: onestá, utilitá, necessitá.

[1173] Questa degnitá dá i princípi della differenza tra ’l diritto natural de’ filosofi, ch’è dettato dall’onestá, per la quale gli uomini dovrebbono per ragion fare gli piú esatti doveri della giustizia; e ’l diritto natural delle genti, che si può ottenere dalla natura umana corrotta, che per le utilitá e necessitá della vita gli uomini celebrino quel giusto onde si conserva l’umana societá. Che è quello che i giureconsulti romani dicono nel diffinirlo: «usu exigente atque humanis necessitatibus expostulantibus».

[1174] [313] Questa stessa stabilisce la differenza da noi qui sopra detta del diritto natural delle genti, diritto natural de’ filosofi e diritto natural degli ebrei, che credevano nella provvedenza d’una mente infinita, e sopra il Sinai ebbero riordinata da Dio quella Legge ch’avevan avuto dal principio del mondo, cosí santa che vieta anco i pensieri meno che giusti, la quale non poteva osservarsi che da un popolo che riverisse e temesse un Dio tutto mente, che spia ne’ cuori degli uomini; e, ’n forza di tal legge, osservavano tutti i doveri dell’onestá. Onde «giusto» nella lingua santa significa «uomo d’ogni virtú»; per lo che gli ebrei sono da Teofrasto chiamati «filosofi per natura». Per tutte le quali tre differenze ....

[1175] [316] .... case nobili antiche, come quelle de’ padri de’ quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana cittá, tralle quali, come ne rapporta un’oppenione Suetonio, fu l’Appia Claudia co’ suoi vassalli, venutavi da Regillo. Come, al contrario, dissero «gentes minores» le case nobili nuove provenute dopo le cittá, come furono quelle de’ padri de’ quali Tarquinio Prisco prima, e poi Giunio Bruto, cacciati gli re da Roma, supplirono il senato ....

[1176] [325] .... onde spesso i giureconsulti, ed anco i volgari latini scrittori dal secolo d’Augusto in poi, in ragionando de iusto, usano dire «verum est» per «aequum est».

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[Sezione Terza]

[1177] [330] .... preghiamo il leggitore che richiami alla memoria e risvegli nella fantasia qualunque anticipato concetto di qualunque materia [CMA2] d’intorno alle origini di tutto lo scibile divino ed umano della gentilitá .... [SN2] Che certamente, egli ...., faccendo cotal confronto, s’accorgerá essere tutti pregiudizi ed oscuri e sconci, e la lor fantasia esser un covile di tanti mostri e la lor memoria una cimmeria grotta di tante tenebre. Ma, perché egli cangi in piacere la dispiacenza che certamente dovrá recargli cotal veduta, la quale, quanto egli sará piú addottrinato, dovrá farglisi sentire maggiore, perché piú il disagia ed incomoda di ciò sullo che esso giá riposava: per tutto ciò esso faccia conto che quanto immagina e si ricorda d’intorno a’ princípi di tutte le parti che compiono il subbietto della sapienza profana, sia una di quelle capricciose dipinture, le quali, sfacciate, dánno a vedere informissimi mostri, ma, dal giusto punto della loro prospettiva guardate di profilo, dánno a vedere bellissime formate figure.

[1178] Ma tal giusto punto di prospettiva ci niegano di ritruovare le due borie che nelle Degnitá abbiamo dimostro. La boria delle gentili nazioni, che diceva Diodoro sicolo, d’essere stata ogniuna la prima del mondo (dalla quale da Gioseffo udimmo essere stata lontana l’ebrea), ci disanima di ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filologi; la boria de’ dotti, che vogliono ciò che essi sanno essere stato eminentemente inteso dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da’ filosofi. In tal disperazione hassi a porre il leggitore che voglia profittare di questa Scienza, come se per lo di lei acquisto non ci fussero affatto libri nel mondo. Né noi l’aremmo ritruovata altrimenti, senonsé la provvedenza divina ci avesse cosí guidato nel corso de’ nostri studi, che, non avendo avuto maestri, non ci determinammo da niuna passione di scuola o setta; e, ’n cotal guisa, dalla bella prima che incominciammo a profondare ne’ princípi dell’umanitá gentilesca, sempre meno e meno soddisfaccendoci ciò che se n’era scritto, stabilimmo finalmente da ben venti anni fa di non legger piú libri; come ultimamente risapemmo aver fatto, con magnanimo sforzo ma con infelice

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evento, l’inghilese Tommas Obbes, il quale in questa parte credette di accrescere la greca filosofia, e se ne vantava co’ dotti amici che, se esso, come quelli, avesse seguitato a leggere gli scrittori, non sarebbe piú d’ogniuno di essi.

[1179] [331] Ma in tal densa notte di tenebre .... apparisce .... questa veritá, che può servirci di cinosura, onde giugniamo al disiderato porto di questa Scienza: che questo mondo civile certamente egli è stato fatto dagli uomini ....

[1180] [336] Se voglia opporsi al secondo alcuno, che, in questa mansuetudine d’atti e parole, sia di mente piú immane che non furono le fiere d’Orfeo, e voglia appruovare a’ dissoluti ch’i concubiti .... senza solennitá di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, egli fugga e si nasconda in ogni angulo piú riposto del mondo, ché sará ripreso di tal sua falsa oppenione. Poiché le nazioni tutte la riprendano di falso con essi costumi umani .... ch’è l’infame nefas del mondo eslege, che determina nefari cosí fatti concubiti, de’ quali non poté intendere la ragione naturale Socrate né gli altri (tra’ quali è Ugon Grozio) che gli vennero appresso. [CMA4] E la ragione naturale si è perché, con tali concubiti, si pianta sopra il piantato, e sí, quanto è per essi, coloro che l’usano, non a propagare, vanno a restrignere e per ultimo a finire la generazione degli uomini.

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[Sezione Quarta]

[1181] [338*] Ch’è la molesta fatiga che deon fare i curiosi di questa Scienza, di cuoprire d’obblio le loro fantasie e le loro memorie e lasciar libero il luogo al solo puro intendimento; e, ’n cotal guisa, da tal primo pensier umano incominceranno a scuoprire le finora seppellite origini di tante cose che compongono ed abbelliscono cosí questo mondo civile come quel delle scienze, per lo cui scuoprimento con tanta gloria travagliarono, del mondo civile, Marco Terenzio Varrone ne’ suoi libri Rerum divinarum et humanarum, e, del mondo delle scienze, Bacone da Verulamio. E, sventata ogni boria, e quella delle nazioni per ciò che attiensi al mondo civile, e quella de’ dotti per ciò che riguarda il mondo delle scienze, tutte con merito di veritá e con ragion di giustizia, quali (per la serie dell’umane cose e dell’umane idee che nelle Degnitá proponemmo) debbon esser l’origini di tutte le cose, tutte semplici e rozze si ravviseranno qui, come in loro embrione e matrice, dentro la sapienza de’ poeti teologi, che furono i primi sappienti del mondo gentilesco.

[1182] [349] .... in Dio [CMA3], ove voglia, il conoscere e ’l fare è una medesima cosa; di che nella nostra Vita letteraria, con una pruova metafisica, la quale tuttodí sperimentiamo nelle funzioni della nostra anima, abbiamo tratto questa dimostrazione.

[1183] Sono nella nostra mente certe eterne veritá, le quali non possiamo sconoscere e rinniegare, e ’n conseguenza che non sono da noi. Ma del rimanente sentiamo in noi una libertá di far, intendendovi, tutte le cose le quali hanno dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte, intendendovi, le facciamo: come l’immagini con la fantasia; le reminiscenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni co’ sensi; e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi, non essendo niuna di quelle che possa sussistere fuori di noi, onde soltanto durano quanto vi tegniamo applicata la nostra mente. Laonde delle veritá eterne, che non son in noi dal corpo, dobbiam intender esser principio un’idea eterna, che, nella sua cognizione, ove voglia, ella cria tutte le cose

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in tempo e le contiene tutte dentro di sé, e tutte, applicandovi, le conserva.

[1184] La qual dimostrazione pruova ad un fiato queste quattro grandi veritá:

1. ch’un’idea eterna è ’l principio di tutte le cose mortali;

2. che Dio è principio libero delle produzioni ad extra;

3. che ’l mondo è stato criato in tempo;

4. che vi sia provvedenza divina, la quale, intendendo, conserva tutte le cose criate.

[1185] Per tutto ciò quel «dovette, deve, dovrá» è una maniera archetipa e quasi creativa, la quale non si può avere che nell’idee eterne di Dio; poiché tanto vagliono «dovette» quanto «fu fatto», tanto «deve» quanto «si fa», tanto «dovrá» quanto vale «farassi». Talché cosí, in certo modo, la mente umana con questa Scienza procede a produrre da sé questo mondo di nazioni come la mente di Dio procede nel produrre il mondo della natura, il qual sommo Facitore, nel suo Principio, nel suo Verbo, nella sua eterna Idea, disse in tempo quel «Fiat» et facta sunt. E ’n cotal guisa questa Scienza, come nelle Degnitá avvisocci Aristotile, vien ad essere «de aeternis et immutabilibus».

[1186] [359] Ma tutte queste, anziché pruove le quali soddisfacciano i nostri intelletti, sono ammende che si fanno agli errori delle nostre memorie ed alle sconcezze delle nostre fantasie, e, per questo istesso, faranno piú di violenza a riceverle e piú di piacere dopo averle ricevute. Pruova sia di ciò che, se non avessimo avuto affatto scrittori, sí fatte pruove punto non ci arebbero bisognate, e senza esse resterebbono per tanto ben sodisfatti gl’intelletti di ciò che ne aremmo ragionato in idea; anzi, liberi di cotanto vecchie, comuni e robuste anticipate oppenioni, ci ritruoveremmo piú docili a ricevere questa Scienza.

[1187] [360] .... questi deon esser i confini piú accertati e piú utili alle repubbliche cristiane, che distinguono la ragione e la fede, che non sono quelli di Pier Daniello Uezio, ultimamente in un libro postumo usciti alla luce. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l’umanitá.

[1188] Ora qui si rapportino tutte le degnitá dalla i [ii] fino alla xx [xxii], la xxix [xxxi], il secondo corollario della xli [xliii], la xlii [xliv], la lx [lxiv] e la lxi [lxv], l’ultimo della c [cv] e particolarmente la ci [cvi]; e si truoverá tutto lo qui detto essere eminentemente da quelle dimostrato.

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