Brani Delle Redazioni
BRANI DELLE REDAZIONI del 1730, 1731 e 1733 circa soppressi o sostanzialmente mutati nella redazione definitiva
Idea dell’opera
[1113] [18] .... l’origine di celebrarsi le cittá, che fu di guardarsi da’ malori che porta l’uomo all’uomo, piú infesti di tutti quelli che abbia mai apportato alla generazione umana tutta la maligna natura, come vi fu filosofo che ne ragionò ben il calcolo; — l’origine delle giuridizioni ....; — l’origini della nobiltá vera, che naturalmente nasce dalle civili virtú, come da pietá, religione, prudenza ne’ consigli, temperanza ne’ piaceri, industria nelle fatighe, la quale co’ vizi a queste virtú contrari si perde; — l’origini dell’eroismo .... e quelli che usano il corpo vi ubbidiscano.
[1114] Il qual ordine se a taluni sembra che non sia eterno, perocché la mente allora è tale quando usa ragione, giustizia e veritá, e negli Stati spesso comandano la fraude, il capriccio, la forza; rispondiamo che ne faccino sperienza negli Stati mossi e turbati, ne’ quali que’ che comandano sono costretti dall’eterna necessitá di quest’ordine naturale di rivoltarsi alla mente e riporre il governo in mano de’ saggi e forti; i quali, se i principi non san vedere o non possono ritruovare, allora certamente essi anderanno a servire popoli e nazioni ch’avranno mente migliore. Ond’è falso quello: che ’l mondo fu sempre di coloro c’hanno piú forza di corpi e d’armi; ma vero è questo: che ’l mondo fu sempre di que’ popoli c’hanno piú forza di mente (che è la veritá) e quindi piú di civili virtú. Perché ’l mondo romano era giá ricolmo di viltá e sozzo di tutti i fraudolenti vizi quando fu lacerato e guasto da’ barbari, ch’eran incomparabilmente piú generosi, siccome coloro che avevano piú schiettezza e piú veritá.
[1115] [23] La tavola mostra i soli princípi degli alfabeti, e giace rimpetto alla statova d’Omero, perché le lingue e i caratteri
volgari, come tutte le cose nate o fatte, si formarono a poco a poco. Di che è quella greca tradizione che, delle lettere greche, furon le prime ritruovate da Palamede nel tempo della guerra troiana; altre da Simonide poeta, il qual si racconta essere stato l’autore dell’Arte della memoria; e finalmente altre da Aristarco, che fu il critico ripurgatore de’ poemi d’Omero; ed è necessario che non si fussero formate tutte a’ tempi d’Omero, perché si dimostra per tutta l’opera che Omero non lasciò scritti i suoi poemi, e che forse da Aristarco incominciaron a scriversi ....[1116] [27] .... In cotal guisa ne’ duelli, che, ’n fatti, erano guerre private che si facevano da’ potenti, onde dura tuttavia tra’ grandi baroni, benché vassalli, questo senso di duellare tra essoloro per cagione delle loro giuridizioni violate, per le quali intimano le disfide (dette da «fida», vocabolo feudale, perché nacquero dentro la stessa barbarie quasi ad un parto feudi e duelli), fanno la «chiamata» che dicono, e diffiniscono le contese con la fortuna degli abbattimenti; — in cotal guisa, diciamo, ne’ duelli, o sieno guerre private, si truova l’origine delle guerre pubbliche, che le faccino i potenti del mondo (che sono le civili potestá non ad altri soggette ch’a Dio), che le giustifichino co’ manifesti, che le intimino solennemente per gli araldi di guerra, perché Iddio le diffinisca con la fortuna delle vittorie. E ciò, per consiglio della provvedenza divina, acciocché da guerre non si seminassero guerre, e che ’l gener umano riposasse sulla certezza de’ domíni pubblici; ch’è ’l principio della giustizia esterna che dicono delle guerre.
[1117] [29] .... vanno a ripararsi sotto le monarchie, ch’è l’altra spezie de’ governi umani, nella quale uno, ch’è ’l monarca, è ’l distinto, e tutti gli altri vi sono con le leggi tra essolor uguagliati: siccome i popoli ridutti alla disperazione sotto esse monarchie, negli estremi bisogni della vita e della libertá naturale, si richiamano alla popolar libertá. Talché le due ultime forme di governo ....
[1118] [35] .... La qual discoverta, ch’è la chiave maestra di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di tutta la nostra vita letteraria e, fatta finalmente, ci ha dato i princípi di questa Scienza. Lo che qui diciamo, per avvisarti, o leggitore, della grande difficultá che quivi dovrai incontrare per intenderne i princípi; la quale gli prende da tal maniera di pensare per caratteri poetici, la qual or è impossibile immaginare. Che se non sei menato a
leggerne questi libri, se non da voglia di apprendere nuovi lumi di vero, almeno da una indifferente curiositá di veder cosa portino di nuovo, e se non sei assistito da una invitta metafisica, la quale non oscuri i lumi della pura ragione con le nebbie delle anticipazioni concepute in forza d’irragionevole fantasia e invigorite da ostinata memoria, lascia da principio di leggergli, perché quindi prendono il lor principio. Tali caratteri si truovano essere stati generi fantastici ....[1119] [38] .... e nelle comoditá d’intrudere nelle favole la loro sapienza riposta. Onde nel secondo di questi libri, che fa quasi tutto il corpo di quest’opera, si fa una discoverta tutta opposta a quella del Verulamio nel suo Novus orbis scientiarum, dov’egli medita come le scienze, quali ora si hanno, si possano perfezionare. Questa scuopre l’antico mondo delle scienze, come dovettero nascere rozzamente e tratto tratto dirozzarsi, finché giugnessero nella forma nella quale ci sono pervenute.
[1120] [42*] Potrai facilmente, o leggitore, intendere la bellezza di questa divina dipintura dall’orrore che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra ch’ora ti do a vedere tutta contraria.
[1121] Il trigono luminoso e veggente allumi il globo mondano; che è la provvedenza divina, la quale il governa.
[1122] La falsa e quindi rea metafisica abbia l’ale delle tempie inchiovate al globo dalla parte opposta coverta d’ombre, perché non possa (e non può), perché non voglia (né sa perché non vuole) alzarsi sopra il mondo della natura; onde, dentro quelle sue tenebre, insegni o ’l cieco caso d’Epicuro o ’l sordo fato degli stoici, ed empiamente oppini che esso mondo sia Dio, o operante per necessitá (quale, con gli stoici, il vuole Benedetto Spinosa), ovvero operante a caso (che va di séguito alla metafisica che Giovanni Locke fa d’Epicuro), e (con entrambi), avendo tolto all’uomo ogni elezione e consiglio, avendo tolta a Dio ogni provvedenza, insegni che dappertutto debba regnar il capriccio, per incontrare o ’l caso o ’l fato che si desidera. Ella con la sinistra tenga la borsa, perché tali venenose dottrine non son insegnate che da uomini disperati, i quali o, vili, non ebbero mai parte allo Stato o, superbi, tenuti bassi o non promossi agli onori de’ quali per la lor boria si credon degni, sono malcontenti dello Stato; siccome Benedetto Spinosa, il quale, perché ebreo, non aveva niuna repubblica, truovò una metafisica da rovinare tutte le repubbliche del mondo. Con la destra tenga la bilancia, poiché ella è la
scienza che dá il criterio del vero, ovvero l’arte di ben giudicare; per la quale, troppo fastidiosa e dilicata, non acquetandosi a niuna veritá, finalmente caduta nello scetticismo, estima d’uguali pesi il giusto e l’ingiusto: ella, come gl’immanissimi Galli senoni fecero co’ romani, caricando una lance con la spada, la faccia sbilanciare, preponderando all’altra dove sia il caduceo di Mercurio, ch’è simbolo delle leggi; e cosí insegni dover servire le leggi alla forza ingiusta dell’armi.[1123] L’altare sia rovinato, spezzato il lituo, rovesciato l’urciuolo, spenta la fiaccola; e cosí ad un Dio sordo e cieco si nieghino tutti i divini onori e sien bandite dappertutto le cerimonie divine e, ’n conseguenza, sien tolti tralle nazioni i matrimoni solenni, che appo tutte con divine cerimonie si contraggono, e si celebrino il concubinato e ’l puttanesimo.
[1124] Il fascio romano sia sciolto, dissipato e disperso, e spenta ogni moral comandata dalle religioni con l’annientamento di esse, spenta ogni disciplina iconomica col dissolvimento de’ matrimoni, perisca affatto la dottrina politica, onde vadano a dissolversi tutti gl’imperi civili.
[1125] La statova d’Omero s’atterri, perché i poeti fondarono con la religione a tutti i gentili l’umanitá.
[1126] La tavola degli alfabeti giacciasi infranta nel suolo, perché la scienza delle lingue, con le quali parlano le religioni e le leggi, essa è quella che le conserva.
[1127] L’urna ceneraria dentro le selve porti iscritto «lemurum fabula», e ’l dente dell’aratro abbia spuntata la punta, e, tolta l’universal credenza dell’immortalitá dell’anima, lasciandosi i cadaveri inseppolti sopra la terra, s’abbandoni la coltivazione de’ campi, non che si disabitino le cittá; e ’l timone (geroglifico degli uomini empi senza niun’umana lingua e costume) si rinselvi ne’ boschi, e ritorni la ferina comunione delle cose e delle donne, le quali si debbano gli uomini appropiare con la violenza e col sangue.
[1128] Il molto finora detto si è per facilitarti, o benigno leggitore, la lezion di quest’opera. Mi rimane or pochissimo a dire per priegarti a giudicarne benignamente.
[1129] Perocché déi sapere che quell’utilissimo avviso che Dionigi Longino, riverito da tutti per lo principe de’ critici, dá agli oratori: che, per far orazioni sublimi, loro bisogna proponersi l’eternitá della fama, e, per ciò conseguire, ne dá loro due pratiche, noi, da’ lavori dell’eloquenza a tutti di qualsivoglia scienza innalzando,
nel meditar quest’opera abbiamo sempre avuto inanzi gli occhi. La prima pratica è stata: Come riceverebbono queste cose ch’io medito un Platone, un Varrone, un Quinto Muzio Scevola? La seconda pratica è stata quella: Come riceverá queste cose, ch’io scrivo, la posteritá? Ancora per la stima ch’io debbo fare di te, m’ho prefisso per giudici tali uomini, i quali, per tanto cangiar di etá, di nazioni, di lingue, di costumi e mode e gusti di sapere, non sono punto scemati dal credito, il primo di divino filosofo, il secondo del piú dotto filologo de’ romani, il terzo di sappientissimo giureconsulto, che come oracolo venerarono i Crassi, i Marcantoni, i Sulpizi, i Cesari, i Ciceroni.[1130] Oltracciò, déi far questo conto: che tal opera siesi disotterrata poc’anzi in una cittá rovinata da ben mille anni, e porti cancellato affatto il nome dell’autore; e vedi che non forse questo mio tempo, questa mia vita, questo tal mio nome t’inducano a farne un giudizio men che benigno. E quel motto: «Quem ullum tanta superbia esse ut aeternitatem famae spe praesumat?», rincontra, di grazia, negli Annali di Tacito da quali rei uomini si dica; e rifletti che lo stesso imperador Claudio, a cui si dice, quantunque stolido principe e vil servo di laidi ed avari liberti, pure il disappruova di sconcezza, nel tempo stesso che ne fa uso.
[1131] Conchiudiamo finalmente con questi pochi seguenti avvisi per alcun giovine che voglia profittare di questa Scienza.
[1132] I. — Primieramente ella fa il suo lavoro tutto metafisico ed astratto nella sua idea. Onde ti è bisogno, nel leggerla, di spogliarti d’ogni corpolenza e di tutto ciò che da quella alla nostra pura mente proviene, e quindi per un poco addormentare la fantasia e sopir la memoria. Perché, se queste facultá vi son deste, la mente non può ridursi in istato d’un puro intendimento informe d’ogni forma particolare; per lo che non potravvi affatto indurvisi la forma di questa Scienza, e per tua colpa darai in quell’uscita: — che non s’intenda.
[1133] II. — Ella ragiona con uno stretto metodo geometrico, con cui da vero passa ad immediato vero, e cosí vi fa le sue conchiusioni. Laonde ti è bisogno di aver fatto l’abito del ragionar geometricamente; e perciò non aprire a sorte questi libri per leggerli, né per salti, ma continovane la lezione da capo a’ piedi. E déi attendere se le premesse sieno vere e ben ordinate, e non maravigliarti se quasi tutte le conchiusioni n’escano maravigliose (lo che sovente avviene in essa geometria, come quella, per esemplo, delle
due linee parallele che tra loro in infinito sempre s’accostano e non mai si toccano); perché la conseguenza è turbata dalla fantasia, ma le premesse s’attennero alla pura ragion astratta.[1134] III. — Suppone la medesima una grande e varia cosí dottrina com’erudizione, dalle quali si prendono le veritá come giá da te conosciute, e se ne serve come di termini per far le sue proposizioni. Il perché, se non sei di tutte pienamente fornito, vedi che tu non abbia il principio nell’ultima disposizion di riceverla.
[1135] IV. — Oltre a cotal suppellettile, ti fa d’uopo d’una mente comprensiva, perché non è cosa che da questa Scienza ragionasi, nella quale non convengano altre innumerabili d’altre spezie che tratta, con le quali fa acconcezza, e partitamente con ciascheduna, e con tutte insieme nel tutto; nello che unicamente consiste tutta la bellezza d’una perfetta scienza. Perciò, se ti manca o questo o l’antecedente aiuto, e molto piú entrambi, per leggerla, ti avverrá ciò ch’avviene a’ sordastri, i quali odono una o due corde piú sonore del gravicembalo con dispiacenza, perché non odono le altre con le quali, toccate dalla mano maestra di musica, fanno dolce e grata armonia.
[1136] V. — Ella contiene tutte discoverte in gran parti diverse, e molte dello ’n tutto contrarie, all’oppenione che, delle cose le quali qui si ragionano, si è avuto finora. Talché ti bisogna d’una forte acutezza di mente, da non abbacinarsi al gran numero de’ nuovi lumi ch’ella dappertutto diffonde.
[1137] VI. — Di piú ella spiega idee tutte nuove nella loro spezie. Perciò ti priego a volertici avvezzare, con leggere almeno tre volte quest’opera.
[1138] VII. — Finalmente, per farti sentire il nerbo delle pruove, le quali col dilatarsi si infievoliscono, qui poco si dice e si lascia molto a pensare. E perciò ti bisogna meditare piú addentro le cose e, col combinarle vieppiú, vederle in piú ampia distesa, affinché tu possa averne acquistato la facultá.
LIBRO PRIMO
[Sezione Prima]
[1139] [55] .... come in quest’opera tal civil costume di quasi tutte, come si ha certamente della romana, vien dimostrato. [CMA4] Sicché tal avesse fatto prima Nino contro di Zoroaste, quale fece poi Arbace contro Sardanapalo, ultimo re dell’Assiria; onde dicono ch’indi in poi furono due regni d’Assiria, con due cittá capitali: Ninive e Babillonia, la qual veritá usano i critici bibbici per ischiarire la storia sagra ove narra la schiavitú babilonese del popolo ebreo. Ed essa storia pur ci racconta ....
[1140] [59] .... dovettero agli orientali essere Zoroasti. [CMA3] Perocché i mitologi, con le loro interpetrazioni erudite, fanno Ercole anche dotto d’astronomia, e ne spiegano quella favola ch’egli succedette al vecchio Atlante, stanco di piú sostenere sopra i suoi òmeri il cielo; ed or or vedremo che Atlante egli è da’ filologi creduto scolare di Zoroaste. [SN2] Però di quelli il primo di tutti è ’l caldeo, che ci appruova la Caldea essere stata la prima nazione di tutta la gentilitá. Ma la boria de’ dotti .... gli ha appiccato gli oracoli della filosofia, appigliatisi temerariamente a due volgari tradizioni: una, che Zoroaste fu sappiente (ma quella intese della sapienza volgare con la quale si fondarono i popoli); l’altra, che gli oracoli sono le cose piú antiche che ci narra essa antichitá (ma questa volle dir oracoli d’indovini, non di filosofi). E ’n fatti tali oracoli di Zoroaste non fann’altro che smaltire per vecchia una troppo nuova dottrina .... e non si conobbero tra loro che con l’occasion delle guerre o per cagione de’ traffichi.
[1141] Quindi, frattanto, però s’intenda di che bollore di fantasia fervette cotal boria de’ dotti nel capo di Samuello Reyero, De mathesi mosaica, ove vaneggia che la torre di Babillonia fossesi innalzata per osservatoio delle stelle. Lo che deve andar di séguito a ciò che, forse per conciliar con le novelle curiose la maraviglia a’ suoi libri De caelo, [CMA1] (se pur son suoi, [CMA3] perocché i critici glieli negano), [SN2] narra Aristotile: che Callistene, suo genero, gli aveva mandato l’osservazioni astronomiche fatte da’ caldei ben mille e novecento e tre anni del tempo suo, le quali, tornando indietro, portavano fin al tempo ch’essa torre si alzò.
[1142] [CMA3*] Certamente de’ Zoroasti ce ne vennero nominati il caldeo, il medo, l’ero‐armenio, il panfilio, i quai solamente ha saputo osservar e raccogliere lo Stanleo nella sua Istoria della filosofia. Ma queste notizie son troppo oscure e confuse per poter ragionare con iscienza de’ princípi della storia universale, la quale, con tutte queste notizie, ella, cosí per gli mostri di cronologia poco sopra accennati, come per questi di geografia i quali qui accenneremo, ha finor mancato al mondo delle scienze. Diciamo adunque [CMA4] che, per una maniera poetica di pensare (che nella Metafisica poetica si truoverá uniforme per natura in tutte le prime nazioni gentili), siccome gli egizi tutti i fondatori dell’altre nazioni dissero aver preso il nome dall’Ercole egizio, e siccome i greci fecero andar il lor Ercole per lo mondo a disseminare per le nazioni l’umanitá, cosí i caldei tutti gli autori delle nazioni dell’Asia dissero Zoroasti.
[1143] [CMA3*] E per questi stessi nostri princípi di geografia ritruoveremo che Zoroaste caldeo fu battriano, come narrano le storie, però da Battro posto dentro i confini della Caldea medesima; siccome ritruoveremo Orfeo essere stato della Tracia posta dentro i confini della medesima Grecia, perch’egli certamente fu uno de’ poeti teologi greci; e che cosí Orfeo uscí dal di lei settentrione a fondare la Grecia, come Zoroaste uscí dal di lei settentrione a fondar la Caldea. E tali princípi s’hanno a dare alla Caldea, ne’ suoi primi tempi di brievissimi confini, dentro i quali Battro, donde fu Zoroaste, dev’essere stato nel mezzo dell’Asia, perché si faccia ancor verisimile il vero della storia sagra d’intorno a questi tre punti massimi:
1. che, dopo il diluvio, l’arca si fermò ne’ monti dell’Armenia,
2. che Noè si fermò nella Mesopotamia,
3. che Semo quivi propagò la sua nazione, da’ cui rinniegati provennero essi caldei; ed ad un fiato si faccia credibile la storia profana, la qual, appo Giustino, propone come suoi antiprincípi, innanzi alla monarchia degli assiri, Tanai scita e Sesostride egizio ....
[1144] Con tanta traccuratezza hanno finora tutti i dotti ricevuto i princípi della storia universale! E ciò sia detto di Zoroaste.
[1145] [60] .... come restò a’ latini «chaldaeus» per «astrolago giudiziario». Per tutto ciò abbiamo noi allogato Zoroaste a lato di Giapeto, perocché sia il carattere della razza di Sem, che tratto tratto passò dalla vera religione all’idolatria, dalla quale si fondò il regno di Nebrod.
[1146] [62] La quale per gli nostri princípi si dimostra esser avvenuta nella discendenza di Sem per lo mondo dell’Asia orientale, ma essere stata diversa l’origine della diversitá delle lingue nelle razze giá fatte e disperse per l’Asia settentrionale (e quindi nella Scizia) e per la meridionale (e quindi nell’Indie), per l’Affrica e per l’Europa, con l’errore di dugento anni, nel quale Cam e Giafet l’avevano mandate. Ché tante vi volle di tempo dalla divisione della terra tra questi tre figliuoli di Noè infin alla confusione babillonese delle lingue, se mai la divisione tra queste razze fusse avvenuta prima della confusione babillonese: lo che però appare contrario a ciò che la Scrittura sagra ne divisa nel Genesi. Perocché, altrimenti, se la divisione fosse seguíta prima della confusione, seguirebbe questa sconcezza: che, essendosi cominciati da dugento anni innanzi a dividere sulla terra gli tre figliuoli di Noè, le razze empie di Cam e Giafet arebbono conservato la lingua santa avantidiluviana, e si sarebbono sottratti al divin castigo le razze empie di Cam e Giafet, e solamente punita la razza di Sem, ch’era pur pia, perché credeva in una qualche divinitá, e derivata la pena anco nel popolo di Dio. Perocché vogliono padri che, con la confusione babillonese delle lingue, si venne tratto tratto a perdere la puritá della lingua santa avantidiluviana.
[1147] Né per ciò si dice cosa punto contraria a ciò che narra la storia santa: che, avanti la confusione, tutti gli uomini sopra la terra erano d’un labbro solo, cioè d’una sola spezie di lingua. Perché le razze sperdute di Cam e Giafet, se la divisione fosse sortita prima della confusione (lo che non si può dire, essendo apertamente contrario a ciò che si narra nel Genesi), dovettero ritenere della lingua ebrea fin tanto che, a poco a poco, come
fiere bestie disperse per la gran selva della terra, a capo di dugento anni che corsero dal partaggio di essa, cioè di un anno dopo il diluvio, ne’ quali avvenne essa confusione, disumanandosi, avevano affatto perduto ogni umana favella.[1148] Quindi si traggono tre veritá: la prima, che questa Scienza conserva alla storia santa la degnitá;
la seconda, perché i caldei andarono piú prestamente degli altri alle false religioni, truovarono una spezie di divinazione piú dilicata e piú dotta che non fu quella che truovarono le razze di Cam e Giafet, che fu la divinazione da’ fulmini, tuoni, voli e canti d’uccelli;
la terza, che essi caldei, per questo istesso presto cammino alle false religioni, prevenendo tutt’altre nel corso che fanno le nazioni, gittarono le fondamenta alla prima monarchia degli assiri.
[1149] [66] .... l’avesser insegnate all’altre nazioni del mondo. Ma i greci si portarono troppo ingrati inverso un tanto benefattore, che e ne sconciarono il proprio nome, e l’accomunarono a tutte l’altre divinitadi, e ne truovarono per lui un altro, che è Ἡρμῆς,/ che vuol dire Mercurio. Dipoi non iscrissero le loro leggi co’ geroglifici ....
[1150] [68] Ora, per ciò ch’attiensi a questo gran momento della cristiana religione — che Mosè non abbia fatto alcun uso della religione né della polizia degli egizi — travaglia la cronologia. Perché Eusebio, seguíto da Beda, sperava di superar tal difficultá col suo calcolo, per lo quale poneva l’uscita degl’israeliti da Egitto sotto la condotta di Mosè da un mille anni innanzi alla guerra di Troia; il qual novero d’anni fu seguíto da’ cristiani antichi. Ma ora egli è stato corretto ed emendato piú d’un migliaio e mezzo d’anni da’ cristiani ultimi, i quali oggi sieguono il calcolo di Filone giudeo, la qual correzione si confermerá per gli nostri princípi, co’ quali dimostreremo che, per l’etá degli dèi e per l’etá degli eroi, abbia dovuto correre un settecento anni tra l’etá di Mosè e la guerra troiana; e sí, per tal calcolo di tanto scemato, viene Mosè a fiorire da quattrocento anni innanzi la guerra troiana, e, ’n conseguenza, a’ tempi di Cecrope, e perciò vien ad essere dopo di questo Mercurio egizio. Però questa grande difficultá della cronologia cristiana si truova spianata da’ nostri princípi, fermati in un luogo veramente d’oro di Giamblico .... ma un carattere de’ primi fondatori della nazion egizia. Laonde tal Mercurio [CMA3]
degli egizi, ch’è ’l Cam dell’Asia meridionale e dell’Affrica, [SN2] sarebbe su questa Tavola da porsi [CMA4] a manca di Zoroaste, [CMA3], ch’è la razza empia di Sem sparsa per l’Asia orientale, e di [SN2] Giafet, ch’è ’l Giapeto dell’Asia settentrionale e dell’Europa, nel livello della divisione che fecero della terra i tre figliuoli di Noè. E per questo istesso luogo di Giamblico ....[1151] [70] Quindi, come da vecchio covile, esce un gran mostro di cronologia: che da Elleno a Giapeto corrono due vite, di Deucalione e Prometeo, viva pur ciascuno cinquanta anni (quando i cronologi le vite incerte stabiliscono di trenta e poco piú), e sí abbiano corso cento anni. Ma ne corrono quattrocentoventicinque! Questi mostri ha nudrito nascostamente finora per la cronologia l’oppenione d’essere stati particolari uomini quelli che ci ha narrato la storia favolosa! Da quest’Elleno i greci natii si disser «elleni» .... ond’essi eran venuti colonie in Italia, ed altrettanto ne seppero i latini, mentre si formaron la lingua. Perché tal voce ....
[1152] [80] .... Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilitá fa sant’Agostino [CMA3] per questo motivo preso dall’Eunuco di Terenzio, a cui ora noi soggiugniamo queste ponderazioni. Che ’l Cherea si finge dal poeta un giovinetto di sedici anni, d’una sublime ardente natura, giudice di bellezze d’un gusto raffinatissimo, che di niuna si era fin allor compiaciuto, come il professa col suo amico Antifone. S’innamora della schiava ad un’occhiata, in vedendola per istrada passare (che dá ad intendere di che bellezza luminosa ella fusse); e ne concepisce all’istante un amore cosí perduto, che un gentiluomo ateniese, cioè a dire della cittá la quale dappertutto spirava beninteso, convenevole ed aggiustato, soffre travvestirsi da eunuco, e da vile schiavo di esser menato da Parmenone, suo servo, a servire una meretrice di Taide; e faceva fine di tutti i suoi disidèri il poterla vedere, parlarle, talora mangiarvi insieme e dormirle alcuna volta da presso. Ma, in guardare la pittura di Giove, il quale, cangiato in pioggia d’oro, si giace con Danae, quell’ardire che non gli diedero tante e sí possenti naturali cagioni, da tal divino esemplo prende di violarla.
[1153] [89] .... potessero veleggiar un intiero giorno. [CMA3] Tal veritá osservò Omero quando portossi in Egitto, dove narra che la moglie del re Tono aveva ad Elena donato il nepente; della cui simigliante maniera dev’essere stato in Fenicia, dov’Elena pur aveva da’ grandi ricevuti de’ gran doni; e quivi narra l’isola di Calipso, detta Ogigia ....
[1154] [94*] [CMA3] Le quali cose tutte ad un colpo devono rovesciar il sistema di Giovanni Seldeno, il quale pretende il diritto naturale della ragion eterna essere stato dagli ebrei insegnato a’ gentili sopra i sette precetti lasciati da Dio a’ figliuoli di Noè; devono rovesciar il Faleg di Samuello Bocarto, che vuole la lingua santa essersi propagata dagli ebrei all’altre nazioni e tra queste fossesi difformata e corrotta; e finalmente devono rovesciare la Dimostrazion evangelica di Daniello Uezio, che va di séguito al Faleg di Bocarto, come il Faleg del Bocarto va di séguito al sistema del Seldeno, nella quale l’uomo eruditissimo s’industria di dar a credere che le favole siano sagre storie alterate e corrotte da’ gentili e sopra tutti da’ greci.
[1155] [104] .... onde Publilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittator popolare». Perocché ’l dittatore non si criava senonsé negli ultimi pericoli dentro o fuori della repubblica, e perciò si criava con somma monarchica potestá di poter riformare anco, se fusse di bisogno, lo Stato, conforme con la dittatura il cambiò, se non di Stato, certamente di governo, da libera in aristocratica, per cinque anni Silla. [CMA3] E ’l dittatore si preconizzava dal senato, perché il dicevano, non co’ verbi «creare» o «facere», come de’ consoli, pretori e d’altri maestrati, ma «dicere dictatorem»; ove i romani, sappientissimi delle cose dello Stato, intesero la forza monarchica della dittatura e che i monarchi si fanno da Dio e si acclaman dagli uomini. E perciò non solamente da dittatore, durando, non si appellava, né si rendeva ragione finita la dittatura, ma, riassumendo quello in sé tutti gl’imperi minori, sotto di lui, per dirla con l’elegante espressione latina, «omnes magistratus silebant». Lo che ben avvisò Tacito nel terzo motto degli Annali, ove dice «Dictaturae ad tempus sumebantur», usando una delle due formole de’ legati detti «per vindicationem», per ogniuna delle quali i legatari gli si prendevano di propia autoritá, né avevano bisogno di ricevergli dalla mano dell’erede, le quali formole erano «capito» ovvero «sumito». [SN2] Per le quali ragioni, essendo messa su di nuovo con nuove rivolte cotal contesa d’intorno alla forma dello Stato popolare, per rassettarla se ne criò Ortensio dittatore, che confermò la legge publilia.
[1156] Le quali due leggi sono state finora guardate dagli eruditi interpetri della ragion romana per insegnar dalle cattedre a’ semplici giovinetti che con tali leggi fu data a’ plebisciti, o leggi tribunizie, forza eguale alle leggi consolari, e ci lasciarono la repubblica
romana con due potestá somme legislatrici, indistinte ne’ distretti, nelle materie e ne’ tempi (che è un gran mostro di repubblica); perché non ne han saputo intendere il linguaggio: che, di ciò ch’avesse la plebe comandato con le leggi tribunizie, non potesse il popolo comandar il contrario con le leggi consolari. Lo che appresso sará da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che vediamo un’idea per ipotesi.[1157] [112] Con uguali passi, gli stessi tribuni s’avvanzarono nella potestá di comandare le leggi. Perocché prima i loro plebisciti non eran altro che dichiarazioni che faceva la plebe de’ nobili ad essolei esosi, perocché fussero gravi alla sua libertá, [CMA3] come aveva fatto a Coriolano. [SN2] Perché non poterono da principio certamente i loro plebisciti comandar pena, perché la plebe non aveva imperi; onde crediamo che i primi plebisciti romani sieno stati gli stessi che gli ostracismi d’Atene, co’ quali i chiari cittadini prendevansi per diece anni l’esiglio, e l’esiglio appo romani fin a’ tempi de’ principi non fu spezie di pena, ma scampo. Ma ne’ tempi di Filone dovettero giugnere i plebei a comandar leggi universali, [CMA3] come dalla storia delle leggi romane chiaramente apparisce averne di fatto comandate molte. [SN2] Quindi, essendo la repubblica romana caduta in questo grandissimo disordine, di nudrire dentro il suo seno due potestá, .... ordinò che d’intorno a ciò che la plebe avesse comandato ne’ comizi tributi, ne’ quali prevalevano i plebei, siccome quelli da’ quali si davano i voti per teste, i quiriti, i romani in adunanza (ché tanto, propiamente, suona tal voce, né «quirite» nel numero del meno si è detto mai), fussero da’ plebisciti obbligati. Che è tanto dire quanto non potessero ordinare leggi a quelli contrarie ne’ comizi centuriati, ne’ quali prevalevan i nobili, siccome quelli ch’ivi davan i voti per patrimoni. [CMA4] Onde, perché ne’ comizi centuriati prevalevano i senatori, pesandovisi i voti per patrimoni, e ne’ comizi tributi prevalevano i plebei, numerandovisi i voti per teste, avevano la ragione i padri di lamentarsi, appo Livio, ch’avevano perduto piú in pace ch’acquistato in guerra quell’anno, nel quale pur fecero i romani molte e grandi conquiste. Per tutto ciò, essendo giá, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti ....
[1158] [115] .... Il qual grand’effetto di cose romane, se non com’in sua propia cagione regge sulla ragion eterna de’ feudi (da noi scoverta nell’opera, schiarita nell’Annotazioni e molto piú avvalorata,
come si vedrá, in questi libri), non sappiamo certamente qual via s’abbiano tutti i politici e tutt’i giureconsulti c’hanno scritto de iure publico da poterne uscir con onore; particolarmente con due luoghi, quanto per noi opportuni, tanto duri scogli ad essi da rompervi, entrambi di Cicerone. De’ quali uno è in una Catilinaria, dov’afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica — [CMA3] lo che pur egli oratoriamente dice, spostandone il sentimento, ch’andava ben di séguito alla formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: «Qui rempublicam salvam velit, consulem sequatur» (quando sembra il senato turbar piú tosto lo Stato, che s’oppone al popolo, signore dell’imperio, che vuol disporre de’ campi da esso acquistati per forza d’armi nelle provincie) — [SN2] e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato. L’altro è nell’orazione a pro di Roscio Amerino, ove dice che Silla aveva iure gentium riportato vittoria di Mario.[Sezione Seconda]
[1159] [119] .... cosí deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni. Onde non piú (come finora in tutti i ragionamenti che si leggono sui libri d’intorno a’ princípi di religioni, lingue, ordini, costumi, leggi, potestadi, imperi, domíni, commerzi, giudizi, pene, guerre, paci, allianze, che l’intiero subbietto ne compiono) ragioni contro ragioni, autoritá contro autoritá con ostinata guerra combattino, ma si compongano in una perpetua pace.
[1160] [120] [CMA2] La prima e principale di tutte le degnitá [CMA3] qui appresso proposte [CMA2] era questa gran metafisica veritá, [CMA3] la qual noi certamente avevamo usata in tutta quest’opera per rinvenire l’origini delle nazioni e delle scienze, le quali senza dubbio da esse nazioni sono state ritruovate; ma non avevano fin a quest’altra impressione avvertita. La qual è che l’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo, e, con questa smisurata misura, esso, delle cose che ignora, immagina sformatamente piú di quello ch’elleno son in fatti.
[1161] [123*] Questa stessa degnitá dimostra la boria essere figliuola dell’ignoranza e dell’amor propio, il quale ci gonfia, perciocché in noi sono troppo indonnate l’idee ch’abbiamo di noi medesimi e delle cose nostre, e con quelle come matti guardiamo le cose che da noi non s’intendono.
[1162] [127] A tal boria di nazioni aggiugniamo noi la boria de’ dotti, i quali ciò che essi sanno vogliono che lo sia antico quanto che ’l mondo; onde ogni ragionamento erudito che si faccia d’intorno ad ogni materia, udiamo incominciare dalla formazione del primo uomo, e che ciò che essi sanno sia principio al quale sien da richiamarsi tutte le cose che sanno gli altri.
[1163] [128*] Entrambe queste degnitá deon ammonir il leggitore il qual voglia profittare di questa Scienza (poiché entrambe queste borie provengono da ignoranza) di porsi in uno stato [piuttosto] di non saper nulla con docilitá, che con orgoglio di giá saper tutto de’ princípi dell’umanitá.
[1164] [146] .... Ma in cotal guisa egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli con umano provvedimento, [CMA3] come dall’imperadore Antonino Pio in poi fu il diritto civile romano comunicato a tutto il mondo soggetto al romano imperio, e non sarebbe un diritto con essi umani costumi naturalmente ordinato dalla divina provvedenza a tutte le nazioni, le quali, riconoscendo tai costumi uniformi senza avergli le une all’altre comunicati, gli osservarono come «iura a diis posita» e τῶν θεῶν δώρον, «dono degli dèi», come ne diffinisce il diritto natural delle genti Demostene. Questo sará lo piú gran lavoro che si fará per tutti questi libri ....
[1165] [163] .... le quali si prendono dalle inverisimiglianze, [CMA3] assurdi, sconcezze, contradizioni e impossibilitá di cotali oppenioni. Ma di queste quattro la prima ne dará altresí i primi fondamenti delle ragioni con le quali questa Scienza stabilisce i princípi dell’umanitá gentilesca, che si truoveranno esser quelli della poesia, a cagion che i di lei fondatori, per la lor somma ignoranza faccendosi regola dell’universo, con le loro favole formarono gli tre mondi descritti nella dipintura, cioè quello degli dèi, quello della natura e quello loro propio degli uomini. Le seguenti degnitá dalla quinta fin alla decimaquinta ....
[1166] [195] Questa stessa degnitá con l’antecedente ne dee determinare dugento anni ne’ quali le razze [CMA3] sperdute di Cam subito, di Giafet alquanto dopo, e finalmente di Sem alla fine, tratto tratto [SN2] fussero andate in uno stato ferino .... e con l’educazione ferina vi fussero provenuti e truovati giganti nel tempo che la prima volta dopo il diluvio fulminò il cielo. Ma per l’altezza della Mesopotamia, ch’è la terra piú mediterranea della parte piú terrestre del mondo, donde incominciò la divisione della terra tra’ figliuoli di Noè, è necessario vi avesse fulminato il cielo da un cento anni prima; donde si truovarono uniti in popolo li caldei, i quali, dugento anni dopo il diluvio, sotto Nebrod alzarono in Babillonia la torre della confusione. Lo che si dimostra da ciò: che ora la vasta terra, ove fu Babillonia, è tutta sfruttata, perché per la sua altezza ne sia scorso giú l’umidore, che conservano tuttavia l’altre terre del mondo.
[1167] [240] .... «lex» dovett’essere «raccolta di cittadini», [CMA3] o sia civil ragunanza per comandarvi le leggi: onde la presenza del popolo solennizava gli atti legittimi tra’ romani, e quindi i testamenti i quali si dicevano farsi «calatis comitiis», ch’erano
per necessitá di natura tutti nuncupativi, perché i testamenti scritti furono appresso introdutti dal pretore, poi che s’era ritruovata la scrittura volgare; e a’ tempi barbari ritornati, ne’ quali erano radi coloro che sapessero di lettera, la pubblica ragunanza fu detta «parlamento». Finalmente, poi che fu ritruovata la scrittura volgare, fu da’ gramatici con comune errore creduto che «lex» sia stata detta a «legendo», quando, per le origini delle lingue che dentro si truoveranno, da «lex» deve venire esso «legere», che altro non è che raccoglier lettere. Tanto la scrittura è di sostanza della legge! [SN2] E questa degnitá con l’altra antecedente tornano a rinniegare la sapienza riposta de’ fondatori de’ primi popoli.[1168] [267] .... gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, [CMA3] ed erano prefetti delle divine cerimonie, [SN2] e che i regni antichi si diferivano per elezione, non per successione, il quale civil costume riputa esser propio de’ barbari. [CMA3] Il qual ultimo detto sará da noi esaminato nel libro quarto.
[1169] [268] Di questa degnitá la prima parte per la lxxviii [lxxxii] è conseguenza della lxviii [lxxii]; la seconda cade tutta a livello ne’ due regni eroici di Teseo e di Romolo .... ove Tullio Ostilio ministra la legge nell’accusa d’Orazio. E perché le leggi erano osservate come cose sagre ne’ tempi eroici, gli re romani erano anco re delle cose sagre .... il capo de’ feciali o sia degli araldi. E sí nelle persone degli re eroici passarono unite sapienza di leggi, sacerdozio di cerimonie divine e regno d’armi; e l’uno e l’altro regno si diferí per elezione: l’ateniese fino a’ Pisistratidi, il romano fin a’ Tarquini. Né queste cose dette da noi turba punto il regno spartano, che fu eroico, nel quale succedevano i soli Eraclidi, perché, come si spiegherá dentro, vi venivano per elezione i nobili della razza di Ercole.
[1170] [271] .... i nobili giuravano d’esser eterni nemici, come fu la casa nobilissima Appia alla plebe romana.
[1171] [292*] [CMA3] Questa degnitá con la seguente, unita con la lxviii, scuopriranno queste tre veritá importantissime:
1. i princípi finor seppolti della dottrina politica;
2. la natural successione delle repubbliche;
3. e finalmente che dalle plebi de’ popoli vengono sempre e tutte le mutazioni degli Stati civili.
[310*] [CMA1]
civ bis.
[1172] Le sorgive di tutte le umane azioni sono tre: onestá, utilitá, necessitá.
[1173] Questa degnitá dá i princípi della differenza tra ’l diritto natural de’ filosofi, ch’è dettato dall’onestá, per la quale gli uomini dovrebbono per ragion fare gli piú esatti doveri della giustizia; e ’l diritto natural delle genti, che si può ottenere dalla natura umana corrotta, che per le utilitá e necessitá della vita gli uomini celebrino quel giusto onde si conserva l’umana societá. Che è quello che i giureconsulti romani dicono nel diffinirlo: «usu exigente atque humanis necessitatibus expostulantibus».
[1174] [313] Questa stessa stabilisce la differenza da noi qui sopra detta del diritto natural delle genti, diritto natural de’ filosofi e diritto natural degli ebrei, che credevano nella provvedenza d’una mente infinita, e sopra il Sinai ebbero riordinata da Dio quella Legge ch’avevan avuto dal principio del mondo, cosí santa che vieta anco i pensieri meno che giusti, la quale non poteva osservarsi che da un popolo che riverisse e temesse un Dio tutto mente, che spia ne’ cuori degli uomini; e, ’n forza di tal legge, osservavano tutti i doveri dell’onestá. Onde «giusto» nella lingua santa significa «uomo d’ogni virtú»; per lo che gli ebrei sono da Teofrasto chiamati «filosofi per natura». Per tutte le quali tre differenze ....
[1175] [316] .... case nobili antiche, come quelle de’ padri de’ quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana cittá, tralle quali, come ne rapporta un’oppenione Suetonio, fu l’Appia Claudia co’ suoi vassalli, venutavi da Regillo. Come, al contrario, dissero «gentes minores» le case nobili nuove provenute dopo le cittá, come furono quelle de’ padri de’ quali Tarquinio Prisco prima, e poi Giunio Bruto, cacciati gli re da Roma, supplirono il senato ....
[1176] [325] .... onde spesso i giureconsulti, ed anco i volgari latini scrittori dal secolo d’Augusto in poi, in ragionando de iusto, usano dire «verum est» per «aequum est».
[Sezione Terza]
[1177] [330] .... preghiamo il leggitore che richiami alla memoria e risvegli nella fantasia qualunque anticipato concetto di qualunque materia [CMA2] d’intorno alle origini di tutto lo scibile divino ed umano della gentilitá .... [SN2] Che certamente, egli ...., faccendo cotal confronto, s’accorgerá essere tutti pregiudizi ed oscuri e sconci, e la lor fantasia esser un covile di tanti mostri e la lor memoria una cimmeria grotta di tante tenebre. Ma, perché egli cangi in piacere la dispiacenza che certamente dovrá recargli cotal veduta, la quale, quanto egli sará piú addottrinato, dovrá farglisi sentire maggiore, perché piú il disagia ed incomoda di ciò sullo che esso giá riposava: per tutto ciò esso faccia conto che quanto immagina e si ricorda d’intorno a’ princípi di tutte le parti che compiono il subbietto della sapienza profana, sia una di quelle capricciose dipinture, le quali, sfacciate, dánno a vedere informissimi mostri, ma, dal giusto punto della loro prospettiva guardate di profilo, dánno a vedere bellissime formate figure.
[1178] Ma tal giusto punto di prospettiva ci niegano di ritruovare le due borie che nelle Degnitá abbiamo dimostro. La boria delle gentili nazioni, che diceva Diodoro sicolo, d’essere stata ogniuna la prima del mondo (dalla quale da Gioseffo udimmo essere stata lontana l’ebrea), ci disanima di ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filologi; la boria de’ dotti, che vogliono ciò che essi sanno essere stato eminentemente inteso dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da’ filosofi. In tal disperazione hassi a porre il leggitore che voglia profittare di questa Scienza, come se per lo di lei acquisto non ci fussero affatto libri nel mondo. Né noi l’aremmo ritruovata altrimenti, senonsé la provvedenza divina ci avesse cosí guidato nel corso de’ nostri studi, che, non avendo avuto maestri, non ci determinammo da niuna passione di scuola o setta; e, ’n cotal guisa, dalla bella prima che incominciammo a profondare ne’ princípi dell’umanitá gentilesca, sempre meno e meno soddisfaccendoci ciò che se n’era scritto, stabilimmo finalmente da ben venti anni fa di non legger piú libri; come ultimamente risapemmo aver fatto, con magnanimo sforzo ma con infelice
evento, l’inghilese Tommas Obbes, il quale in questa parte credette di accrescere la greca filosofia, e se ne vantava co’ dotti amici che, se esso, come quelli, avesse seguitato a leggere gli scrittori, non sarebbe piú d’ogniuno di essi.[1179] [331] Ma in tal densa notte di tenebre .... apparisce .... questa veritá, che può servirci di cinosura, onde giugniamo al disiderato porto di questa Scienza: che questo mondo civile certamente egli è stato fatto dagli uomini ....
[1180] [336] Se voglia opporsi al secondo alcuno, che, in questa mansuetudine d’atti e parole, sia di mente piú immane che non furono le fiere d’Orfeo, e voglia appruovare a’ dissoluti ch’i concubiti .... senza solennitá di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, egli fugga e si nasconda in ogni angulo piú riposto del mondo, ché sará ripreso di tal sua falsa oppenione. Poiché le nazioni tutte la riprendano di falso con essi costumi umani .... ch’è l’infame nefas del mondo eslege, che determina nefari cosí fatti concubiti, de’ quali non poté intendere la ragione naturale Socrate né gli altri (tra’ quali è Ugon Grozio) che gli vennero appresso. [CMA4] E la ragione naturale si è perché, con tali concubiti, si pianta sopra il piantato, e sí, quanto è per essi, coloro che l’usano, non a propagare, vanno a restrignere e per ultimo a finire la generazione degli uomini.
[Sezione Quarta]
[1181] [338*] Ch’è la molesta fatiga che deon fare i curiosi di questa Scienza, di cuoprire d’obblio le loro fantasie e le loro memorie e lasciar libero il luogo al solo puro intendimento; e, ’n cotal guisa, da tal primo pensier umano incominceranno a scuoprire le finora seppellite origini di tante cose che compongono ed abbelliscono cosí questo mondo civile come quel delle scienze, per lo cui scuoprimento con tanta gloria travagliarono, del mondo civile, Marco Terenzio Varrone ne’ suoi libri Rerum divinarum et humanarum, e, del mondo delle scienze, Bacone da Verulamio. E, sventata ogni boria, e quella delle nazioni per ciò che attiensi al mondo civile, e quella de’ dotti per ciò che riguarda il mondo delle scienze, tutte con merito di veritá e con ragion di giustizia, quali (per la serie dell’umane cose e dell’umane idee che nelle Degnitá proponemmo) debbon esser l’origini di tutte le cose, tutte semplici e rozze si ravviseranno qui, come in loro embrione e matrice, dentro la sapienza de’ poeti teologi, che furono i primi sappienti del mondo gentilesco.
[1182] [349] .... in Dio [CMA3], ove voglia, il conoscere e ’l fare è una medesima cosa; di che nella nostra Vita letteraria, con una pruova metafisica, la quale tuttodí sperimentiamo nelle funzioni della nostra anima, abbiamo tratto questa dimostrazione.
[1183] Sono nella nostra mente certe eterne veritá, le quali non possiamo sconoscere e rinniegare, e ’n conseguenza che non sono da noi. Ma del rimanente sentiamo in noi una libertá di far, intendendovi, tutte le cose le quali hanno dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte, intendendovi, le facciamo: come l’immagini con la fantasia; le reminiscenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni co’ sensi; e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi, non essendo niuna di quelle che possa sussistere fuori di noi, onde soltanto durano quanto vi tegniamo applicata la nostra mente. Laonde delle veritá eterne, che non son in noi dal corpo, dobbiam intender esser principio un’idea eterna, che, nella sua cognizione, ove voglia, ella cria tutte le cose
in tempo e le contiene tutte dentro di sé, e tutte, applicandovi, le conserva.[1184] La qual dimostrazione pruova ad un fiato queste quattro grandi veritá:
1. ch’un’idea eterna è ’l principio di tutte le cose mortali;
2. che Dio è principio libero delle produzioni ad extra;
3. che ’l mondo è stato criato in tempo;
4. che vi sia provvedenza divina, la quale, intendendo, conserva tutte le cose criate.
[1185] Per tutto ciò quel «dovette, deve, dovrá» è una maniera archetipa e quasi creativa, la quale non si può avere che nell’idee eterne di Dio; poiché tanto vagliono «dovette» quanto «fu fatto», tanto «deve» quanto «si fa», tanto «dovrá» quanto vale «farassi». Talché cosí, in certo modo, la mente umana con questa Scienza procede a produrre da sé questo mondo di nazioni come la mente di Dio procede nel produrre il mondo della natura, il qual sommo Facitore, nel suo Principio, nel suo Verbo, nella sua eterna Idea, disse in tempo quel «Fiat» et facta sunt. E ’n cotal guisa questa Scienza, come nelle Degnitá avvisocci Aristotile, vien ad essere «de aeternis et immutabilibus».
[1186] [359] Ma tutte queste, anziché pruove le quali soddisfacciano i nostri intelletti, sono ammende che si fanno agli errori delle nostre memorie ed alle sconcezze delle nostre fantasie, e, per questo istesso, faranno piú di violenza a riceverle e piú di piacere dopo averle ricevute. Pruova sia di ciò che, se non avessimo avuto affatto scrittori, sí fatte pruove punto non ci arebbero bisognate, e senza esse resterebbono per tanto ben sodisfatti gl’intelletti di ciò che ne aremmo ragionato in idea; anzi, liberi di cotanto vecchie, comuni e robuste anticipate oppenioni, ci ritruoveremmo piú docili a ricevere questa Scienza.
[1187] [360] .... questi deon esser i confini piú accertati e piú utili alle repubbliche cristiane, che distinguono la ragione e la fede, che non sono quelli di Pier Daniello Uezio, ultimamente in un libro postumo usciti alla luce. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l’umanitá.
[1188] Ora qui si rapportino tutte le degnitá dalla i [ii] fino alla xx [xxii], la xxix [xxxi], il secondo corollario della xli [xliii], la xlii [xliv], la lx [lxiv] e la lxi [lxv], l’ultimo della c [cv] e particolarmente la ci [cvi]; e si truoverá tutto lo qui detto essere eminentemente da quelle dimostrato.
LIBRO SECONDO
Introduzione
Prolegomeni
[1189] [363*] [CMA3] Quindi esce questo gran corollario: che non sia materia della sapienza intiera o sia universale, ciò di che la sapienza riposta [CMA4] de’ filosofi [CMA3] non n’ebbe l’occasioni dalla sapienza volgare [CMA4] de’ poeti; [CMA3] onde l’ateismo, non giá per sapienza, si ha a tenere per istoltezza e pazzia, poiché le prime nazioni, come dimostreremo, in tutte le cose criate videro dèi, e poi i metafisici migliori, [CMA4] quali son i platonici, che ’n questa parte di filosofia furono gli piú sublimi di tutti gli altri filosofi, [CMA3] in tutte le cose criate intesero Dio.
Capitolo Primo
[1190] [366] .... le nazioni si disponessero a ricevere la scienza del vero bene eterno ed infinito, in forza d’una fede sopranaturale, a certi avvisi rivelati da Dio, tutto mente e nulla corpo. Onde, appo gli ebrei, tal’avvisi furon dati da esso Dio o mandati dagli angioli o da’ profeti; appo cristiani, lasciatici da Giesu Cristo e datici ne’ di lei bisogni co’ dogmi della sua Chiesa.
Capitolo Secondo
[1191] [368] [CMA3] Di tal maniera che questa vien ad esser ad un fiato una storia dell’idee, una storia de’ costumi, ch’è tanto dire che delle leggi, ed una storia de’ fatti del gener umano. E vedrassi dalla storia dell’idee o sia delle menti uscir la storia de’ costumi o sia degli animi, e da entrambe uscir la storia delle lingue, e da tutte e tre uscir la storia della natura umana, che, propiamente, non è altro che mente, animo e lingua. E con tal condotta si descriverá la storia universale, che tutt’i dotti confessano mancare ne’ suoi princípi e nella perpetuitá ovvero continovazione, ma sopra un’idea che niuno de’ dotti ha potuto finora disiderare. La quale ci sará scritta da essa volgar sapienza in modo di commentari, ne’ quali le scienze vi tengon il luogo de’ consigli, i costumi quello de’ mezzi di tutto ciò che la natura umana ha operato in questo mondo di nazioni.
Capitolo Terzo
[1192] [371] .... dall’acqua, la cui necessitá s’intese prima del fuoco, .... avesse incominciato l’umanitá. [CMA3] Siccome viaggiatori riferiscono esservi ancor oggi nazioni selvagge che non hanno ancor inteso la necessitá del fuoco. E questa è l’origine delle sagre lavande ....
SEZIONE PRIMA
Capitolo Primo
[1193] [376*] Di piú, perché l’uomo è naturalmente portato a dilettarsi dell’uniforme, com’abbiam veduto nelle Degnitá, perché la mente umana agogna naturalmente di unirsi a Dio, dond’ella viene, ch’è ’l vero uno; e non potendo quelli primi uomini, per la loro troppo sensuale natura, esercitare la facultá (ch’era sotto i loro troppo vigorosi sensi seppolta) di astrarre da’ subbietti le propietá e le forme alle quali le particolari cose, che essi sentivano ed immaginavano, si conformassero, per ridurle alle loro unitá si finsero le favole. E naturalmente appresero per generali veritá quelle che in fatti erano non altro che generi fantastici o unitá immaginarie, o fussero finti modelli, a’ quali riducevano tutte le particolari cose che sentivano o immaginavano o essi stessi facevano, richiamando ciascuna al suo modello al quale si assomigliasse. E ne restarono detti con somma latina eleganza «genus» in significato di «forma» o «guisa» o «maniera» o «modello», e detta «species» in significato di «sembianza» o di «cosa che si assomiglia e rassembra»; e tal acconcezza d’assembramento delle cose fatte alle loro idee o modelli fu detta anco «species» in significazion di «bellezza».
Capitolo Secondo
[La redazione, che questo capitolo ebbe nella SN2, sembra a prima vista totalmente diversa da quella della SN3. Ma, a dir vero, piú che di altro, si tratta di spostamenti. E invero nella SN2 il capitolo constava di tredici paragrafi, che nelle CMA3 divennero quindici, avendone il V. aggiunto uno tra l’XI e il XII e un altro dopo il XIII. Nella SN3, invece, i paragrafi I e II vennero anticipati nel capitolo precedente,
formando parte del capov. 384; gli altri furono combinati e spostati giusta la seguente tabella:SN2 | SN3 |
§ III (sfrondato di molte citazioni erudite) e § IV | § I |
§§ VIII e XI, con giunte che si trovano in parte nelle CMA3 | § II |
Principio del § VI e § V, con una giunta che si trova in parte nelle CMA4 | § III |
Resto del § VI e § VII | § IV |
§ XIII bis (aggiunto, come s’è detto, nelle CMA3) | § V |
§ XI bis (aggiunto nelle CMA3) | § VI |
§§ XII e XIII | § VII |
Restarono fuori soltanto i paragrafi IX e X, riferiti qui tra le varianti].
[1194] [385*] Con tal principio dell’idolatria si è dimostrato altresí il principio della divinazione (ché nacquero al mondo ad un parto); a’ quali due princípi va di séguito quello dei sacrifici ch’essi facevano per proccurare o sia ben intender gli augúri. Da’ quali princípi dovevano cominciare i loro libri Cicerone, De natura deorum; Apollodoro, De origine deorum; Giraldo, De diis gentium; Daniel Classenio, De theologia civili; e ’l Vossio la sua maggior opera De theologia gentilium, e Cicerone gli altri De divinatione; Edone Nehusio, la sua Divinazione sacra e profana; Antonio Borremanzio, De poëtis et prophetis; gli autori De diis fatidicis e De oraculis sibyllinis; e Vandalè, i suoi De devinatione e De oraculis; e finalmente Stuchio, De sacrificiis gentium.
[1195] [389*] IX. — Quivi per alto consiglio della provvedenza ebbe il suo principio il diritto della forza, con la quale Giove legittima il suo regno [CMA3] sopra gli dèi e gli uomini con la gran catena d’Omero che noi qui sopra abbiamo spiegato (il qual diritto [SN2] si celebrò per tutto il tempo divino ed eroico, ond’Achille ripone la sua ragione nell’asta), acciocché gli uomini, fin quando non intendessero ragione, estimassero la ragion della forza, ma infrenata da alcun timore di religione (la qual sola, come abbiam nelle Degnitá veduto, poteva infrenar i violenti di Obbes); siccome per la religione i giganti s’assoggettiscono alla forza di Giove.
[1196] X. — Si scuoprono quindi ancor i princípi ond’ebbero incominciamento tutti i primi regni, che furono la forza e la froda; ma non giá, quali hanno finora stimato i cattivi politici, fatte da uomini ad altri uomini, ma che fecero gli uomini a se medesimi; e sí furono, forza e froda, dalla divina provvedenza permesse a bene del gener umano.
[1197] [392] .... ne dará una teogonia naturale .... sulla quale doveva Esiodo formare la sua e Giovanni Boccaccio descrivere la sua Genealogia degli dèi. La qual teogonia ne dará, quindi incominciando, la cronologia ragionata della storia poetica, che corse tralle nazioni almen un novecento anni innanzi di venire l’anno astronomico, dal qual finor ha cominciato la dottrina de’ tempi.
[1198] [399] .... come si ha nelle greche tradizioni; comincia il secol dell’oro a’ greci e quel di Saturno a’ latini, ne’ quali gli dèi praticavan in terra cogli uomini, la quale fu la prima etá del mondo gentilesco. [CMA4] La qual prima etá qui, come da una sua prima epoca, conforme si è nelle Degnitá divisato, incomincia da Giove e dalla religione degli auspíci ne’ di lui fulmini, da cui debbe incominciare tutta la storia universale. Di che i latini ci serbarono un certo avviso in queste tre voci: «auspicari», «augurari» (per «incominciare») ed «initia» (per dire «consegrazioni» e «incominciamenti» o «princípi»). Cosí i greci poeti .... [CMA3]
Capitolo Terzo
Come da questa debbano tutte l’altre scienze
prender i loro princípi
[1199] Questi sono gli aspetti generali per gli quali questa Scienza può essere riguardata. Ma da questo stesso primo principio di tutte le divine ed umane cose gentilesche, ch’abbiamo truovato dentro questa metafisica del gener umano, questa medesima Scienza sublime ne dará i princípi di tutte l’altre subalterne, le quali la metafisica deve assicurare della veritá di tutti i loro particolari subbietti. Che saranno le prime fila con le quali si tesserá la tela di questo libro e le prime linee con le quali s’incomincia a condurre il disegno della nostra storia dell’idee.
i
[1200] La logica da questa prende le sue prime idee, che si truovano tutte divine, e le prime voci, le quali si truovano tutti parlari mentali spiegati con atti mutoli.
ii
[1201] La morale da questa prende il suo primo principio, ch’è ’l conato, il qual è propio della volontá libera, la qual è ’l subbietto delle virtú e de’ vizi.
iii
[1202] L’iconomica da questa prende il timore della divinitá, ch’è ’l primo principio de’ matrimoni, i quali son il seminario delle famiglie.
iv
[1203] La politica da questa prende il suo subbietto, ché sono due spezie d’uomini che compongono le repubbliche; e incomincia dalla piú nobile di altri che vi comandino, che qui si sono truovati esser que’
pauci quos aequus amavit
Iupiter, a cui appresso seguirá l’altra di altri che v’ubidiscano. Poiché altro non è la politica che scienza di comandare e d’ubidire nelle cittá.
[1204] E qui si compierá il ramo delle scienze attive che proponemmo uscire dal tronco di questa poetica metafisica. L’altro ramo, che pur dicemmo, delle scienze specolative comincia ad uscire da questo tronco stesso con questa serie.
v
[1205] La fisica da questa metafisica prende i suoi princípi fantasticati divini, e ’ncomincia da quello ch’i primi giganti pii appresero:
Iovis omnia plena;
la qual poi con Platone terminò in una fisica divina, da esso ragionata nel Parmenide, nel quale stabilisce l’idea eterna per principio di tutte le cose in tempo.[1206] E la fisica particolare dell’uomo prende quinci i suoi princípi da questi giganti di vasti corpi e d’animi bestiali, da’ quali, come materia, col timore della divinitá incomincia ad edursi la forma delle nostre giuste corporature e de’ nostri animi umani.
vi
[1207] La cosmografia quindi incomincia dal primo cielo, che fu alle prime genti l’altura de’ monti, e dal primo mondo, che fu la loro proclivitá, la qual antichissima idea si conservò da’ latini in que’ loro favellari: «in mundo est» per «in proclivi est», per significar «egli è facile».
vii
[1208] L’astronomia qui comincia dal principe de’ pianeti, ch’è Giove, quando il Cielo regnò in terra e fu tanto benefico al gener umano che n’ebbe il grazioso titolo appo tutte le gentili nazioni di «ottimo».
viii
[1209] La cronologia qui pure da Giove dá incominciamento all’etá degli dèi, ch’è la pianta della nostra Tavola cronologica; e Giove sará la prima delle dodici minute epoche di altrettante divinitá maggiori, le quali serviranno per determinare tal prima etá del mondo aver durato novecento anni.
ix
[1210] E la geografia finalmente, che dalle regioni e misure del cielo accerta quelle della terra, quindi incomincia dalle regioni le quali disegnavano gli áuguri in cielo per prendere quindi gli auspíci di Giove, le qual’i latini dissero «templa caeli», delle quali fu il primo contemplare e la prima contemplazione alla quale attesero i primi uomini al mondo.
[1211] Talché queste nove scienze debbon essere state le nove muse, le qual’i poeti pur ci cantarono esser tutte figliuole di Giove;
e per tutte queste cose istesse ora si restituisce il suo propio significato istorico a quel motto:A Iove principium Musae.
[CMA3]
Capitolo Quarto
Riprensione delle metafisiche di Renato Delle Carte,
di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke
[1212] Laonde, se non s’incomincia da
un dio ch’a tutti è Giove,
non si può avere niuna idea né di scienza né di virtú. Cosí ha facile l’uscita la supposizione di Polibio, il qual dice che, se fusser al mondo filosofi, non sarebber uopo religioni! Perché le metafisiche de’ filosofi debbon andar di concerto con questa metafisica de’ poeti, in questo importantissimo punto, onde dall’idea d’una divinitá sono provenute tutte le scienze c’hanno arricchito il mondo di tutte l’arti dell’umanitá: come questa metafisica volgare insegnò agli uomini perduti nello stato bestiale a formar il primo pensiero umano da quello di Giove, cosí gli addottrinati non debban ammettere alcun vero in metafisica che non cominci dal vero Ente, ch’è Dio.
[1213] E Renato Delle Carte certamente l’arebbe riconosciuto, se l’avesse avvertito dentro la stessa dubitazione che fa del suo essere. Imperciocché, se io dubito se io sia o no, dubito del mio esser vero, del qual è impossibile ch’io vada in ricerca se non vi è il vero Essere, perch’è impossibile ricercar cosa della quale non s’abbia verun’idea. Or, dubitando io dell’esser mio né dubitando del vero Essere, il vero Essere è realmente distinto dall’esser mio. Il mio essere è terminato da corpo e da tempo, che mi fanno necessitá: adunque l’Ente vero è scevero da corpo, e perciò sopra il corpo, e quindi sopra il tempo, il qual è misura del corpo secondo il prima e ’l poi, o (per me’ dire) è misurato dal moto del corpo. E, ’n conseguenza di tutto ciò, l’Ente vero è eterno, infinito, libero. Cosí egli Renato arebbe, come a buon filosofo conveniva, cominciato da una idea semplicissima, che non ha mescolata niuna composizione, qual è quella dell’Ente; onde Platone con peso di parole chiamò la metafisica Ὀντολογία,/
«scienza dell’Ente». Ma egli sconosce l’Ente e ’ncomincia a conoscer le cose dalla sostanza, la qual è idea composta di due cose: d’una che sta sotto e sostiene, d’altra che vi sta sopra e s’appoggia.[1214] Cotal maniera di filosofare diede lo scandalo a Benedetto Spinosa, uomo senza pubblica religione e, ’n conseguenza, rifiuto di tutte le repubbliche, e per odio di tutte intimò una guerra aperta a tutte le religioni. E, non dando altro che la sostanza, e questa esser o mente o corpo, e non terminando né corpo mente né mente corpo, per tutto ciò stabilí un Dio d’infinita mente in infinito corpo, e perciò operante per necessitá.
[1215] Incontro a Spinosa si è fatto dalla parte opposta Giovanni Locke, il quale sullo stesso scandalo del Cartesio adorna la metafisica d’Epicuro, e vuole che tutte l’idee sien in noi per supposizione ed essere risalti del corpo, e sí è costretto a dar un Dio tutto corpo operante a caso. Ma il Locke veda s’ella è per supposizione l’idea del vero Essere, la qual io mi ritruovo aver innanzi l’idea del mio essere, ch’è tanto dire quanto innanzi del mio supposto; la qual, perch’è del vero Ente (essendo del vero bene), mi mena a ricercare nel suo Essere l’esser mio: talché ella non mi è venuta dal mio corpo, del qual io ancor dubito dentro la dubitazion del mio essere. Dal corpo è nato il tempo, e dal corpo e dal tempo, che si misura col moto del corpo (ove non sia mente la qual regoli il moto del corpo), esce il caso.
[1216] Con tali ragioni, se non andiamo errati, abbiamo scoverti manifestamente i paralogismi delle metafisiche che tengono diverso cammino dalla platonica. Perocché quella d’Aristotile non è altro che la metafisica di Platone trasportata dal dialogo al metodo didascalico, che noi diremmo «insegnativo»; siccome Proclo, gran mattematico e filosofo platonico, con un aureo libro portò i princípi fisici d’Aristotile (che sono quasi gli stessi ch’i princípi metafisici di Platone) al metodo geometrico.
[1217] Ora incominciamo ormai a ragionare partitamente delle subalterne scienze poetiche.
Sezione Seconda
Capitolo Primo
[1218] [403] .... che ne dessero le loro origini tutte univoche, come quelle de’ parlari volgari lo sono piú spesso analogiche: quali contese Cesare esserlo ne’ suoi libri De analogia, che scrisse contro Catone, che si era attenuto alla parte opposta ne’ libri De originibus. E ce ne giunse pur ....
[1219] [403*] [CMA4] Talché essendo l’etimologie quelle che ne dánno l’origini delle voci, e le favole furono le prime voci ch’usò la gentilitá, le mitologie poetiche sono appunto quelle che qui noi trattiamo, che ne dánno le vere origini delle favole. [SN2] E questa è la Periermenia o interpetrazione de’ nomi: parte di questa logica poetica, dalla quale doveva quella di Aristotile incominciare.
Capitolo Secondo
[1220] [407] .... Cosí la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per l’armadura, perché la materia è piú sensibile della forma: perocché «aes» per lo «danaio coniato» venne da’ tempi che «aes rude» spendevasi per moneta. Quel nastro di sineddoche e metonimia ....
[1221] [408] L’ironia .... è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di veritá. [CMA4] Onde qui riflettiamo non ricordarci d’aver letto ironia in tutta l’Iliade, e però preghiamo il leggitore ad osservarlo; ché s’è cosí, egli ne dará un grande argomento per la discoverta del vero Omero che si fará nel terzo di questi libri, e che l’Omero dell’Iliade fu a’ tempi della Grecia generosa, aperta, magnanima, e sí molto innanzi all’Omero dell’Odissea, la qual è tutta piena delle simolazioni e doppiezze d’Ulisse.
[1222] [410] .... Tal composizione d’idee fece i mostri poetici: di che abbiamo nella ragion romana che ogni padre di famiglia romano
ha tre «capi», per significare tre vite. Perché «vita» è termine astratto, e ’l capo è la piú cospicua sensibil parte dell’uomo, onde gli eroi giuravano «per lo capo» per significare che giuravano per la vita. Le quali tre vite erano: una, naturale, della libertá; un’altra, civile, della cittadinanza; la terza, famigliare, della famiglia.Capitolo Terzo
[1223] [414] Come gli ateniesi a Solone e gli spartani a Ligurgo attaccarono tante leggi quante dell’uno e dell’altro la greca storia ne narra, delle quali molte non solo non appartenevano loro, ma erano tutte contrarie alle loro condotte. Come a Solone l’ordinamento degli areopagiti, i quali erano giá stati ordinati sino dal tempo della guerra troiana, perocché Oreste del parricidio commesso nella sua madre Clitennestra fu da essi assoluto col voto di Minerva, o sia con la paritá de’ voti; e gli areopagiti infin a Pericle mantennero con la loro severitá in Atene lo Stato o almeno il governo aristocratico: lo che è contrario a Solone ordinatore della popolare libertá ateniese. Ed a rovescio, a Ligurgo, fondatore della repubblica spartana, che senza contrasto fu aristocratica, attaccano l’ordinamento della legge agraria, della spezie onde fu quella de’ Gracchi in Roma, [CMA3] quando il magnanimo re Agide, ne’ tempi piú avvanzati di quella repubblica eroica, volendo comandarvi la legge testamentaria convenevole alle repubbliche popolari (la qual certamente appo i romani precedette di gran tempo all’agraria de’ Gracchi) funne fatto impiccare dagli efori.
[1224] [425] .... appunto come fu brutto Tersite, descrittoci da Omero con le propietá di capoparte di plebe, che sono di dir sempre male de’ principi e di sollevar loro contro i popoli, ed è da Ulisse battuto .... nella Cittá di Dio. Ond’a torto i critici hanno finora ripreso Omero d’aver con gli eroi trammeschiato persone volgari e ridevoli.
[1225] [427] .... i pittagorici .... tutti furono spenti. [CMA3*] Perché il Carme aureo, il quale sotto il nome di Pittagora ci è pervenuto, sa pur troppo di scolastica platonica ultima; i simboli delli pittagorici devon essere stati provverbi enimmatici contenenti massime di sapienza volgare, i quali, per questa logica, devon
essere stati appiccati a Pittagora. Certamente in ciò convengono tutti: che Pittagora non lasciò nulla di sé scritto; e ’l primo, dopo piú secoli appresso, fu Filolao, il quale scrisse di pittagorica filosofia.Capitolo Quarto
[1226] [430] .... oppenioni .... le quali, perocché sono tante e tali, dovrebbono trallasciare di riferirsi. Ma, perché non sospetti il leggitore di noi ciò che molti autori fanno (e particolarmente oggidí), i quali, per promuovere le sole cose scritte da essi, non solo non espongono alla libertá di chi legge le cose scrittene dagli altri, ma anco vietan loro di leggerle, ci piace, per soddisfarlo, arrecargliene qualcuna. Come quella che, perocché a’ tempi barbari ritornati la Scandinavia ....
[1227] [431] Perché da questi princípi .... doveva Aristotile incominciare la sua Periermenia o sia «interpetrazione de’ nomi», come sopra si è detto, ché cosí non sarebbe in ciò stato contrario a Platone; e Platon doveva andarla a ritruovare nel Cratilo, ove con magnanimo conato il tentò e con infelice evento nol conseguí. E generalmente da questi princípi tutti i filosofi e tutti i filologi ....
[1228] [433] .... di che certamente dee intendersi la legge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet mancipiumque», [CMA3] cioè che parlò de’ campi dati da’ signori a’ plebei, per gli quali questi restarono a quelli «nexi», obbligati: talché la consegna di tal nodo, ch’abbisognava alla mancipazione, era una mutola professione che ’l podere il quale si consegnava era de’ nobili; ond’essi plebei furono nessi de’ nobili infino alla legge petelia, la qual fu comandata nel CCCCXIX di Roma. Le quali cose qui accennate molto rileveranno per intendere la natura dell’antiche revindicazioni, e se ne deve bene ricordare [il leggitore] per intendere la natura eterna ed universale de’ feudi; delle quali cose appieno ragionerassi nel libro quinto. Con l’istessa mente degli antichi latini gl’italiani ....
[1229] [436] .... la loro sapienza riposta sotto de’ geroglifici. Onde s’intenda con quanto di scienza scrissero Giamblico De mysteriis e Valeriano De hieroglyphicis aegyptiorum!
[1230] [439*] E dovettero tali caratteri pistolari essere come i geroglifici chinesi, ch’ascendono al numero di cenventimila, co’ quali
s’intendono i popoli, in quell’ampissimo regno, tra loro di lingue articolate diverse; appunto come nelle forme arabiche de’ numeri e de’ pianeti e nelle note della musica convengono di sentimento tutte le lingue diverse d’Europa. Di lettere sí fatte diciamo ch’ogni nazione si ritruovò le sue a suo piacere, non giá per forme, ma per segni de’ suoni umani articolati. E serbiamo la tradizione comunemente ricevuta da’ fenici, però secondo il giudizio disgiuntivo di Tacito: ch’eglino, o ricevute da altri o ritruovate da essi, sparsero le lettere nell’altre nazioni. Ed ammendando qui la boria e delle nazioni e de’ dotti, restrigniamo tutte l’altre nazioni alla sola greca e quindi alla latina: perché dovetter essere caratteri mattematici ovvero figure geometriche, ch’i fenici ricevettero da’ caldei e se ne servirono per forme de’ numeri, come, maiuscole, restarono per tali usi a’ greci e a’ latini. E i greci, con sommo pregio d’ingegno, le trasportarono, piú che a’ segni, alle forme de’ suoni umani articolati; da’ quali l’appresero poscia i latini, le quali il medesimo Tacito osserva essere somiglianti all’antichissime greche. Le quali forme, cosí, riuscirono le piú belle e le piú pulite di tutte l’altre, siccome i greci ingegni furono gli piú ben intesi e gli piú dilicati di tutte le nazioni.[1231] [444] .... elleno per queste lor origini naturali, debbon significare naturalmente. Imperciocché ogni parola volgare dovette incominciare certamente da alcuno d’una nazione, il quale, con atto o corpo ch’avesse natural rapporto all’idea ch’esso voleva comunicare ad altrui e, come mutolo, dargliene con tal atto o corpo ad intendere che cosa egli con tal voce volesse dire, e sí avere naturale l’origine, e perciò significare naturalmente. Lo che si osserva nella lingua latina, la qual è piú eroica ....
[1232] [449] .... E naturalmente nacque il canto, .... e nacque con voci monosillabe, siccome sono monosillabe nella musica le sei note del canto. Lo che, qui detto, quindi a poco recherá molto uso ....
[1233] [453] .... dall’indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi da’ medesimi addottrinati. Lo che si conferma con l’ellipsi, che per lo piú supplisce i verbi, che dee essere il principio dell’ellipsi sanziana. E pur i verbi, che sono i generi di tutti gli altri ....
[SN2]Capitolo Quarto bis
Dimostrazione della veritá della religion cristiana
[1234] E qui nasce una dimostrazione piú invitta di quante mai si son fatte della veritá della cristiana religione, la qual abbiamo sopra promesso. Ché le radici de’ verbi della lingua santa mettendo capo nella terza persona del numero del meno del tempo passato compiuto, dovetter i patriarchi, che la fondarono, dare gli ordini nelle loro famiglie a nome di un solo Dio; onde la Scrittura santa è piena di quella espressione «Deus dixit». Che dev’essere un fulmine da atterrare tutti gli scrittori che hanno oppinato gli ebrei essere stata una colonia uscita da Egitto; quando, dall’incominciar a formarsi, la lingua ebrea ebbe incominciamento da un solo Dio.
Capitolo Quinto
[1235] [462] .... ed affermano gli unni fussero stati cosí detti che le incominciassero tutte da «un». Lo stesso hassi a congetturare de’ vandali: come gli olandesi incominciano tutti i casati da «van»; onde è forte congettura ch’essi sieno una colonia de’ vandali, e che la prima natural necessitá di ritruovar i nomi fu per distinguersi tra loro i casati, che son i «nomi» propiamente a’ latini. Finalmente si dimostra che le lingue incominciaron col canto .... fecero i padri della Chiesa latina (truoverassi il medesimo della greca), incominciando da san Gregorio, talché le loro prose sembrano cantilene.
[1236] [469] .... Acilio Glabrione quest’altra: «Fudit, fugat», ecc.; altri quella: «Summas opes qui regum regias prosternit». [CMA3] I frammenti della legge delle XII Tavole .... «Pietatem adhibento», e con alquanto di licenza la seguente: «Opes amovento». Onde, al riferire di Cicerone medesimo ....
[1237] [471] .... Guntero, Guglielmo pugliese ed altri. Il Genebrando scrive essere stato composto in versi ritmici l’Alcorano, che fanno un canto troppo arioso. Senza contrasto, innanzi d’Omero non vi ha memoria di verso giambico, che succedette al tempo de’ primi poeti tragici, onde fu naturale ch’entrasse nella tragedia. Il qual errore comune fu preso per legge di dover entrare nella commedia,
quando giá si era ritruovata la prosa. Abbiam veduto i primi scrittori nelle novelle lingue d’Europa .... e sí, per inopia di verbi, avesser unito essi nomi. Talché l’origine delle voci composte è la medesima che quella che noi sopra abbiamo dimostrato dell’ellipsi e del torno, nel qual i tedeschi sono tanto piú raggirati de’ latini quanto i latini lo sono piú di essi greci. Che devon esser i princípi di ciò che scrisse il Morhofio in Disquisitionibus de germanica lingua et poësi; e ’l Loccenio, che scrisse de’ poeti tedeschi che si dissero «scaldi» o «scaltri», seguíto dal Wormio in Appendice Literaturae runicae. E questa sia una pruova ....[1238] [472] Ed ecco i princípi della poesia, dentro la metafisica e logica di essi poeti, ad evidenza dimostrati, non che diversi, tutti contrari a quelli che tutti i filosofi e filologi han finor immaginati; e dentro di essi scoverte le origini delle lettere e delle lingue, delle quali tutti, e filologi e filosofi, affatto avevano disperato. [CMA3] E questa discoverta dell’origine della poesia, che sará la miniera feconda di tutte l’altre le quali si faranno da questa Scienza, ella, come lavoro del suo disegno, esce dalla degnitá xxviii incominciando fin alla xxx, dalla xxxii fino alla xl, dalla lxii fin alla lxiv.
Capitolo Sesto
[1239] [476] .... ed ancor oggi conservano una volgar arte d’indovinare. Ed oppinaron il cielo esser templo di Giove, dove credevan eternarsi gli re con le loro stupende piramidi.
[1240] [478] De’ romani è famoso quel verso di Ennio: «Aspice hoc sublime cadens» (in significato di «pendens», cioè sospeso sulle colonne de’ monti, delle quali da’ greci due, Abila e Calpe, ne restaron dette colonne d’Ercole, e dagli arabi il diede Maometto a creder a’ turchi), «quem omnes invocant Iovem» ....
[1241] [481] Ma gli ebrei adorarono il vero Altissimo, ch’è sopra il cielo, entro il chiuso del tabernacolo: onde veda il Marshamo se gli ebrei presero dagli egizi il costume di fabbricar templi al vero Dio.
[1242] [482] .... «moure bleu» per «muoia Iddio». [CMA3] E qui è tutto spiegato ciò che si è sopra detto in accorcio: che l’idea del diritto nacque congenita con quella della provvedenza divina, perché il primo gius che nacque al mondo fu quello comandato dal vero Dio ad Adamo, e da Giove a’ primi fondatori delle nazioni gentili.
[1243] [483] .... contrasegnare con lettere o con imprese, bestiami o altre robe da mercantare, per distinguere ed accertarne i padroni. Le quali, a’ toscani dette «marche», si dissero «notae» a’ latini, a’ quali significarono anco lettere prime accorciate dalle loro intiere voci; e «nota», ove portava ignominia o infamia, si disse anco da’ medesimi «insigne» in sentimento di sfregio: per lo cui contrario senso di onore l’impresa si dice «insegna» agli italiani.
[1244] [484] .... o tre atti di falciare significano propiamente «tre anni». Ove, se ben si rifletta, cotal’imprese erudite deon esser trasformazioni poetiche, come «una torre» per Aiace, che fu detto «torre de’ greci», nella qual «Aiace» diventa «torre»; talché, essendo l’imprese erudite non altro che metafore dipinte, tutte le metafore deon essere poetiche trasformazioni.
Capitolo Settimo
[1245] [498] .... «poesie in un certo modo reali». [CMA4] Onde, se gli autori delle nazioni furon i fanciulli del gener umano, essi dovetter esser i poeti c’han fondato il mondo dell’arti, com’i filosofi, che vennero lunga etá appresso, s’innalzarono a meditare sopra il mondo delle scienze, onde fu affatto compiuta l’umanitá.
[1246] [CMA3] Ed è in ciò da ammirare il ricorso che fanno le nazioni (del quale, in tutta la distesa di tal materia, ragioneremo nel libro quinto): che a’ tempi barbari ritornati, tutte le invenzioni massime si ritruovarono [CMA4] o da idioti o da barbari. [CMA3] Come la bussola nautica, da un pastore d’Amalfi, che compié l’arte nautica, ne ha dato lo scuoprimento del mondo nuovo e quasi il compimento della geografia; e pure nella magnanima audace impresa si segnalarono tre ingegni, due italiani, che furono Cristoforo Colombo genovese ed Americo Vespucci fiorentino, che ha dato il nome a tutta quella gran quarta parte del mondo, e Ferdinando Megaglianes portoghese, ivi penetrando lo stretto, a cui ha lasciato eterno il suo nome, con la sua famosa nave detta della Vittoria, girò col sole tutta la terra. La nave con le sole vele, [CMA4] che n’ha dato una nuova arte navale, [CMA3] perocché gli antichi l’ebbero tutte con vele e remi, ritruovate in Italia nelle maremme del Lazio, onde serbano il nome di «vele latine». Gli occhiali, ritruovati pur in Italia da [Salvino degli Armati] fiorentino,
de’ quali privi, gli antichi con le guastadette piene d’acqua soccorrevano alle bisogne degli occhi. Il cannocchiale, ritruovato da un idiota occhialaio olandese, il qual perciò con aria latina chiamano «conspicilla batavica»; che ne ha dato al gran Galileo, pur italiano, la discoverta di nuove stelle, il compimento dell’astronomia ed un altro sistema mondano. La polvere e lo schioppo, ritruovati in Germania da un tal Bertoldo; onde poi nacque il cannone, la prima volta di cuoio, pur in Italia inventato in una guerra tra genovesi e viniziani, che ne ha dato una nuova bellica. Il lambicco, ritruovato dagli arabi, da’ quali ha la voce «alembich», il qual n’ha dato questa spargirica, tanto disiderata dagli antichi, come l’aveva ne’ suoi maggiori voti Galeno, e n’ha fruttato la chimica. Pur ritruovato degli arabi, ricevuto da tutte le nazioni, sono le dieci figure de’ numeri, c’hanno facilitato l’aritmetica sopra quella degli antichi, i quali le somme sformatamente numerose contavano per punti. La carta, ritruovato di questi tempi, e gli piú vogliono nell’Italia, e la stampa, ritruovata in Magonza (contesa a torto alla Germania dall’Olanda, la qual pretendeva essersi ritruovata in Arlem), che ne ha dato la soprabbondante copia di libri, la quale oggimai n’opprime. L’orologio, pur ritruovato nella Germania, quanto ingegnoso tanto necessario per osservare in ogni luogo, in ogni tempo, l’esatte misure del tempo. Filippo Brunelleschi fiorentino non arebbe ritruovato la cupola di Santa Maria de’ fiori in Firenze, se avesse ceduto agli architetti antichi, i quali tutti gliel’avevano contrastato, che produsse una nuova architettura. La circolazione del sangue n’ha dato nuovi sistemi di [CMA4] notomia e di [CMA3] medicina; la quale, benché si contenda tra l’Inghilterra e l’Italia, questa d’averla ritruovata Paolo Sarpi e quella Guglielmo Arveo, certamente Marco Polo, gentiluomo viniziano, riferisce averla ritruovata, insieme con la stampa, [CMA4] discoverta innanzi, [CMA3] nella gran Tartaria.[1247] Tante e sí grandi invenzioni barbare, che poi destarono gl’ingegni de’ dotti a meditare tante bellissime ed utilissime scienze, se giugnessero a’ lontani secoli avvenire senza queste distinte notizie di storia certa, direbbono senza dubbio i vegnenti ch’i loro ritruovatori fussero stati ricolmi dell’innarrivabile sapienza barbaresca dell’Ornio, siccome finora noi abbiam creduto de’ Zoroasti, de’ Berosi, de’ Trimegisti, degli Atlanti e degli Orfei; e, come da quelli era stata la Grecia, cosí da questi fussesi illuminata la
Francia, ch’aprí la famosa scuola parigina agli studi della piú sublime teologia, tanto piú ch’andò ad insegnarlavi dall’Italia il famoso Pier lombardo, detto il «maestro delle sentenze», e vi lavorarono sopra acconci sistemi di sottilissima filosofia un Giovanni Dunz ed un Guglielmo Ocamo da Inghilterra ed un san Tommaso d’Aquino da Italia.[1248] Da sí grave ragionamento, che tratta di ricorso di nazioni, fuori d’ogni nostro proposito esce di fianco la risposta al libro del francese, il quale con tanta sicurezza porta questo problema in fronte: Se l’altre nazioni d’Europa abbiano pregio d’ingegno. Forse ciò avviene perché gl’ingegni delle nazioni sono come quelli de’ terreni, i quali, lunga etá incolti, poi coltivati, dánno frutti maravigliosi per grandezza, buono succo e sapore, e poi con la lunga e molta coltivazione gli rendono piccioli, poco sostanziosi e sciapiti? e che perciò da’ latini la facoltá ritruovatrice della mente umana fu detta «ingenium», quasi «ingenitum», che sia «natura», come dissero «ingenium caeli», «ingenium soli»; e tanto non si acquista e migliora che s’infievolisce e si disperde con la coltura delle scienze e dell’arti?
[1249] [499] [CMA3] Questa storia dell’umane idee, pruovata con l’antiche e ripruovata con le moderne nazioni, ci vien a maraviglia confermata dalla storia della filosofia, [CMA4] la quale lo Stanleo, come noi qui il facciamo in questa parte della logica, doveva filosoficamente narrare. Che la prima maniera ch’usarono gli uomini ....
[1250] [500] .... (tanto i primi popoli eran incapaci d’universali!). Le quali le menti cortissime di que’ primi uomini non potevan affatto intendere, e solamente le potevan sentire a certe comuni utilitá universalmente richieste da intieri comuni d’uomini, qual fu la prima legge agraria che nacque al mondo, com’appresso dimostreremo. Del rimanente, non intendevano il bisogno delle leggi senonsé fussero succeduti i fatti che domandavanle; come il re Tullo Ostilio apertamente il professa sulla storia romana, ove dice di non sapere che pena s’appartenga ad Orazio, accusato d’aver ucciso la sua sorella.
SEZIONE TERZA
Capitolo Unico
[1251] [507] .... le mogli erano a luogo di figliuole de’ lor mariti e di sorelle de’ lor figliuoli, ed appo molte nazioni barbare le mogli non meno che i figliuoli sono da’ lor mariti trattate da schiave. Finalmente, per tal prerogativa degli auspíci appo le prime nazioni, dovetter i matrimoni incominciare non solo con una sola donna ....
[1252] [508] .... Bacco nato da Semele fulminata; chiaro, quanto i due anzidetti, Perseo fatto con Danae da Giove cangiato in pioggia d’oro, per significare la gran solennitá degli auspíci con una pioggia di fulmini. Questo fu il primo motivo ....
[1253] [509] La seconda solennitá è che le donne si velino .... Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni, anco dagli ebrei; e i latini ne diedero il nome ....
[1254] [510] .... E dopo le prime terre occupate da’ giganti con ingombrarle coi corpi [CMA3] e con le mani, come appunto i pittori dipingono i giganti con le mani incatenate a terra sotto de’ monti, le mogli solenni si dissero «manucaptae».
[1255] [512] Onde Venere eroica .... si cuopre la vergogna col cesto dal quale furon detti da’ romani «incestuosi» i congiugnimenti vietati da strettezza di sangue; il qual cesto, poi, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl’incentivi della libidine. [CMA3] Ma forse meglio sará, alla maniera di Varrone, dar a cotal voce origine natia, e che le nozze contratte tra gli troppo stretti di sangue si dicano «inceste» perché sieno troppo caste, siccome la particella «in» per un gran numero di voci non toglie ma accresce il sentimento. Perché le prime nozze dovetter essere tra fratelli e sorelle, ch’avevano la comunanza dell’acqua, che faceva la castitá delle nozze, come quindi a poco diremo. Dipoi, essendosi propagata l’umana generazione, tal castitá fu soverchia, e, per piú propagarsi il gener umano, proibita. Alla stessa fatta poi, corrotta la severa storia degli auspíci ....
[1256] [513] .... in tal sentimento «heri» si dissero da’ latini, [CMA3] e con perpetuitá cosí restaron detti nel comandare, siccome costantemente s’osserva nelle commedie da’ servi dirsi «heri» i loro padroni. E ’l patrimonio del padre di famiglia difonto, che con voce natia latina era stata detta «familia» nella legge delle XII Tavole, poi da quest’origine greca restò detta «hereditas», che dapprima dovette significare «sovrana signoria», siccome tra gli dèi è signora e regina Giunone; e da essa legge delle XII Tavole .... e i figliuoli non meno che gli schiavi furono compresi sotto il nome «rei suae», anzi tutta la famiglia venne intesa sotto la voce «pecuniae», com’altri leggono quel capo con le voci «pecuniae tutelaeve». Lo che troppo gravemente appruova .... la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Per cotal signoria dovettero le madri di famiglia dirsi «dominae» da’ romani dalla voce «domi», ond’è «servare domi», «guardar la casa», perocché il dover iconomico delle madri di famiglia è di comandar e conservar nelle case; e quindi «donna», in sentimento di «signora», fu detta agl’italiani, «dueña» agli spagnuoli, «dame» a’ francesi. Le qual’origini di cose e di voci stando cosí, tanto dovette a’ greci significar «eroe» quanto «signore», e le repubbliche «eroiche» lo stesso che repubbliche «di signori», quali sono e si dicono le repubbliche aristocratiche.
[1257] [518-9] Tal morale divina finalmente diede a’ primi uomini quella pratica sperimentata, utile per tutti i tempi appresso ed assistita dalle ragioni delle migliori filosofie, di commettersi gli uomini tutti alla divina provvedenza e stimar bene tutto ciò ch’ella ci para davanti. Della morale eroica de’ tempi ultimi ragioneremo nella Discoverta del vero Omero.
SEZIONE QUARTA
Capitolo Primo
[1258] [521] .... Talché essi duumviri venivan ad essere quasi leggi vive e parlanti, [CMA3] come poi, ritruovate le lettere volgari, propiamente «legislatori» si dissero i consoli, per cagion d’esemplo, i quali dal senato portavano le leggi al popolo, le quali esso volesse comandare.
[1259] E qui sia lecito far una digressione a Tribuniano, il quale nell’Istituta vuole che la divisione del diritto romano in iscritto e non iscritto sia venuto da Grecia in Roma, cioè da Atene, che, come repubblica popolare, scriveva le leggi, e da Sparta, che, come repubblica aristocratica, osservava le costumanze. E ciò che fu, è e sará civil natura di tutti i popoli di vivere finalmente con costumanze e con leggi — perché, innanzi di ritruovarsi le lettere volgari, la divina provvedenza aveva ordinato che vivessero con costumanze, e poi, ritruovate le lettere, vivessero anche con le leggi, siccome l’avvertimmo nell’Annotazioni alla Tavola cronologica (onde il gius naturale, che precorse al civile in tutte le nazioni, egli da’ giureconsulti si diffinisce «ius divina providentia hominum moribus constitutum») — i romani il dovettero apparare da’ greci! Il qual errore, com’altri quanto numerosi tanto egualmente gravi, è germogliato da quello: che la legge delle XII Tavole fusse venuta da Grecia in Roma, come farem vedere nel Ragionamento ch’abbiam promesso nel fine di questi libri. Qui ora solamente s’avvertisca quanto nulla o assai poco Tribuniano, Teofilo, Doroteo, che composero l’Istituta e dovetter essere gli piú riputati di tutti gli altri greci giureconsulti di que’ tempi, furon essi filosofi, che da un errore cosí balordo incomincian a trattare de’ princípi della giurisprudenza. S’aggiugna che furon ignorantissimi delle cose romane. E finalmente faccia il cumulo che presero a trattar di leggi concepute in lingua straniera; d’intorno alle quali la cosa quanto necessaria tanto da Cuiacio, ne’ Paratitli de’ Digesti, è riputata la piú difficile, ch’è la diffinizione de’ nomi
di legge, la qual esce da essa interpetrazione delle parole. Per le quali cagioni tutte s’intenda che guasto hanno essi dato alla giurisprudenza romana con irreparabil danno, avendo fatti in minutissimi brani i libri de’ romani giureconsulti, i quali se avessero lasciati intieri tutti uniti in un corpo, altre testimonianze che marmi e medaglie arebbon avuto i filologi, altri lumi i filosofi, per iscuoprire quelli le romane antichitá e questi la natura di questo mondo di nazioni! Lo che Bacone da Verulamio, tra perché fu filosofo e non filologo, e perché gl’inghilesi nulla o poco curarono la romana giurisprudenza, non seppe nemmeno disiderare; e que’ pochi canoni, che dá d’intorno alla scienza delle leggi nel suo aureo libro De augumentis scientiarum, non hanno né ’l nerbo né ’l fondo c’hanno gli altri disidèri e discoverte delle quali si adorna il suo Novus orbis scientiarum.[1260] [530*] [CMA2] Ma perché è costume comune delle nazioni ch’i plebei, perché naturalmente ammirano la nobiltá, ne prendono i favellari come l’usanze, ed al contrario i nobili, perché naturalmente voglion esser distinti nelle cittá, altri e altre di nuovo ne truovano (la qual dee essere la gran cagione delle differenze delle parole in ciascuna lingua, le quali quanto sono lo stesso nella significazione tanto nel suono elleno son affatto diverse); [CMA3] e perché tra’ contadini come l’usanze cosí gli antichi favellari piú si conservano: cosí [CMA2] la voce «filius», la quale nel principio fu vocabolo eroico, e perciò quello che ’n giurisprudenza si dice «vocabulum iuris», poscia, divolgatosi nella plebe romana, passò a significare i figliuoli naturali ....; i nobili, per distinguersi, presero ad usare la voce «liberi», [CMA3] con la quale parola parla la legge delle XII Tavole, ond’è vocabolo ora di legge e comprende di qualunque grado i nipoti, i quali, naturalmente, non sono figliuoli.
[1261] [545] [CMA3] Appresso, menando innanzi la stessa maniera di pensare, dovettero dire «poma d’oro» prima il latte e dappoi le belle lane, che pur sono frutti di natura, con quest’ordine avvertiti dopo il frumento, perché appresso si mostrerá la pastoreccia esser venuta dopo la villereccia. Quindi appo Omero si lamenta Atreo che Tieste gli abbia rubato le pecore d’oro; e gli argonauti predarono il vello d’oro da Colco, ed Ercole faceva bottini di pecore e capre d’oro: dal qual pregio e carezza i poeti, delle loro amate donne, dissero «aureas papillas». Perciò lo stesso Omero appella con perpetuo aggiunto i suoi re ....
[1262] [547] [CMA3] Tanto vi volle di tempo che l’idea della carezza e del pregio passasse dall’oro frumento al metallo! Dallo che si raccogliono due bellissimi corollari. De’ quali uno è che non bisogna piú travagliarsi i mitologi a dire con molta serietá molte ciancie per giustificare d’avarizia, di sfacciatezza e d’ingratitudine un valoroso eroe, Diomede, che sembra avaramente voler cangiare il suo scudo di ferro con quello d’oro di Glauco, sfacciatamente fargliene la domanda, e senza grado alcuno nel riporta cangiato. L’altro è che la divisione dell’etá del mondo per gli quattro metalli, cioè d’oro, d’argento, di rame e di ferro, è ritruovato de’ poeti de’ tempi bassi, della quale non vi ha niun luogo appo Omero che ne faccia alcuna menzione. Perché quest’oro poetico diede a’ greci il nome dell’etá dell’oro ....
[1263] [550] .... cioè di sanginelli, sambuchi, che finoggi ne ritengono e l’uso e ’l nome, e di quella che pur dagl’italiani si dice «erba santa»; dette cosí dal sangue degli uccisi .... quella parte della legge che minaccia la pena a’ di lei trasgressori. [CMA4] Sí fatta istoria delle prime vervene (ché cosí pure si chiamarono tali erbe ch’adornarono i primi altari del gentilesimo) ella ci dimostra che gli altri popoli del Lazio celebravano privatamente lo stesso costume de’ romani di tenere sí fatte erbe per sante. Ch’è quello che qui pruoviamo generalmente; che il diritto natural delle genti ....
[1264] [552] E ’n questi princípi doveva dar Aristotile ed altri c’hanno scritto della dottrina iconomica, che, per difetto di questa Scienza, essi non poterono vedere per la parte de’ figliuoli, e molto meno per l’altra de’ famoli. Perché tutti i filosofi, ingannati da’ filologi, stimarono le famiglie nello stato di «natura» essere state di soli figliuoli ....
Capitolo Secondo
[1265] [553] .... uccidevano i violenti ch’avevano violato le loro [CMA3] arate terre. Che dovett’essere la prima violenza ingiusta fatta contro l’umana societá, perocché le violenze innanzi fatte nelle risse che produceva l’infame comunione delle cose e delle donne non erano state né giuste né ingiuste, a cagion che non si eran ancora gli uomini associati. E ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti ....
[1266] [557] .... E con una di queste famiglie dovette Abramo far guerre co’ re gentili. [CMA4] Cosí si può far verisimile la storia romana d’intorno alla calogna da Appio decemviro tramata contro Virginia, ch’ella fusse sua schiava, perché in que’ tempi i plebei erano come schiavi de’ nobili.
[1267] [564*] Ma i gramatici latini, ignari di quest’origini di cose, che dovevano dar lor la scienza dell’origini delle voci, essendo lor pervenuta la voce «lucus» in significazione di «bosco sagro» (perché ne’ primi tempi con aspetto di sagre si guardavano tutte le cose profane), ed osservando che folti fronzuti arbori con dense ombre facevano le delizie de’ boschetti sagri, si finsero l’antifrasi con cui fosse «lucus» stato detto perché «non lucet». Come se gli autori delle lingue, ch’erano tutti senso quando le si formarono, come sta appiena sopra dimostro, avesser dato i nomi alle cose dalle loro negazioni, le quali non lasciano vestigio in esso intelletto, tanto non posson fare impression alcuna ne’ sensi!
[1268] [565-6] .... pei quali forse fu immaginata Venere maschia, natane in mente de’ poeti eroi la fantastica idea dal veder essi quant’erano brutti, laidi, sozzi, irsuti, squallidi e rabuffati gli uomini empi che si rifuggivan a’ lor asili: nel quale stato sarebbono degni d’andare alcuni dotti con la loro sfumata letteratura, a’ quali dovrebbe far capo Bayle, che sostiene che senza religione si possa vivere, e che si viva di fatto, [in] umana societá. Di questa bellezza, e non d’altra, furono vaghi gli spartani .... come osserva Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea. [CMA4] E con la stessa eroica propietá Orazio dovette dire «infame monstrum» la regina Cleopatra, maritata a Marc’Antonio senza aver con lui il gius divino de’ romani auspíci comune.
SEZIONE QUINTA
Capitolo Primo
[1269] [582] .... e per tutto ciò naturali obbligazioni. [CMA3] Né le leggi romane s’impacciaron unquemai delle nazioni libere poste fuori del lor imperio, [CMA4] né loro apparteneva impacciarsene, le quali tutte essi stimavano barbare. Ch’anzi tal paterna potestá degli antichi romani ha del barbaro, e quella che si celebrò sotto gl’imperadori hassi a tener per umana.
[1270] [593] .... i vagiti di Giove bambino ...., che Saturno (il qual dee esser plebeo) volevasi divorare, per significare che con una fame di disiderio ne bramava il dominio de’ campi; dal quale nascondimento i latini gramatici, indovinando, dissero essere stato appellato Latium.
Capitolo Secondo
[1271] [601] .... tutti i regni eroici furono di sacerdoti, quali oggi sono nell’Indie orientali i regni de’ bonzi. I quali feudi sovrani ....
[1272] [603*] Di queste cose dovevano avere la scienza gli eruditi interpetri, ch’empiono tutte le carte del famoso «ius quiritium romanorum», e non seppero nulla de’ suoi princípi, perché trattarono le leggi romane senza veruno rapporto allo stato da cui, come prendono la forma, cosí debbon avere la lor vera interpetrazione le leggi. Ma, per ciò ch’appartiene al nostro proposito, per queste ed altre ragioni ch’a’ luoghi lor usciranno, si convince d’errore Oldendorpio, che credette i nostri feudi essere scintille dell’incendio dato da’ barbari al diritto romano; perché ’l diritto romano, come d’ogni altro popolo, è nato da questi princípi eterni de’ feudi. Si convince d’error Bodino, ove dice che i feudi sovrani soggetti ad altri sovrani sono ritruovati de’ tempi barbari, intendendo i secondi a noi vicini; perch’è pur troppo vero di tutti i tempi barbari ne’ quali da sí fatti feudi nacquero tutte le repubbliche
del mondo. [CMA3] Si riprende di falsa oppenione Cuiacio, il qual tiene cotal materia di feudi per vile; la quale nelle sue cagioni è tanto nobile e luminosa, ch’indi, nonché la giurisprudenza romana, illustra i suoi princípi essa dottrina politica, ch’è la regina di tutte le scienze pratiche.[1273] [611*] Dalla discoverta di tal’ospiti eroici si può facilmente intendere il trasporto di fantasia, per lo quale Cicerone negli Ufici vanamente ammira la mansuetudine degli antichi romani, che col benigno nome di «ospite» chiamavano il nimico di guerra. A cui affatto somigliante sono due altri: uno di Seneca, ove vuol pruovare che debbano i signori usare umanitá inverso gli schiavi, perocché gli antichi gli chiamarono «padri di famiglia»; l’altro è di Grozio, che, nell’annotazioni a’ libri De iure belli et pacis, con un gran numero di leggi di diverse barbare nazioni d’Europa crede dimostrare la mitezza delle antiche pene dell’omicidio, che condannano in pochi danai la morte d’un uomo ucciso. I quali tre errori escono dalla sorgiva di tutti gli altri che si sono presi d’intorno a’ princípi dell’umanitá delle nazioni, la quale è stata da noi additata tralle prime delle nostre Degnitá; perché tali etimologie e tali leggi dimostrano la fierezza de’ primi tempi barbari anzi che no, ne’ quali trattavano gli stranieri da nimici di guerra, i figliuoli a guisa di schiavi, come si è sopra veduto, e tenevano cotanto a vile il sangue de’ poveri vassalli rustici, che con la lingua feudale si dicevano «homines», di che si maraviglia Ottomano come abbiam accennato sopra.
Capitolo Quarto
[1274] [624] [CMA3] Tanto che la βουλή e l’ἀγορά .... dovetter essere tra’ romani le ragunanze curiate .... e le ragunanze tribunizie. D’una delle quali Pomponio fa menzione ove narra la legge con la quale Giunio Bruto pubblicò alla plebe romana l’ordinamento fatto da’ padri d’intorno agli re per sempre discacciargli da Roma. Sopra la nominazione della qual legge dicono tante inezie erudite i colti interpetri della romana ragione; delle quali quella non è punto da passare senza castigo: che cotal legge fusse stata appellata «tribunizia», [CMA4] quasi «Bruti Iunia»; e piú quell’altra: [CMA3] perocché Giunio Bruto, che comandolla, era allora tribuno de’ celeri, ch’ora si direbbe capitano delle guardie del corpo
del re. Con la quale sciocchezza vengon a dire che Bruto, il quale con tal legge comanda che sia spento eternalmente in Roma anco il nome di re (onde a Tarquinio Collatino, di tanto offeso dal figliuolo del Superbo, quanto fu la violenza dell’adulterio che ne patí e la morte che se ne diede la sua amabilissima casta e forte moglie Lucrezia, non per altro fece deponere il consolato che perché aveva il casato Tarquinio), avesse appellato tal legge da un maestrato che con l’armi ne aveva guardato la persona: quando a’ dittatori, ch’appresso, nelle bisogne pubbliche le quali gli richiedevano, con qualitá reale monarchica si crearono, si dava un maestrato che dovevane guardar le persone, ma per l’odio del nome reale [lo] dissero «maestro de’ cavalieri»; e, per riguardo della sola religione, superstiziosa delle parole [CMA4] e delle formole consagrate, [CMA3] «re delle cose sagre» (quali con Aristotile vedemmo essere stati gli re eroici, e perciò anco stati lo erano gli re romani), restò un nome attaccato al capo de’ feciali o sia degli araldi, [CMA4] i quali oggi, nella barbarie ricorsa, si veggono vestir le dalmatiche e diconsi «re dell’armi» e, come or sono questi, [CMA3] cotanto avvilito, che ’n tutta la storia romana appresso non se ne legge altro che ’l nome. Errore affatto somigliante a quello con cui han creduto [CMA4] essere stata appellata col nome, odiosissimo a’ romani, di «regia» [CMA3] la legge con la quale Tribuniano vaneggia aver il popolo romano trasferito il suo libero sovrano imperio in Augusto: della qual favola nel fine di questi libri, come abbiam sopra promesso, terremo un particolare ragionamento.[1275] [626] .... ed all’incontro tanto «plebeo» quanto «ignobile». [CMA3] Ma, dappoi che i plebei cominciaron a ragunarsi per comandar l’esiglio di chiari uomini nobili, ch’erano gravi alla loro libertá naturale, come avevano incominciato a farlo con Marcio Coriolano, indi in poi si disse «maximus comitiatus» la ragunanza grande de’ nobili e de’ plebei; della qual voce si serve la legge delle XII Tavole. Il qual superlativo porta necessariamente di séguito la ragunanza minore, ch’era la tribunizia de’ plebei, e la maggiore, ch’era la curiata de’ nobili. Ma, poi che Fabio Massimo introdusse il censo pianta della libertá popolare ...., il qual censo distingueva il popolo romano per tre ordini, secondo le facultá ....
[1276] [626*] [CMA3] La qual veritá si dimostra con un luminoso esemplo della casa Appia, la piú nobile di tutte le patrizie
romane, la qual da Regillo era fin da’ tempi di Romolo venuta in Roma con Atta Clauso, signore co’ suoi vassalli; della qual casa il ramo della famiglia Appia Claudia fu sempre senatoria, l’altro della famiglia Appia Pulcra, per la povertá, fu sempre plebea. E, della stessa Appia Claudia, Clodio, per ambiziosi disegni d’essere tribuno della plebe, non potendo esserlo se non fusse dell’ordine plebeo, fecesi da un plebeo adottare, né pertanto lasciò d’esser nobilissimo. Perché, con l’adozione, si perdeva la sola famiglia e quindi la sola agnazione; ma non si perdeva la casa o gente e, per essa, la gentilitá, [CMA4] siccome il professa Galba appo Tacito, il qual dice che, con l’adozione ch’egli faceva di Pisone, esso allo splendore della casa Sulpizia, che vantava di venire da Pasife e da Giove, univa quello delle case di Crasso e Pompeo, da’ quali Pisone traeva l’origine.[1277] [627] .... «plebiscitum», venendo egli da «sciscor», e non «scio». [CMA3] E ne’ comizi centuriati si serbò l’origine della voce «curia», perché delle novantanove curie, nelle quali, per tre ciascheduna, si eran divise le trentatré tribú di Roma, per ritondezza di numero e per leggiadria di favella, si dissero cosí quasi «centumcuriata».
[1278] [628] [CMA4] Lo che tutto era ciò che doveva dar i princípi al Gruchio, il quale scrisse un giusto volume De comitiis romanorum, al Sigonio ed altri autori, c’hanno adornato in questa parte le cose antiche romane.
Capitolo Sesto
[1279] [641] .... Questa stessa eterna inimicizia de’ primi popoli dee spiegarci che i giuochi equestri, ne’ quali i romani rapirono le donzelle sabine, dovetter essere ladronecci fatti da ospiti eroici, che convengono alle castissime sabine donzelle piú che vadano in cittá straniere a vedere i giuochi per gli teatri, [CMA3] le quali non si portavano in quelli delle cittá loro propie [SN2]. Dee spiegarci altresí che ’l lungo tempo ch’i romani avevano guerreggiato con gli albani .... aveva loro renduto il legittimo re Numitore. Ed è piú verisimile di quello che l’Orazia avesse riconosciuto la veste del suo Curiazio ucciso, mentre il fratello la portava con l’altre in trofeo, ch’ella di sua mano avessegliela ricamata; quando Penelope ci assicura che ’l piú nobil lavoro donnesco delle greche
regine era il tesser la tela. È molto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoria ....[1280] [644*] Onde l’antichissime leghe delle dodici cittá dell’Ionia, delle dodici cittá di Toscana, delle quarantasette latine sono sogni eruditi; né Servio Tullio, né Tarquinio Superbo, narratici da Dionigi d’Alicarnasso essere stati capitani della latina guerra alliata, sono altrimenti da prendersi che quali Ulisse ed Enea furono capitani de’ loro soci. E la lega delle Gallie sotto Vercingetorige e de’ Germani sotto d’Arminio non furono dettate da altro che dall’aver Cesare e Germanico fatta lor con l’armi un’uguale necessitá di difendersi. Ch’altrimente, non tòcchi, se ne sarebbono stati come fiere dentro le tane de’ loro confini, seguitando a celebrare la vita selvaggia ritirata e solitaria de’ polifemi, ch’abbiam sopra dimostrata.
[1281] [657] .... cosí noi la legge delle XII Tavole .... possiam chiamare «ius naturale gentium romanorum». Perché sel credano da oggi innanzi gli sciocchi che ne’ primi tempi di Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole venissero ab intestato alla successione de’ lor padri, e che la legge delle XII Tavole l’avesse riconosciuta. Perché ’l famoso «ius quiritium romanorum» ne’ suoi primi tempi era propiamente diritto di romani armati in adunanza (come si è detto), di cui o totale o primaria dipendenza era il dominio quiritario: dominio per ragion d’armi, il quale tra gli altri modi si acquistava con le successioni legittime; e, perché le donne non ebbero in niuna nazione il diritto dell’armi, quindi appo tutte restaron escluse dall’adunanze pubbliche, e particolarmente tra’ romani rimasero in perpetua tutela o de’ padri o de’ mariti o d’altri loro congionti.
Capitolo Settimo
[1282] [664*] Non vogliam qui accrescere di piú confusione e lui e tutti gli altri politici e critici romani ed eruditi interpetri della romana ragione, con ricordar loro le riflessioni che dovevan fare sopra il regno romano, per trarne dagli effetti la natura, se fusse stato monarchico o aristocratico; lo che abbiam fatto nella Scienza nuova prima. Solamente gli avvertiamo che non hanno pur un autor romano che loro assista, anzi che non sia loro contrario. Vaglia per tutti Livio, il quale, in narrando l’ordinamento fatto
da Giunio Bruto .... e, finito il regno annale, eran anco soggetti all’accuse, conforme gli re spartani erano fatti afforcare dagli efori. Se i consoli romani furono due re monarchi come sarebbono stati due dittatori, cosí prima gli re erano stati ciascuno a vita monarchi di Roma.[1283] [665] Né punto loro soccorre, ma contrasta Tacito, ove dice «libertatem et consulatum Iunius Brutus instituit», [CMA3] essendo egli un verbo comune all’«ordinare» (onde son detti «instituta maiorum», «ordinamenti de’ maggiori») ed all’«incominciare» o «avviare» (onde son dette «institutiones») nelle discipline. Perché Giunio Bruto ordinò il consolato, col quale restituí o sia rimise in piedi la libertá de’ signori dai tiranni, e con l’elezione d’anno in anno de’ consoli incominciò la libertá popolare, poiché la plebe ne volle eletto, del suo corpo, ancor uno, e ne riportò non solo uno ma tutt’i due. Perché lo stesso politico pone in bocca di Galba ch’è in luogo di libertá l’eleggersi l’imperadore, il qual era pur uno ed a vita; molto piú dovette qui intenderlo del consolato, il qual era annale diviso in due: ma dice esser a luogo di libertá, perché, come l’elezione degl’imperadori non mutò la forma monarchica dell’imperio romano, cosí l’elezione de’ consoli non mutò la forma aristocratica della romana repubblica. Che se Tacito avesse inteso Bruto aver ordinato la libertá popolare come ordinò il consolato, con la sua brevitá l’arebbe detto col solo verbo «ordinavit», perocché è frase solenne e quasi consegrata «ordinare rempublicam». Se non pur i romani, gente barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio ....
Capitolo Ottavo
[1284] [677] .... egli è ora per civil natura impossibile. [CMA3] Ma i dotti, in questa umanitá, che gli rende di menti scorte e spiegate, con le lor inefficaci riflessioni, le quali non mai fecero un eroe operante, ciò che fu effetto di nature corte e perciò d’ingegni particolari e presenti, ne han fatto un sublime interesse di giustizia inverso tutto il gener umano, la qual Achille sconosce con un suo pari, nel tempo stesso che corre con quello una stessa fortuna; ne han fatto quell’amor di gloria, ch’Achille non sente per tutta la sua greca nazione pericolante; ne han fatto quel disiderio d’immortalitá, ch’Achille nell’inferno contracambierebbe con la vita d’un vilissimo schiavo.
[1285] [SN2] Queste ragionate cose si compongano sulle degnitá dalla lxxxv [lxxxix] incominciando sino alla xc [xcv], sulle quali, come in lor base, si sono ferme. E quivi si combinino le cagioni dell’eroismo romano con l’ateniese, che, finché Atene, come ne udimmo Tucidide, fu governata dagli areopagiti, cioè fu di forma o almen di governo aristocratica (il qual tempo durò fin a Pericle ed Aristide, che furon il Sestio e ’l Canuleo ateniesi, ch’aprirono la porta degli onori a’ plebei), fece ella delle imprese sublimi e magnanime. Si combinino con lo spartano, il quale fu certamente di Stato aristocratico, e quanti nobili diede tanti eroi alla Grecia, che con merito si davan a conoscere essere discendenti di Ercole. E si vedrá ad evidenza pruovato che l’umana virtú non può umanamente sollevarsi che dalla provvedenza con gli ordini civili ch’ella ha posto alle cose umane, come ne abbiamo dato una degnitá. La quale ora stendiamo ancor alle scienze, le quali non si sono intese né accresciute che alle pubbliche necessitá delle nazioni: come la religione produsse l’astronomia a’ caldei; le innondazioni del Nilo, che disturbava i confini de’ campi agli egizi, produsse loro la geometria, e quindi la maravigliosa architettura urbana delle loro piramidi; la negoziazion marittima produsse a’ fenici l’aritmetica e la nautica; siccome oggi l’Olanda, per esser soggetta al flusso e riflusso del mare, ha tra’ suoi produtto la scienza della fortificazione nell’acque. Onde si veda se senza religione, che ne avesse fondate le repubbliche, gli uomini arebbono potuto avere verun’idea di scienza o di virtú!
SEZIONE SESTA
Capitolo Unico
[1286] [679] .... E Desiderio Erasmo con mille inezie, [CMA3] tralle quali son queste: ch’i denti son il numero delle lettere, e che gli uomini armati son i letterati, i quali nelle loro literarie contese combattono a morte tra loro e finalmente s’uccidono. La qual interpetrazione poteva egli afforzare con quella frase latina con cui si dice «exarare literas», e che lo stile «arava» sulle tavole incerate le lettere; e con quell’altra greca con cui dicono βουσροφηδόν γράφειν scrivere voltando lo stile a guisa de’ buoi quando arano la terra. Si veda quanto può la superstizione di un falso dogma ricevuto senza esame per vero, che fa dire tali ciancie ad un uomo il quale per la grande erudizione fu detto il Varrone cristiano ....
[1287] [686*] [CMA3] Il padre Monfocone, il quale noi vedemmo dopo aver dato alle stampe le nostre Lezioni omeriche, dove tratta dell’armi degli antichi, e spezialmente degli scudi, rapporta d’un letterato francese l’interpetrazione dello scudo d’Achille, e l’adorna con molta lode d’erudizione e d’ingegno. Prieghiamo il leggitore che vada ad osservarlo.
iv
[1288] [CMA3] Però conservarono tutta questa storia divina ed eroica le nazioni nel geroglifico della verga divina con in punta un’aquila, come vedemmo averla conservata gli egizi, i toscani e romani e ’n fin ad oggi gl’inghilesi: che dapprima fu il lituo degli áuguri nel tempo de’ governi divini; dappoi lo scettro de’ sacerdoti, che dappertutte le nazioni usaron corona e scettro; finalmente l’aste de’ capitani, ne’ tempi che, dopo le cittá, vennero le guerre. E tal verga o bacchetta, attaccatale la divinitá, fu ella dalle nazioni tenuta per dio, come Giustino ce n’accerta, e i romani eserciti ne venerarono l’aquile in cima all’aste per numi delle loro legioni.
SEZIONE SETTIMA
Capitolo Primo
[1289] [689] .... que’ che ne’ corpi sembran esser conati, sono moti insensibili, come si è detto sopra nel Metodo. Imperciocché Renato Delle Carte, che comincia la sua Fisica dal conato de’ corpi, egli veramente l’incomincia da poeta, ché dá a’ corpi, che son agenti necessari in natura, ciò ch’è della mente libera: di contener il moto per o quetarlo o dargli altra direzione. Da tal conato uscí la luce civile ....
[1290] [691*] Ci giovi però da tutto il ragionato raccogliere ch’è senso comune del gener umano, ch’ove non intendono gli uomini le cagioni delle cose, dicono cosí aver ordinato Iddio. Dalla qual metafisica volgare, di cui proponemmo una degnitá, cominciò la sapienza volgare de’ poeti teologi, e nella quale termina la sapienza riposta de’ migliori filosofi, e ’n conseguenza nella quale s’accorda tutta la sapienza criata di ragionar la fisica per princípi di metafisica che o vi scendino a dirittura, come fecero Platone prima e poi Aristotile, o vi dechinino per le mattematiche, come Pittagora fece co’ numeri e Zenone co’ punti, [CMA3] come sta da noi dimostrato nel primo libro De antiquissima italorum sapientia.
[1291] Ma, perché la meditazione de’ princípi fisici, i quali sono materia e forma, innalza la mente alla contemplazione dell’autore [della natura] dalle locuzioni latine, come di una lingua piú eroica di quello che ci pervenne la greca volgare, per una degnitá sopra posta, della quale dappertutto qui facciam uso, avremo piú certi vestigi di ciò che n’oppinarono i poeti teologi. I latini dissero «numen» la divina volontá da «nuere», «cennare», ond’è «nutus» «cenno», che dovette certamente cosí appellarsi da Giove, appreso ne’ tempi mutoli, che parlasse co’ cenni de’ fulmini e de’ voli dell’aquile; e sí credettero l’autore della natura essere provvedente. Con tal teologia convengono le voci «casus», «fortuna», «fatum». Perché «casus» è, latinamente, l’uscita che fanno le cose, onde «casus» poi si dissero l’uscite o terminazioni che fanno le parole: talché
le cose nel loro incominciare e progredire devono esser condotte da essa provvedenza. «Fortuna» è detta da «fortus», che agli antichi significò «buono», onde dovettero stimare «buona» anco l’avversa fortuna, e per ciò: che anco nell’avversa la provvedenza voglia il bene degli uomini, e quindi gli uomini anco nell’avversa debbano benedire gli dèi; onde poi, per distinguerla dalla rea, la buona fortuna dissero «fors fortuna». «Fatum» è da «far faris», che significa «parlar certo e innalterabile», com’era il parlare delle formole romane; onde i giorni ne’ quali il pretore rendeva ragione, la qual concepiva con sí fatte formole, si dissero «dies fasti». Appunto come la formola della condennagione d’Orazio narra Livio che doveva lo re eseguire anco se il reo si fusse ritruovato innocente; nella stessa guisa che Giove dice a Teti, appo Omero, che esso non può far nulla contro a ciò ch’una volta avevano gli dèi determinato nel Consiglio celeste (forse anco da Grecia si portò a Roma cotal ordine di giudizi?), onde gli stoici vogliono Giove soggetto al fato. Ma i latini ed essi greci, quando intendevano Iddio che regge e governa tutto, dissero «gli dèi»: talché questo è ’l «fas deorum», dal quale cominciò il «fas gentium», le quali dapprima, come appieno dimostriamo in questi libri, osservavano scrupolosamente le formole delle leggi e de’ patti. Perché era stata pur volontá di Giove di convocare il Consiglio celeste, ed era stata pur volontá degli dèi di cosí (come potevano altramenti?) decretare. Ond’Omero intese il Fato essere la determinata volontá degli dèi, la quale, perocché sia col decreto determinata, non cessa pertanto d’essere volontá.[1292] Dalle quali ed altre interminabili origini della lingua latina abbiamo in quest’opera tratto l’antichissima sapienza, non giá riposta dell’Italia, ma volgare di tutto il mondo delle nazioni; perché, essendoci accorti quella metafisica, la quale ne faceva il primo libro, esser una spezie di quella che noi qui chiamiamo «boria de’ dotti», alzammo la mente di meditare la fisica e la morale, ed applicammo a meditare ne’ Princípi del Diritto universale, che è stato un abbozzo di questa Scienza.
Capitolo Secondo
[1293] [693] L’uomo, per quanto è da’ fisici contemplato, egli è un ammasso di corpo e d’anima ragionevole; dalle quali due parti
cospira in lui un principio indivisibile d’essere, sussistere, muoversi, sentire, ricordarsi, immaginare, intendere, volere, maravigliarsi, dubitare, conoscere, giudicare, discorrere e favellare. Certamente gli eroi latini sentirono l’essere .... purissimo, che da niun esser è circoscritto, [CMA4] Quinci venne a’ latini la voce «ens» per significar astrattivamente «cosa che è»: venne sí tardi che si ha per scolastica, non per volgare latina; e lo stesso truoverassi de’ greci nel medesimo senso la voce ὤν. E quindi si tragge un grave argomento per la veritá della cristiana religione, ch’ella ha altri princípi incomparabilmente piú sublimi di quelli delle gentilesche: che questa voce, la qual venne sí tardi tra gli piú dotti gentili e non si usò che da’ filosofi, ella è antichissima volgare agli ebrei, per quel luogo di Mosè, il quale nel Sina domanda a Dio chi deve dir al popolo di averlo con la Legge mandato, e Iddio gli risponde «Qui est misit te»; e, domandandogli Mosè di nuovo chi esso si fusse, egli si descrive: «Sum qui sum» [CMA3*] (nel qual luogo Dionigi Longino ammira tutta la sublimitá dell’espressione, convenevole alla somma altezza del subietto), [CMA4] appunto come Platone, quando assolutamente dice ὤν, intende Iddio. [CMA3*] Lo che qui detto si può aggiugnere a ciò che se n’è sopra ragionato nella Metafisica poetica. [SN2] Sentirono la sostanza ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste: onde Achille portava i suoi fati sotto il tallone, com’a’ tempi barbari ricorsi i paladini portavano i talloni fatati, perché ivi stasse il lor fato, o sia la sorte del vivere e del morire.[1294] [694] .... come restò a’ latini «succiplenum» per «corpo carnuto insuppato di buon sangue», dal quale viene il vero buon colore, che fa il compimento della bellezza: onde, se non si è sano, non si può esser di vero bello.
[1295] [695] .... E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, perch’i fisici vogliono l’aria bisognar a’ pulmoni per rinfrescar le fiamme del cuore, ch’è l’ufficina del sangue, e col suo moto il ripartisce per le arterie nelle vene, onde se n’irrighi tutto il corpo animato.
[1296] [696] .... ch’è l’«igneus vigor» che testé ci ha detto Virgilio. [CMA3] Il quale, siccome colui ch’era stoico di setta, sembra aver voluto dire poeticamente ciò che que’ filosofi dicevano «senso etereo», ch’i peripatetici appellarono «intelletto agente». i platonici chiamarono «genio», [SN2] e i poeti teologi il sentivano e non intendevano .... Il qual principio poi da’ latini fu detto
«mens animi» (onde nacque quella volgar teologia che gli uomini avessero quella mente che Giove avesse lor dato); e sí, rozzamente, intesero quell’altissima veritá metafisica: Dio essere il primo principio della vita spirituale dell’uomo o sia del movimento degli animi, il quale non venga da impressione di corpo.[1297] [697] Intesero la generazione con una guisa che non sappiamo se piú propia n’abbiano potuto appresso ritruovar i dotti per ispiegare la sostanzialitá delle forme in metafisica, e ’nsiememente in fisica l’organizzazione di essi corpi formati. Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione. [CMA3*] La guisa tutta si contiene in questa voce «concipere» .... Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione (ch’ora si dee supplire con la platonica circumpulsione dell’aria, ch’essi poeti teologi non poterono intendere) di prendere d’ogn’intorno i corpi loro vicini ....
[1298] [699] .... E come naturalmente prima è ’l ritruovare, poi il giudicar delle cose [CMA4] (lo che appieno si è da noi ragionato in una replica ai signori giornalisti d’Italia d’intorno al primo libro De antiquissima italorum sapientia), cosí conveniva alla fanciullezza del mondo ....
[1299] [701] .... cioè l’irascibile nello stomaco, onde i greci dicevano lo «stomaco» per l’«ira», perocché, spremendovisi i vasi biliari, che vi son nati per la concozione de’ cibi, e diffondendovisi la contenuta bile per lo ventricolo, questi faccia la collera; e posero la concupiscibile, piú di tutt’altro, nel fegato ....
[1300] [702] .... quantunque spesso falsi nella materia. [CMA4] Ed essa voce «sentenza» ci conferma ch’i pareri uscivano dettati dal cuore: ond’è quella formola latina «ex animi tui sententia».
Capitolo Quarto
[1301] [705] [CMA3] Ma ora, perché le menti delle nazioni si son assottigliate col saper volgarmente di lettere, impicciolite col sapere di conto e ragione, e finalmente fatte astrattive con tanti vocaboli astratti, de’ quali oggi abbondano le lingue volgari, per le quali cagioni tutte oggi si pensa con animi riposati; e perché nel capo sono gli organi di due sensi, de’ quali [uno] è ’l piú disciplinabile, come il diffinisce Aristotile, ch’è l’udito, l’altro il piú acre, qual è quello della vista: perciò immaginiamo che l’anima nostra pensi nel capo. Talché, se questi due organi de’ sensi fusserci
dalla natura stati posti ne’ talloni, diremmo certamente che noi pensiamo ne’ piedi. Perché la posizione della glandola pineale, posta in cima del celabro, ove l’animo tenga il suo seggio, se non fusse di Renato Delle Carte, direi ch’è d’uomo che non s’intende affatto di metafisica. Però non altronde egli si può intendere con maggior maraviglia quanto i primi uomini, perché erano nulla o pochissima reflessione, essi valsero col vigore de’ sensi sopra ogni piú affinata riflessione; non altronde diciamo che con maggior maraviglia si possa intendere che da’ nomi ch’i latini diedero ad essi sensi e meglio che i greci gli conservarono. Che insiememente saranno due grandi ripruove: una dell’oppenion di Platone, che si parlò una volta una lingua naturale nel mondo; l’altra del vero che ha sostenuto per tanti secoli la volgar tradizione, che gli autori delle lingue fussero stati sappienti, però d’una sapienza de’ sensi.[1302] [706] [CMA3] De’ quali dissero «auditus», quasi «hauritus», quel dell’udito ed «aures» l’orecchie da «haurire», perocché l’udito si faccia da ciò, che gli orecchi tirano l’aria ch’è da altri corpi percossa, onde s’ingenera il suono. Dissero «cernere oculis» lo scernere o veder distinto, ch’è per latina eleganza diverso da «videre», ch’è un vedere confuso, perché dovettero sentire gli occhi essere come un vaglio .... Ond’è la ragione che la fiera che fugge, finch’è veduta dal padrone, non ricupera la natural libertá. L’odorare dissero «olfacere» ch’è propiamente far odore; e ’l dar odore, al contrario, dissero «olere»: che forse indi presero da sé, estimando l’api, ch’immaginavano con l’odorare facessero il mèle (perocché non potevan intendere che ne succiassero i sughi), cosí essi coll’odorare facessero gli odori. Lo che poi, con gravi osservazioni .... perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con sappiente trasporto stesero all’animo e ne dissero la «sapienza», ch’allor l’uomo sappia ovvero dia sapor di uomo, quando pensa, parla, opera le cose con propietá.
[1303] Talché è necessario che conoscessero per sensi quella gran fisica veritá, ch’or appena s’intende da’ migliori filosofi: che l’uomo faccia i colori, suoni, odori, sapori e tutt’altre sensibili qualitá con essi sensi del corpo; faccia le reminiscenze con la memoria, le immagini con la fantasia (perocché l’ingegno certamente non si esercita se non truova o fa nuove cose); e che molto meglio che i greci, i quali richiamavano al genere il qual dissero δύναμις/ (la qual con piú voci i latini voltarono «vis et potestas», onde
gl’italiani chiamano «potenze dell’anima» che usano le scuole), molto meglio, diciamo, i latini avevano per significarlo una sola voce natia, «facultas», dagli antichi detta «faculitas», e poi ingentilita e chiamata «facilitas», senza la quale facilitá di fare non si dice esser acquistata una facultá. Che doveva esser il principio della sua Logica ovvero Metafisica dell’inghilese barone Erberto, con la quale vuol provare che ad ogni nuova sensazione si desti nell’anima una nuova facultá; ch’è appunto quello che ne sembrava esser una goffa semplicitá de’ primi uomini, ch’ad ogni nuova aria di volto credevano vedere una nuova faccia, ad ogni nuova passione o pensiero credevano aver altro cuore (che truovammo esser il vero della favola di Proteo): e ’n conseguenza il parlar vero di quelle frasi poetiche «ora», «animi», «pectora», «vultus», usati per lo numero del meno da essi poeti, che oggi sembrerebbono fatte per ispiegare nell’accademie quella gran fisica veritá, che s’intese poi dagli piú avveduti filosofi: ch’in ogni momento appresso, tutte le cose in natura sono altre da quelle che sono state nel momento innanzi.[1304] [707] [CMA3] E deve essere stato cosí dalla divina provvedenza ordinato ch’avendo ella dato agli animali i sensi per la custodia de’ lor individui, in tempo ch’erano gli uomini caduti in uno stato bestiale, da essa stessa bestialitá avessero sensi scortissimi e, come gli animali bruti, sentissero anco le virtú dell’erbe che sanassero i loro malori. Siccome viaggiatori raccontano d’una generazion d’uomini in sommo grado selvaggi dell’Affrica, che sanno a maraviglia le virtú dell’erbe. I quali sensi scortissimi, venendo l’etá del senno con cui gli uomini potessero consigliarsi, si disperderono. Che tutto è pruova di ciò che ne’ Princípi dicemmo: che ora appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi autori del gener umano gentilesco.
SEZIONE NONA
Capitolo Secondo
[1305] [730] .... che corre il piú lungo anno di tutti gli altri pianeti; che misura l’etá degli uomini, perocché non poté tosto intender l’astronomia l’anno che misura la vita del mondo, detto «anno massimo» da Platone, che camina col moto delle stelle fisse. Talché l’ali troppo mal convengono a Saturno.
[1306] [731] .... Tanto essi dipendono da naturali cagioni! Tali dovrebbon essere stati i princípi dell’astronomia, piú ragionevoli che non quelli che ce ne cantarono ed Arato ed Igino.
SEZIONE DECIMA
Capitolo Primo
[1307] [733*] Ed ecco il perché la storia universale cotanto manca ne’ suoi princípi. Perché le manca questa cronologia ragionata; imperciocché tralle nazioni dovettero almeno passar mille anni per incominciarvi la voce dell’anno astronomico. Ond’è quel gran divario de’ tempi che ’l calcolo d’Eusebio errò di mille e cinquecento anni; nel qual errore si perdé il generoso sforzo di Piero cardinal di Alliac, arcivescovo di Parigi, nella sua Concordia dell’astrologia con la teologia, di truovare la certezza de’ tempi dentro le congiunzioni de’ pianeti maggiori; benché tal’incontri celesti, quantunque portassero, co’ lor influssi, straordinari effetti sopra il mondo degli uomini, v’arebbe bisognato almeno un milion d’anni innanzi, e sí d’avervi precorsi almeno trent’anni massimi di Platone, per averne, con la costanza dell’osservazione, la certa scienza che tali e non altri effetti significassero.
Capitolo Secondo bis
Supplimento della storia antidiluviana
[1308] Né qui si ferma la nostra critica. Ché col meditar il precorso delle stesse cagioni, ch’avevan dovuto produrre gli stessi effetti nella razza sperduta di Caino, innanzi, quali produssero, dopo il diluvio, nelle razze sperdute di Cam e Giafet subito, e tratto tratto in quella di Sem; per le quali cagioni tale si era desolata, innanzi, la religione di Seto nel solo Noè, quale si desolò, dopo, la religione di Semo nel solo Abramo: dovette il mondo crescere a tal cumolo di vizi, qual fu l’assiro a’ tempi di Sardanapalo, che meritava la collera di Dio di mandar altro diluvio; e ’l doveva pur mandare a’ tempi d’Abramo, quale l’aveva mandato a’ tempi di Noè, se Iddio non si fusse compiacciuto con Abramo d’entrar in una nuova allianza e nella di lui razza conservare la sua vera religione. E ’n cotal guisa si supplisce con l’intendimento il gran vuoto di mille e seicento anni, che la storia santa tace delle cose profane avanti il diluvio.
SEZIONE UNDECIMA
Capitolo Primo
[1309] [744] Dalla Tracia natia .... dovette venir Orfeo, un de’ primi poeti teologi greci. [CMA3] Altrimenti, s’egli è Orfeo della Sitonia, posta nello piú addentrato seno di Ponto, un tanto eroe, che fu fondatore della greca umanitá, vien ad essere uno scellerato traditore della sua patria, il quale scorgette i greci argonauti a farvi la ruba del vello d’oro. Ma il primo Ponto dovett’essere il picciolo stretto di mare dello Bosforo tracio, che poi distese il nome a tutto quel mare.
[1310] [750] .... che se fusse stato il monte Atlante nell’Affrica, era troppo difficile a credersi [CMA3] che, per banchettare, Giove e gli altri dèi avesser avuto a fare un viaggio, che gli piú disperati mercadanti, per l’audace ingordigia di strarricchire, [appena] arebbono fatto, quando esso Omero, estimando quella degli dèi dalla natura degli uomini, dice che Mercurio, con tutte l’ascelle, difficilissimamente pervenne nell’isola di Calipso ....
[1311] [753*] [CMA*] E qui aggiugniamo che per questi stessi princípi di geografia si dimostra:
[1312] I. — Che Zoroaste caldeo fu battriano, da Battro dapprima posto nel mezzo d’essa Asia verso settentrione.
[1313] II. — Che com’Ercole in Esperia, Perseo in Mauritania, Bacco nell’India, tutte poste dentro essa Grecia; cosí Tanai scita l’Egitto, e Sesostride egiziano avesse soggiogato la Scizia dentro essa Asia, dove fu il regno dell’Assiria; i quali due Giustino (o Trogo Pompeo, di cui è abbreviatore Giustino) propone per antiprincípi della storia universale, che ci facevan vedere il mondo assai piú antico di quel ch’è. I quali femmo vedere essere due mostri di geografia, sopra, nelle Note alla Tavola cronologica, a proposito di Zoroaste caldeo, narratoci battriano.
[1314] III. — Che Erodoto, con quell’ignoranza dell’antichitá sue propie la quale gli oppone Tucidide, con cui aveva detto che in Affrica i mori un tempo erano stati bianchi (i quali mori bianchi erano dentro la sua medesima Grecia), con quella stessa ed anco, come dovette, maggiore delle cose straniere, osserva per l’Asia
minore memorie di Sesostride egizio, che l’egizio sacerdote chiama Rampse appo Tacito, e, vaneggiando, dice a Germanico che quel loro re aveva signoreggiato fin [CMA4] nell’Asia minore, nella Libia e nella Bitinia.[1315] [CMA3*] IV. — E nella stessa guisa si vince ed atterra quell’altro mostro d’istoria: che Cambise aveva portato la guerra, nella quale morí, a Tearco re d’Etiopia, finor intesa per lo regno degli abissini, posto nel cuore dell’Affrica: ch’arebbe dovuto marciare con un grande esercito o per entro l’Egitto, chiuso naturalmente a tutt’altre nazioni, che per qualunque forza straniera non può perrompersi, e indi per gl’insuperabili monti della Luna calare nell’Etiopia, o per l’arene del regno di Barca, per le quali non vanno le picciole caravane se non provvedute di acqua e con la bussola, e a certi tempi che non vi soffiano venti, da’ quali restin anniegati in quel mare d’arene.
[1316] [754] [CMA3] Tali princípi di geografia assolutamente possono giustificare Omero di gravissimi errori o sfacciate menzogne che gli s’imputano in sí fatta scienza, siccome noi con questi princípi, non cosí come in questi libri si sono stabiliti, nel difendiamo nelle Note a’ Princípi del Diritto universale. Donde perché que’ libri non facciano piú di bisogno, rapportiamo, e piú afforzato, quel luogo qui.
[1317] [755] .... doveva in otto giorni far un viaggio [CMA3] di ventiduemilacinquecento e piú miglia; il qual errore gli è notato da Eratostene. Or qui aggiugniamo ch’i lotofagi furon anco della Caldea, perché Giobbe piange il felice stato onde cadde, ch’esso mangiava pane di frumento e li suoi servi si nutrivano di cortecce d’alberi.
[1318] [757*] [CMA3] IV. — Che l’oracolo dodoneo è posto da Omero tra i tesproti: dappoi i greci, per la somiglianza del culto, l’avessero osservato e detto in Egitto.
[1319] [759] .... non distese piú che venti miglia, come sopra abbiam detto, l’imperio, e pur l’acquisto di Corioli diede a Marcio il titolo di Coriolano, com’a conquistatore d’una provincia. L’Italia fu certamente circoscritta .... poi con le vittorie romane, si è disteso da Nizza di Savoia fino allo stretto di Messina, quale Livio il descrive.
[1320] [761] .... come greci (quelli di Menelao, di Diomede, d’Ulisse). E sopra queste novelle sparse per lo mondo da’ greci si dovrebbono con piú veritá descrivere le carte geografiche de’ viaggi
d’Ulisse e d’Enea. Osservaron essi per lo mondo sparso .... gli Ercoli dell’altre nazioni aver preso il nome dal lor Ercole egizio, per quel comun errore, che suol essere padre della boria, come madre n’è l’ignoranza, onde credevan essere la nazione piú antica ....Capitolo Secondo
[1321] [771] .... le favole debbon aver avuto alcun pubblico motivo di veritá, nella cui ricerca macera tanto di scelta erudizione Samuello Bocharto, De adventu Aeneae in Italiam, per farla istoria. Perché egli è Evandro sí potente .... fu egli il primo che menò una colonia nel mar vicino? E se tali frigi non sono i compagni d’Enea, tal difficultá s’avvanza vieppiú, quanto sono trecento anni piú antichi degli Ermodori che vengono da Efeso, cittá pur d’Asia, a far l’esiglio in Roma, per dar le notizie delle leggi ateniesi a’ romani, onde portino la legge delle XII Tavole da Atene in Roma; e vi viene da un cento anni dopo che nemmeno il nome di Pittagora .... non sapevano chi fusser i romani, giá potenti in Italia? Oh critica sopra gli scrittori troppo scioperata, che da tali princípi incomincia a giudicar il vero delle cose romane!
[1322] [772] .... e i vinti ricevuti in qualitá di soci eroici, dispersi per le campagne di quel distretto, obbligati a coltivare i campi per gli eroi romani; e ch’avessero avuto ben i romani l’idee di vagabondi, cosí mediterranei come marittimi, d’uomini senza terreni, e non avessero le voci da spiegare cotali cose straniere; ma che cosí l’ebbero da’ greci, che dovettero i vagabondi mediterranei chiamare «arcadi» uomini selvaggi, e i marittimi chiamare «frigi» per uomini usciti da cittá bruciate, stranieri venuti da mare e che non avevano terre. E cosí a capo di tempo che tali tradizioni per mano di gente barbara ....
[1323] [772*] Ma pur resta uno scrupolo sull’oppenione volgare de’ dotti, che i troiani non furon greci, ond’han creduto la frigia essere stata una lingua da quella de’ greci diversa. Certamente Omero non ha dato loro l’occasione di tal comun errore, perché egli chiami i greci d’Europa «achivi», e «frigi» quelli dell’Asia; e senza dubbio Troia per un picciolo stretto di mare era divisa dal continente d’Europa, come l’Ionia, dove fu Troia, senza contrasto tutta fu greca. Ma Aceste fu eroe troiano e fonda la lingua greca
in Sicilia, ed è di tanta antichitá che Enea il ritruova avervi fondato un potente regno; talché dovette menarvi una colonia eroica greca di Frigia molto tempo innanzi della guerra troiana.Capitolo Terzo
[1324] [775] .... dovettero chiamare «aras» (perché Virgilio osserva ch’a’ suoi tempi gl’italiani dicevano «aras» gli scogli che sovrastan al mare) e appellar anco «arces» tai luoghi forti di sito .... «sulcus designandi oppidi captus [CMA3] (cioè fu il campo arato dove poi surse la cittá), ut magnam Herculis aram amplecteretur, ara Herculis erat» (talché dice apertamente che cotal ara fu tanto ampia quanto lo fu poi la cittá di Roma nella prima sua pianta). Di sí fatte are è sparsa la prima geografia ....
[1325] [778] .... Cotal voce .... per immensi tratti di luoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane diede forse l’origine all’«araldo» degl’italiani, che con la sua santitá arretra ogni forza nimica, e donde venne «aratrum» a’ latini, la cui curvatura si disse «urbs» ....
CONCLUSIONE
[1326] [779] .... gliel’hanno piú tosto niegata [CMA3] e di quell’altra, della quale pure ne pervenne la volgar tradizione, di cui Cicerone ed altri hanno scritto che la sapienza degli antichi faceva i suoi saggi, con uno spirito, e filosofi e legislatori e capitani ed istorici. Appunto quali per tutto questo libro abbiamo ritruovato gli autori delle nazioni, dalla lor stessa sapienza poetica addottrinati, avere gittato le prime fondamenta di tutto l’umano e divin sapere, avere co’ loro stessi costumi dato le leggi a’ popoli, essere stati capitani e guide del gener umano, e finalmente aversi essi stessi descritta la lor istoria nelle lor favole. Dentro le quali, come in embrioni o matrici, si è discoverto .... i princípi di questo mondo di scienze.
[1327] [CMA3] E qui sono da compatire tutti i dotti di tutti i tempi che, osservando di piú arricchito questo mondo di nazioni di tutti i beni che ’l facessero contento del necessario, utile, comodo, piacere ed anco lusso umano, innanzi di provvenir in Grecia i filosofi, hanno, per quest’altra potente ragion ancora, cotanto lodata, ammirata e ricercata la sapienza degli antichi; ma con quanta vanitá, il facemmo apertamente vedere nella Logica poetica, ché tutte l’invenzioni massime, le quali hanci o ritruovato nuove scienze o migliorato l’antiche, tutte provvennero in tempi barbari o da idioti. Quindi si è dimostrato [SN2] con quanto nulla o poco di veritá si è ragionato de’ princípi del divino ed umano sapere in tutte le parti che ’l compiono, e con quanta scienza si sien arrecati luoghi di poeti, di filosofi, di storici, di gramatici, che sembrano essere stati luoghi comuni da pruovare in entrambe le parti opposte i problemi in tutte le scienze; talché sono state finor materia senz’impronto certo di propia forma. [CMA3] La quale, in osservandola, ci ammonisce doversi per tutto ciò benedire la provvedenza eterna, ammirare la sapienza infinita ed unirci alla somma bontá di Dio, come promettemmo di far vedere nel principio di questo libro.
LIBRO TERZO
SEZIONE PRIMA
Capitolo Primo
[1328] [786] .... esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in [CMA3] dirottissimo pianto. Ond’è vero il precetto di rettorica che dá Dionigi Longino, il quale dalle materie dello stil sublime esclude il lamento, ch’è consegnato all’elegia, i cui versi Orazio chiama «exiguos», perché sono versi rotti (particolarmente nel pentametro, il qual deve avere due posamenti necessari), e deve dentro il picciol corso d’un distico terminare; e perciò anche buona per l’allegrezza, perché cosí questa come il lamento ella è passione di cuor picciolo. Ma è falsa la ragione che, perché sia passione di cuor basso, ella perciò non sia eroica; perché gli eroi d’Omero, se non si lamentano, dánno in maggior bassezza, ché piangono, e piangono dirottamente, come fanno le vilissime donnicciuole. Di che è la ragion morale: perché il lamento è una passione ragionata; ma le passioni eroiche, come di fanciulli, erano tutte senso e nulla o assai poco avevano mescolato della ragione. Talché essa ira, che Platone pone nella parte ragionevole dell’uomo, ella da Omero è raccontata irragionevolissima nella persona d’Achille, ch’è ’l piú grande de’ greci eroi, tanto ch’è ’l subbietto di quel poema. Altri, tornando al proposito, da sommo dolor afflitti ....
Capitolo Secondo
[1329] [789] .... Eubea non era tanto lontana da Troia, ch’era posta sul lido orientale del Bosforo tracio, onde la chiamarono «terra de’ ciechi», perché fu fondata in luogo men felice, quando nel lido opposto vicino era amenissimo, ov’ora è posta Costantinopoli. Di piú, perché, a’ tempi di Omero, ivi i greci si chiamarono «achivi», che diedero il nome all’Acaia, il qual nome, poi sparso per tutta, vi fece appresso convenire a quella guerra in lega tutta la Grecia, come sopra si è ragionato.
[1330] [791*] Il simile appunto egli è avvenuto di Dante, che, con errore nel quale noi pur eravamo caduti, si è creduto finora d’aver esso raccolto da tutti i popoli dell’Italia i favellari per la sua Commedia; ma a Dante non arebbono bastato ben tante vite, per aver pronta ad ogni uopo la copia de’ favellari co’ quali compose la sua Commedia. Il vero egli è ch’a capo di trecento anni, essendosi dati i fiorentini a ragionare della lor lingua, ed osservando in Dante tanti favellari, de’ quali, come non ritruovavano autori in Firenze, cosí gli osservavano sparsi per altri popoli dell’Italia (conforme nella nostra plebe napoletana, piú nel nostro contado, ed assaissimo per le nostre provincie, ne vivon moltissimi), caddero in sí fatto errore, non avvisando che, quando Dante gli usò, dovevan esser anco celebrati in Firenze, perché pur dovette Dante usare una lingua intesa da tutto il comune d’Italia.
Capitolo Terzo
[1331] [801] .... che sono la delizia delle cene, ed onde furono cotanto lodate, quanto Ateneo ne parla, quelle degli antichi.
Capitolo Quinto
[1332] [816] .... un bel luogo d’Aristotile ne’ Morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d’ogni particolare fan massime: ch’è un grave giudizio della picciola comprensione di quell’ingegni che d’ogni particolar cosa fanno sistemi. Al qual detto d’Aristotile soggiogniamo noi la ragione: perché l’ampiezza della mente umana, la qual è indiffinita ....
[1333] [817] .... né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio [CMA4] tragico, come ultimamente cominciò a fare Torquato Tasso con la tragedia del Turismondo. E ’l gusto del volgo gravemente lo ci conferma ....
[1334] [835] Adunque tutte l’anzidette cose furono propietá .... comuni a’ particolari uomini di tali popoli. Però la sapienza riposta è propia di particolari uomini, né può esser comune a popoli intieri.
Capitolo Sesto
[1335] [853] Ch’i Pisistratidi, tiranni d’Atene, con arte propia di stabilirvisi, ch’è d’ammansire le nazioni feroci con gli studi dell’umanitá, come l’avverte Tacito nella Vita d’Agricola, che gl’introduce nell’Inghilterra, con quel motto: «et humanitas vocabatur, quae pars servitutis erat», eglino disposero e divisero o fecero disponere e dividere i poemi d’Omero ....
[1336] [856] .... «vilem patulumque orbem», che tutti i commentatori han disperato d’intendere, come dopo tutti ingenuamente il confessa la valorosa donna Dacier, la quale non rimane punto soddisfatta ....
[1337] [857] .... il qual si deve allogar a’ tempi d’Erodoto. E pur crediamo di farli piacere, perché piú importa ad una nazione scriversi le sue storie che libri di medicina; siccome i romani assai tardi ricevettero i medici, e luminose nazioni tuttavia, come la turca, vivono senza professori di cotal arte.
[1338] [862] Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino; anzi non mancarono di coloro che ’l volessero greco d’Italia.
SEZIONE SECONDA
Capitolo Secondo
[1339] [904*] Or, se in tutto questo libro, trallo spiegandosi e le ragioni che ci diede la filosofia in forza della nostra nuova arte critica, e le autoritá che la filologia ci somministrò, il leggitore prescindesse col pensiero che cosí le ragioni come l’autoritá s’indirizzano alla discoverta del vero Omero; certamente esso non sentirebbe affatto motivo alcuno di non dovervi ben convenire. Lo che se egli, riflettendovi, avvertirá, ne risultano queste tre gravissime conseguenze. La prima, che le ragioni ed autoritá sono state da esso ricevute con mente pura e scevera d’ogni passion d’amor propio. La seconda, che ’l risentirsi della discoverta del vero Omero egli è un richiamo che gliene faccia fare la memoria, la qual altro sel ricordava, e la fantasia, la qual altro avevalosi immaginato. La terza, che né le ragioni de’ filosofi, che ne hanno tante cose altrimenti discorso, né le autoritá de’ filologi, che ne hanno tante cose volgarmente rapportate, gli abbiano punto valuto per l’Omero qual esso si ricordava ed avevasi immaginato; e, ’n conseguenza, gli è di bisogno di questa Scienza per la discoverta del vero Omero. Per la quale l’aspre tempeste delle tante difficultá fatte in ragion poetica contro lui sonosi tranquillate; le gravi accuse fattegli da’ critici si sono dileguate; le rare, somme ed immortali lodi, che sembravano innanzi punto non appartenergli, si sono vendicate; e perfino e le cagioni del vero delle tante e sí costanti tradizioni che sonci di lui pervenute e le occasioni onde ci vennero sí bruttamente ricoverte di falso, si sono tra loro amichevolmente conciliate e composte.
APPENDICE
[1340] [914*] [CMA3] Ed ecco la storia de’ poeti fatta ragionevole in tutte e tre le spezie maggiori che l’assorbiscono:
1. de’ poeti eroici, divisi in due spezie, la prima di teologi, la seconda d’epici, che propiamente si chiamano «eroici»;
2. de’ poeti dramatici, pur in due spezie divisi, tragici e comici, ed entrambi altri antichi, altri nuovi;
3. e finalmente de’ poeti lirici, di tre spezie: antichi, che furon i lirici sagri; mezzani, che furon gli eroici; ed ultimi, che son i melici.
[1341] La qual istoria non si poteva altrimenti accertare che con la nostra arte critica sopra essi autori delle nazioni, quali per tutta quest’opera, e principalmente per tutto il libro secondo, abbiamo dimostrato essere stati poeti.
LIBRO QUARTO
SEZIONE SETTIMA
[1342] [939] .... talché il pretore non potesse niegargliele. Che prima professavano, come Pomponio dice, «privati ingenii fiducia», da Augusto in poi (che, con saggio consiglio, a sé, come monarca e perciò fonte di tutto il diritto civile, volle anco richiamar questa parte) il professarono coloro a’ quali esso ne avesse permesso e dato la facultá. Che durò infin ad Adriano, il qual ordinò che, nata appo i giudici difficultá se la formola data dal pretore cadesse sul fatto o no, eglino, col tacer i nomi de’ litiganti, ne consultassero i giureconsulti ordinati da esso, a’ quali questi davano chiuse e suggellate le loro risposte, dalle quali «iudicibus recedere non licebat»: onde da Adriano salí in tanta riputazione la giurisprudenza, perché indi in poi in mano de’ giureconsulti erano tutti i giudizi romani. Cosí a’ tempi barbari ritornati, tutta la riputazione de’ dottori .... ch’era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giureconsulti. Il qual ricorso di cose in giurisprudenza non è stato avvertito da niuno di tutti gl’interpetri, ed antichi e moderni, della romana ragione.
SEZIONE NONA
Capitolo Secondo
[1343] [951] .... e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del [CMA3] ben pubblico al monarca ed a coloro a’ qual’il monarca, la somma a sé riserbando, ne commette la cura nelle parti minori, nelle quali una repubblica è ripartita; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni .... Ch’è l’«aequum bonum» considerato dalla natural equitá, ed è l’obbietto della giurisprudenza ultima, che cominciò ne’ tempi della romana libertá popolare e si compiè sotto gl’imperadori.
[1344] Dal qual ragionamento escono questi importantissimi corollari:
[1345] I. — Che tal è avvenuto della sapienza de’ romani quale della poesia d’Omero, estimate entrambe effetti d’innarrivabile filosofia, che furon, in fatti, produtte dalla lor eroica natura.
[1346] II. — Che, con troppo giusto senso, gli eroi, come sopra ragionammo nella Fisica eroica dell’uomo, posero la loro sapienza nel cuore; perché ove fussero cuori eroici, cioè sinceri, aperti, fidi, generosi e magnanimi, vi sarebbon i veri sappienti di Stato, i quali ad essi monarchi non consiglierebbono che ordini di pace ed imprese di guerra, che rendessero loro gloriosi gli Stati, i quali gloriosi non sono se non portano un’universale e durevole contentezza de’ sudditi.
[1347] III. — Ch’i romani per ciò furono sappientissimi di Stato sopra tutte le nazioni del mondo, perché si fecero guidare con giusti passi dalla divina provvedenza, la qual è tutta occupata a conservar il gener umano (dal qual fine assolutamente Ulpiano diffinisce la ragione di Stato); né troppo acuti per l’indole del cielo affricano, essi scaltrirono la loro sapienza co’ traffici marittimi, come fecero i cartaginesi; né troppo dilicati per lo presto passaggio che vi avevano fatto, assottigliarono la loro con le filosofie, come fecero i greci: la qual sapienza simulata, come la cartaginese, o affilata, come la greca, non piacque al senato nel tempo della romana virtú. La qual manomise Cartagine, e con
Cartagine l’Affrica, ed in Ispagna Numanzia nel di lei troppo ancor acerbo eroismo, ed in Italia Capova, ch’aveva risoluto troppo anzi tempo l’eroismo con le delizie del cielo e con l’abbondanza della terra: delle quali tre cittá aveva temuto Roma l’imperio dell’universo. Manomise quindi la Grecia, e con la Grecia l’Asia, e fece parti della sua quelle ch’erano state innanzi due grandi monarchie, la prima de’ persiani e la seconda de’ macedoni, e divenne signora di tutto il mondo, di cui per natura potette esser signora. Onde Cicerone, il qual non credeva la favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma (come altrove abbiamo dimostrato e meglio dimostreremo in un propio Ragionamento nel fine di questi libri), aveva ben onde anteporre il solo libretto di quella legge a tutte le librarie de’ filosofi. E i romani giureconsulti, in conformitá di tal loro pratica, posero in teorica per gran principio della giurisprudenza la provvedenza divina.[1348] IV. — La soluzione d’un altro egualmente (quanto questo, senza la soluzione di questo) difficil problema a solversi: — Perché la giurisprudenza nacque sola al mondo tra’ romani? — Perché essi soli, prima coi costumi e poi, essendosi questi portati nella legge delle XII Tavole, per mezzo dell’interpetrazione, seppero custodire religiosissimamente gli ordini naturali, co’ quali la provvedenza dapprima aveva ordinato il mondo delle nazioni; lo che, per le cagioni e naturali e civili ch’abbiamo testé arrecato, non poterono né Cartagine né Numanzia né Capova né essa dottissima Grecia.
[1349] V. — Si manifesta la fortuna la qual fu cagione della romana grandezza, cioè la divina provvedenza, da’ romani sopra l’altre nazioni del mondo tutto religiosamente osservata; la qual fortuna non seppe vedere Plutarco, alquanto individioso della romana virtú, né seppe additargliela Torquato Tasso nella sua generosa Risposta a Plutarco.
[1350] VI. — Il rovesciamento dell’idee c’hanno finor avuto i dotti: che l’eroismo andò di séguito alla sapienza degli antichi; quando de’ primi tempi, ne’ quali gli uomini erano tutti senso e pensavano nel cuore, la sapienza degli antichi dovette esser effetto dell’eroismo.
[1351] VII. — E finalmente si ha la piú luminosa pruova di ciò che sopra dicemmo: che la maraviglia e ’l disiderio, c’hanno finor avuto i dotti della sapienza degli antichi, furono sensi diritti d’intorno alla provvedenza divina, i quali poscia la loro boria depravò con immaginarla sapienza umana.
[1352] Dal fin qui ragionato facilmente s’intende la terza spezie di ragione, ch’è la ragion naturale della natura umana tutta spiegata, che si dice «aequitas naturalis». Della quale sola è capace la moltitudine ....
Capitolo Terzo
[1353] [952] [CMA3] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione ne dánno la ragione finor nascosta, la quale non han saputo tutti coloro c’hanno adornato la storia delle leggi romane, i quali riconoscono tre spezie di giurisprudenze, cioè antica, mezzana ed ultima, ma non han saputo il perché s’andarono d’una in altra cangiando. Perché non considerarono ch’i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati ....
[1354] [953] .... che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. [CMA3] Lo che fu alto consiglio della provvedenza, con cui secondo le diverse nature degli uomini ha ordinato la successione delle forme politiche. Ché nel tempo della somma fierezza del gener umano .... e l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi pratici di corte e serbata arcana dentro de’ gabinetti.
[1355] Tante cose e sí grandi nascondeva quest’arcano delle leggi che gl’interpetri, non sappiendo, han creduto impostura [CMA4] de’ romani patrizi, [CMA3] e Claudio Clapmario, De arcanis rerumpublicarum, non osservò. Per tutto lo che ragionato, quanto naturalmente erano stati appresi per giusti i rigori della giurisprudenza antica, tanto naturalmente se ne riconobbe appresso l’ingiustizia dalla giurisprudenza mezzana, e molto piú dalla ultima. Che dee esser il vero c’ha dovuto sostenere la volgar tradizione della legge delle XII Tavole venuta da Grecia in Roma: perché nacque in tempi che durava ancora la maniera di parlare per caratteri poetici; e, per tutto il tempo che la giurisprudenza antica usò del rigore nel ministrarla, fu detto essa legge esser venuta da Sparta, repubblica la qual a mille pruove abbiamo dimostrato essere stata di forma aristocratica, qual abbiam truovato essere stata la romana infin alla legge publilia; ma, dappoi che la giurisprudenza mezzana cominciò a temprarne i rigori con la ragion naturale, si disse esser venuta da Atene, repubblica popolare, quale fu la romana dalla legge publilia in poi. E tal oppenione restò, perché questa spezie d’interpetrazione si ricevette e s’accrebbe dalla giurisprudenza ultima sotto gl’imperadori.
SEZIONE DECIMA
Capitolo Primo
[1356] [955] .... e nel secondo per «excipere». [CMA3] Tanto che queste dovetter essere le prime orazioni fatte agli dèi; ond’a’ latini gli avvocati restaron detti «oratores». A’quali anco da tali orazioni ed obsecrazioni, con eleganti differenze, restarono «oro» ed «obsecro» per cose gravissime, «rogo» e «quaeso» per cose leggieri. Tali richiami agli dèi si faccevano dapprima dalle genti ....
[1357] [955*] [CMA3] Sulla qual credenza Boiocalo, valoroso principe degli angrivari ed assai benemerito de’ romani, avendo ad Avito, luogotenente generale dell’esercito romano in Germania, domandato terre, dove esso ed altri germani principi, ch’avevano fatto lui capitano di quella spedizione, potessero vivere co’ loro vassalli, ed avendogliele il romano niegato, se ne richiamò al cielo con quell’apostrofe, che non fu uno sparuto colore di rettorica, ma piena di eroica vivezza: «solem inde respiciens — ci serviamo delle stesse parole di Tacito, perché adeguano la grandezza della storia — et cetera sydera vocans, quasi coram interrogabat: vellentne contueri inane solum? potius mare superinfunderent adversus terrarum ereptores». La qual sublimitá di lingua non nacque altronde che dalla sublimitá del di lui cuore. Perocché, da tal detto commosso, Avito avendogli profferto per lui solo e i di lui vassalli le domandate terre, egli generosamente, «tanquam proditionis precium aspernatus», diede in quella risposta magnanima: «deesse nobis terra, in qua vivamus, potest; in qua moriamur, non potest»; com’esso con tutte quelle nazioni, disperatamente combattendo, morirono. La qual istoria appruova a maraviglia ciò che noi diciamo: che con la barbarie sta la vera grandezza e sublimitá, la quale non è da sperarsi né dalle sottigliezze delle filosofie né dalle pulitezze dell’arti.
[1358] [957*] [CMA3] E qui si faccia una stretta ma pesante raccolta di cose de’ tempi divini della gentilitá. La prima fede fu la forza degli dèi; il primo culto fu la coltivazione de’ campi; le prime are
essi campi arati; le prime contemplazioni quelle degli auspíci; i primi templi le regioni del cielo, le quali disegnavano gli áuguri per contemplarglivi; i primi misteri essi auspíci medesimi, onde i poeti teologi se ne dissero «mystae», che Orazio volta «interpetri degli dèi», i quali si tenevano per sappienti di tal teologia mistica, e tai poeti n’ebbero il titolo di «divini», cioè dotti in divinitá o sia nella scienza della divinazione; le prime cerimonie e le prime solennitá quelle degli atti legittimi; le prime orazioni furono l’accuse o difese; le prime devozioni furono l’esegrazioni de’ rei; i primi voti cotali rei consegrati; i primi sagrifici i supplíci di tali rei; le prime ostie, le prime vittime, cotali rei giustiziati. Dalle quali cose tutte si vede apertamente le prime religioni gentilesche essere state tutte sparse di fierezza e di sangue; e tutto ciò dalla divina provvedenza ordinato, acciocché la generazione degli uomini, nel ferino errore perduti, temprando l’indole immane della fiera natura con ispaventose e crudeli (e per ciò crudeli, perché spaventose) religioni, si riducesse finalmente all’umanitá.Capitolo Terzo
[1359] [966] .... e ’l popolo, a cui si appellò, l’assolvette piú perché il delitto si nascose dentro lo splendore della sua gloria che per alcun merito della causa, come il tutto si può raccogliere da Livio. [CMA3] Il qual diritto eroico durò fin a’ tempi di Giustiniano, che tutti i giudizi, perch’eran tutti ordinari, erano tutti condennatòri, perché la formola di tutti dal pretore si concepiva: «Si paret reum esse, condemna, iudex»; onde, se non appariva il reo, non vi era bisogno di assolversi, perché non vi era stato giudizio, il quale tutto consisteva in essa formola. Oggi, che tutt’i giudizi sono estraordinari, ordinati dalla ragion naturale, sono tutti assolutòri; perché o si truova in fatti reo, e, col condennarsi, si assolve naturalmente dal debito; o non si truova, e si dice assolversi «ab impetitis», si assolve dall’ingiusta o falsa oppenione, perché in tali giudizi regna la natural giustizia e la veritá. Cotali giudizi ordinari bisognarono a’ tempi d’Achille, [SN2] che riponeva tutta la ragion nella forza .... fu in cautelare i clienti. Il qual costume natural delle nazioni diede l’argomento a tutta una commedia di Plauto, intitolata Il persiano, nella quale i testimoni, che vi si adoperano, professan esser uomini dabbene, e sono dal padrone dello schiavo
informati di tutto l’ordine della trappola che esso tende contro il ruffiano; e non sono d’altro soleciti o scrupolosi che di vedere contarsi dallo schiavo al ruffiano il danaio; e ’l ruffiano, di ciò da essi convinto, si fugge da Atene, per non essere condennato d’aver corrotto lo schiavo altrui. [CMA3]Capitolo Quinto
Riprensione del sistema d’Ugone Grozio
ne’ libri «De iure belli et pacis»
[1360] E, per dimostrar ad evidenza, particolarmente contro il Grozio, quanto sia difettuoso e vada errato il suo gran sistema De iure belli et pacis, è da riflettersi che i romani, i quali senza contrasto furono sappientissimi di tal diritto sopra tutte l’altre nazioni del mondo, quelli che Livio dice «sunt quaedam belli et pacis iura» il qual motto diede il primo motivo al Grozio di meditare quell’opera incomparabile, essi sperimentarono prima privatamente con que’ plebei, contro a’ quali udimmo Aristotile nelle Degnitá che gli eroi giuravano d’esser eterni nimici; e quelle leggi, che lor avevano dato in casa, poi fuori nelle guerre diedero alle vinte nazioni. Le leggi furono queste cinque e non piú, quali in quest’opera abbiamo ritruovato:
1. le clientele di Romolo,
2. il censo di Servio Tullio,
3. il «ius nexi mancipique» della legge delle XII Tavole,
4. la legge de’ connubi,
5. e finalmente quella di comunicarsi il consolato alla plebe.
[1361] Perocché riducevano le provincie fiere e feroci a’ giornalieri di Romolo con mandarvi le colonie romane; — regolavano le mansuete col censo di Servio Tullio, o sia col dominio bonitario; — alla splendida e luminosa Italia, ch’era contenta d’essere nel suo seno Roma, capo del mondo, permise il dominio quiritario de’ campi con la mancipazione, o sia tradizione solenne del nodo della legge delle XII Tavole, onde furono detti i fondi «soli italici»; — a’ popoli benemeriti dentro essa Italia comunicarono il connubio e col connubio la cittadinanza, che (siccome i plebei romani, ove si facessero de’ grandi meriti) fussero capaci degli onori e del consolato, quali furon i municipi romani.
[1362] Sopra sí fatte cinque leggi essi andarono stendendo con giustizia le conquiste e ingrandendo con clemenza il romano imperio; che è quello onde doveva con sodezza di princípi trattare queste cose romane il gran Carlo Sigonio con l’immensa minuta erudizione con cui n’ha scritto. Quindi s’intenda quanto il Grozio trattò il diritto della guerra e della pace assai meno della mettá e senza scienza di princípi, contemplando tutto ad un colpo le nazioni entro la societá di tutto il gener umano! Il qual errore nacque da quell’altro: ch’egli ne ragiona non co’ princípi della provvedenza, come n’avevano ragionato i romani giureconsulti; la quale prima addottrinò dentro i popoli privatamente, senza saper nulla l’uno dell’altro, d’intorno a queste leggi, le quali, usciti poi fuori con le guerre, riconobbero giuste cosí i vincitori di darle, come di riceverle i vinti.
SEZIONE UNDECIMA
[CMA3]
Capitolo Secondo
Dimostrazione di fatto istorico contro lo scetticismo
[1363] Or qui sieci lecito di far una digressione, non inutile però alla somma dell’opera, in una dimostrazione di fatto istorico, che pruovi ad evidenza che le sètte de’ filosofi vanno a seconda della corrozione della setta de’ tempi umani, ne’ quali abbiam dimostro nascer esse filosofie, e che le rovinose all’umana societá vengono da impuritá di cuore, ch’appesta le menti d’una sapienza perniziosa al gener umano. Tal dimostrazione di fatto è la storia d’intorno allo scetticismo.
[1364] Imperciocché Socrate, il qual fu detto padre di tutte le scuole de’ filosofi, ne’ tempi ancor costumati della Grecia, professò sapere questa sola cosa: ch’esso non sapeva nulla. Su di che Platone stabilí quel criterio di veritá: ch’è un grande argomento del vero sembrar una cosa la stessa a tutti; della quale non vi ha regola piú sicura nella vita umana, con cui tutte le nazioni accertano l’elezioni, le giudicature, i consigli. Tanto che Socrate e, dopo di lui, Platone aprirono l’Accademia antica sopra questo dogma: doversi vedere nelle cose se si accosti al vero piú questo che quello. S’andarono piú corrompendo i costumi greci, e Carneade in Roma un giorno ragionò esservi giusto in natura, e ’l giorno appresso ragionò che ’l giusto era nell’oppenione degli uomini; ed aprí la scuola dell’Accademia mezzana, che si cominciò a dire scettica, la qual lasciava almeno rattenuti gli uomini sulla dubbiezza d’esser o questo o quello. Appresso, incominciandosi a sfacciare la Grecia, venne Arciselao e portò piú innanzi lo scetticismo, con insegnar e questo e quello, e sí lasciò libertá d’indifferenza agli uomini d’operare qualunque delle due con non poco d’audacia. Ma, quando la Grecia finalmente, perduto ogni rossore, faceva professione d’una sapienza di laidissimi gusti e di furiose dilicatezze, l’Accademia di Socrate degenerò nell’Accademia ultima, detto «pirronismo», da Pirrone, ch’insegnò né questo né quello; onde gli uomini con tutta la sfacciatezza confusero il lecito e l’illecito, l’onesto e ’l disonesto, il giusto e l’ingiusto.
SEZIONE DUODECIMA
Capitolo Secondo
[1365] [985] .... funne fatto strozzare o appiccare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni. Perché ’l testamento di Telemaco, narrato da Omero e riferito da Giustiniano nell’Istituta, fu donazione particolare fatta mortis caussa. Della quale s’intese la necessitá nelle guerre, perch’i beni, ch’erano appo i soldati i quali morivano nelle battaglie, non restassero senza signore; e ne rimase l’eterna propietá: che ’l soldato, che fa testamento in procinto di battagliare, possa morire «pro parte testatus, pro parte intestatus». Onde s’intenda quanto ella è saggia la critica degli eruditi interpetri delle leggi romane, i quali con tanta esattezza fissano nella tavola undecima il capo ....
[1366] [990*] [CMA3] E qui finalmente ci abbiamo riserbato di esaminare quel detto d’Aristotile, il quale ne’ suoi Libri politici udimmo nelle Degnitá dire ch’i regni per successione sieno celebrati da’ barbari e che per elezione si diferirono i regni eroici. Perché Aristotele non visse tanto, che vedesse de’ suoi umanissimi greci i regni di Siria, d’Egitto, di Macedonia ed altri molti, ne’ quali tra’ capitani d’Alessandro Magno si divise la monarchia persiana, essere stati tutti per successione; né poté vedere l’imperio romano nella sua piú splendida umanitá essere stato per cinque imperadori un retaggio della casa di Cesare, come l’appella Galba (appo Tacito), che fu il primo imperadore romano eletto. Ma egli fu ingannato dalla boria de’ dotti, d’estimare gli antichi eroi qual’i filosofi l’hanno finor immaginati, non quali furono per natura, che, come a tante pruove s’è in questi libri dimostrato, fu natura di barbari.
[1367] [992] Ed è degno di due riflessioni. Delle quali una è: su due sconcissimi errori presi da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole: uno che tali successioni ab intestato, con tal’imperi ciclopici, con tali pene crudelissime, quali appresso diremo, fa venir in Roma da Atene ne’ tempi che godeva la piú mansueta libertá popolare; l’altro che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato .... delle cose che sono dette nullius o in quella
de’ beni vacanti. L’altra riflessione, che piú rileva, è che per l’agrarie si fecero dalla plebe delle grandi rivolte, ma per tali contese eroiche non se ne fece pur una, perché quelle guardavan cosa fuori delle persone de’ nobili e che si potevan avere da’ plebei senza i nobili: ma i connubi, i consolati, i sacerdozi eran attaccati alle persone de’ nobili, e i plebei in tanto l’ambivano in quanto gli godessero insieme co’ nobili. Onde le contese, essendo tutte d’onore in pace, portavano i plebei a fare delle grandi imprese in guerra, come sta proposto nelle Degnitá, per appruovar a’ nobili ch’essi eran degni de’ diritti de’ nobili; come Sestio, tribuno della plebe, una volta il rimpruovera a’ nobili. Laonde conobbero, ma di sottil profilo, questa gran veritá, da una parte Macchiavelli, che disse la cagione della romana grandezza essere stata la magnanimitá della plebe, e dall’altra Polibio, che la rifonde tutta nella romana pietá: perocché (noi lor soggiugniamo) i padri dicevano tutti i diritti eroici essere loro propi, perché «sua essent auspicia». I quali scrittori, entrambi da noi cosí spiegati, possono accusar Plutarco d’invidia, che fa della romana grandezza fabra la romana fortuna, ed avvertire Torquato Tasso di non averlo ben còlto nella sua Risposta a Plutarco.[1368] [996*] [CMA2] E Tacito, che vuole anche con esse propietá delle voci dar i suoi avvisi politici, nel principio degli Annali disse «ius tribunorum militum», usando un vocabolo generale di diritto, non lo propio e grave d’«imperio». Come con iscienza pur aveva detto, nel verso sopra, «decemviralis potestas»: perché nel primo anno fu imperio legittimo; nel secondo, fermatovisi a forza Appio con gli altri nove, il decemvirato divenne tirannide (come «dieci tiranni» s’appellano sulla storia), e sí fu una potestá di fatto, non di ragione.
[1369] [997] .... «tribunorum plebis potestas». Lo che dá apertamente a divedere quanto s’intendesse della natura delle cose umane civili Giovan Bodino, che vorrebbe nella sua monarchia francese restituita la patria potestá de’ romani antichi!
Capitolo Terzo
[1370] [999] .... al narrare di Pomponio. [CMA3] Dov’è da farsi questa importante riflessione: che, perciocché la sapienza degli auspíci era stata agli eroi il primo principio di tutte le loro ragioni
eroiche, i plebei furono rattenuti di domandare, senonsé all’ultimo, comunicarsi loro da’ nobili la ragion eroica de’ sacerdozi e de’ ponteficati, che portava di séguito la scienza delle leggi, della quale prima e principal parte era quello che dicevano «ius augurium», di cui s’intendeva la scienza augurale; per la qual parte la giurisprudenza si diffiní «notitia rerum divinarum», dalla quale dipendeva l’altra parte «humanarum»; le quali entrambe ne compiono tutto l’obietto adeguato. Perciò qui noi ragioneremo della custodia delle leggi ....[1371] [1001] .... e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero. Onde Tiberio, di lui successore, poi godeva di veder nella curia da una parte i suoi figliuoli combattere le leggi e dall’altra tutto il senato difenderle, le quali pur eran vinte; e Caligula, mal sopportando le formole delle leggi, che ponevano in suggezione la sua libera sovranitá, diceva a’ giureconsulti quelle parole: «redigam illos ad aequum», che dasse il suono di «eccum», in atto di additare se stesso. E i seguenti principi usarono non per altro il senato che per fare senaticonsulti ....
[1372] [1002] ...., talché Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa; ma non ne sa la ragione: perché è ritornato il diritto natural delle genti, che naturalmente s’osservò a’ tempi di Giustiniano.
[1373] [1003] .... con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole, in conformitá degli Stati che si cangiavano, prima libero e poi monarchico, secondo l’avviso politico che Tacito pur ne dá: che le leggi non si mutino tutte ad un tempo. Onde forse per cotal cagione principalmente ....
SEZIONE DECIMATERZA
Capitolo Primo
[Nella SN2 questo capitolo e i due che seguono costituiscono una lunga introduzione, senza titolo, del libro quinto. Ma giá nelle CMA1 questa introduzione, pur restando al medesimo posto, venne spezzata in due capitoli, i quali, divenuti tre, nelle CMA3 mercé lo sdoppiamento del primo, furono, nella SN3, anticipati al quarto libro].
[1374] [1004] Da sí lunga, numerosa, multiforme, costante e perpetua successione di cose umane .... apertamente e con evidenza si è da noi dimostrato che, per tutta l’intiera vita .... ma di forme seconde mescolate col governo delle prime; il qual mescolamento naturale, quanto è vero in natura, tanto egli non è stato punto osservato da tutti i politici. [CMA3] Questo ha fruttato scrivere di sí fatta scienza sull’idee boriose particolari de’ dotti, e non sopra le comuni delle medesime nazioni, dalla comune natura delle quali, che questa Scienza contempla, naturalmente nascono essi Stati e secondo quella naturalmente si ordinano essi governi civili. Egli è tal mescolamento fondato [SN2] sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini ne’ lor costumi, ritengono per qualche tempo l’impressione del vezzo primiero, e per quella metafisica veritá: che le forme per la lor unitá si sforzano quanto piú possono di discacciar dai loro subbietti tutte le propietá d’altre forme.
Capitolo Secondo
[1375] S’introdusse la legge monarchica con questa natural legge regia, che sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani, e per la quale Bodino si maraviglia dell’effetto, perché non sa la cagione, che tutti gli ordini necessari alla monarchia esso osserva esser uniformi tra gli ebrei, romani, turchi e francesi, e solamente variar nel suono delle voci di quattro lingue diverse. Perché queste quattro nazioni
con un senso uniforme sentirono tali e non altri, tanti né piú né meno, bisognar alla monarchia. Se non vogliamo che la legge regia di Samuello, con la quale Saulle da Dio fu ordinato monarca, con gli stessi viaggi di Pittagora per lo mondo, avesse caminato dagli ebrei a’ romani, da’ romani a’ turchi ed a’ francesi. E i pareggiatori del diritto attico fanno venire la legge delle XII Tavole da Atene in Roma per alquanti pochi costumi civili romani, ch’osservano sopra autori greci essere stati conformi in Atene. Ma della patria potestá, della suitá, agnazione, gentilitá, e quindi delle successioni legittime, de’ testamenti, delle tutele, della mancipazione (con cui si solennizzavano tutti gli atti legittimi, tra’ quali erano i matrimoni e le adozioni, e senza la quale tra’ vivi non s’acquistava dominio civile), delle usucapioni e finalmente delle stipulazioni (con le quali s’avvalorano tutti i patti), nelle quali cose consiste tutto il corpo del diritto romano, siccome negli ordini osservati dal Bodino uniformi tralle quattro anzidette nazioni si contiene tutta la forma del governo monarchico, essi non ne rapportano verun luogo pari da niuno greco scrittore; e ciò che loro fece prender abbaglio, fu il lusso greco de’ funerali, che truovaron vietato dalle leggi romane. Ma vi voleva questa Scienza, che lor dasse la discoverta de’ caratteri poetici, co’ quali parlarono per lunga etá le antiche nazioni, per poter intendere che dovette introdursi in Roma dopo che i romani si erano conosciuti co’ greci, che fu con l’occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella con Pirro; e che nelle XII Tavole si andarono tratto tratto aggiugnendo le leggi che dal CCCIII di Roma si comandarono lunga etá appresso, come noi ne’ Corollari della Logica poetica abbiamo pienamente sopra dimostro.[1376] [1007] Or, ritornando al proposito, diciamo che cotal legge regia naturale, ch’intesero tutte le nazioni, non seppero vedere tutti gl’interpetri delle leggi romane, occupati tutti d’intorno alla favola delle legge regia di Tribuniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano ne’ Digesti. D’intorno alla quale se Tribuniano non avesse favoleggiato, essi non saprebbero render alcuna ragione della monarchia romana che fu fondata da Augusto; [CMA3] siccome Ugon Grozio, per renderne ragione, egli è, quantunque a torto, con vani o falsi o irragionevoli argomenti notato dal Gronovio, che vi scrive le note a compiacenza della libertá olandese, che ’l Grozio in ciò sia adulatore della francese monarchia. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani ....
[1377] [1008] .... la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico; [CMA3] e nelle cose politiche il maggior numero si tiene a luogo di tutti, siccome nelle morali lo «per lo piú» si tien a luogo di «sempre». Lo che Tacito, sappientissimo di diritto natural delle genti ....
Capitolo Terzo
[1378] [1014] .... [CMA3] a celebrar le cittá, ed a cingerle di muraglie. Tanto gli antichissimi monarchi sognati da’ politici, da’ qual’incomincia la sua posizione il Bodino, erano stati lontani dal pensier d’infrenar le cittá col timore delle fortezze! E tanto i fondatori delle cittá essi furono quelli ....
[1379] [1015] .... Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare! Dovrá perciò il Bodino, per mantener il suo detto, ricorrere a’ servi co’ quali Abramo fece guerra co’ re gentili. Ma gli schiavi si fanno in guerra, che, per la sua posizione, hanno ancora da cominciare.
[1380] [1016] .... degli schiavi, che vennero dopo le cittá con le guerre. E contro sua voglia si salvi Gian Bodino, che fa materia delle repubbliche uomini liberi e servi, e si perde in ritruovarne la guisa. Ma Abramo non fece guerre alliato con altri patriarchi, e, se con altri patriarchi avesse fatto le guerre che fece contro gli re gentili, se non vi fosse stato diverso ordinamento dato espressamente da Dio, doveva con quelli dividere le conquiste.
[1381] [1017] .... [CMA3*] E sí gli antichi franchi, che ’l Bodino, francese, non intende, il diedero alla sua Francia. Il qual costume umano usa tuttavia la religione di Malta, la quale distingue le nazioni de’ suoi cavalieri per «lingue».
[1382] [1019] perché gli uccidevano per ordine di essi senati regnanti. [CMA3] Come Bruto dovette liberar Roma dal tiranno Tarquinio, ch’aveva fatto uccider una gran parte del senato; né l’arebbe liberata altrimente se non fusse avvenuto il fatto di Lucrezia, il qual commosse la plebe contro il tiranno. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli ....
SEZIONE DECIMAQUARTA
Capitolo Primo
[1383] [1025] E finalmente come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposar sotto le monarchie. [CMA3] E, se ben si rifletta sulla storia universale, si osserverá che le monarchie non mai si fondarono e stabilirono senonsé dopo lunghe e grandi guerre civili de’ popoli.
[1384] [1026] Tutto il ragionato in questo libro è propio di questa Scienza, prima e principalmente per l’aspetto ch’ella ha di storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini; la quale, come da’ suoi particolari princípi, si avrá tutta spiegata e ferma sulle degnitá [CMA3] lxvi, lxvii, lxviii e particolarmente la lxxx, la xciv, xcv e xcvi, [SN2] dalle quali, come sue sorgive, deesi richiamare. Dipoi, come in conseguenza di tal istoria ideal eterna questa Scienza ha l’aspetto di sistema del diritto natural delle genti, esce, come da semenze le frutte, dalle degnitá [CMA3] cv fin alla cxiv, [SN2] ch’è l’ultima. Sulle quali si rincontrino le cose che qui se ne dicono, e si vedrá dimostrato ch’i romani, i quali con essi umani costumi si fecero condurre dalla divina provvedenza, acconciamente a tal pubblica loro pratica diffinirono nella teorica delle loro leggi, come ogniun sa, «ius naturale gentium divina providentia constitutum». La qual, principalmente con essi romani costumi, l’abbiamo per tutta quest’opera, e particolarmente in questo libro, ragionata. Che Grozio non fece, il qual, per troppo affetto ch’egli ebbe alla veritá, professa il suo sistema reggere anco precisa ogni cognizione di Dio (del qual diritto non può reggere niun sistema, se non comincia dalla cognizione d’un Dio provvedente); — Seldeno la suppone; — Pufendorfio non ne ragiona con gravitá, perché l’incomincia da un’ipotesi epicurea dell’uomo gittato in questo mondo senza niuna cura ed aiuto di Dio; — e per la boria de’ dotti han creduto tutti e tre di
concerto che le genti, perdute nell’error della colpa, osservato avessero coi costumi un diritto naturale comune con gli ebrei, ch’eran illuminati dal vero Dio, ed avesserlo inteso co’ filosofi, che, dopo lungo tempo fondate le nazioni, furono schiariti in parte de’ lumi dell’universal eterna giustizia.Capitolo Secondo
[1385] [1034] .... [CMA3] «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato dapprima «vestir pelli di fiere uccise», com’Ercole vestiva quella del lione. Lo che non era lecito ch’a soli eroi, perch’essi soli, com’abbiam sopra detto, avevano il diritto dell’armi; ond’ancor oggi in Lamagna, nazion eroica, non è ad altri lecita la caccia ch’a soli nobili. E n’è rimasto certamente il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne salvaggine cacciate», detto cosí da Opi, dea della forza, a cui dovevano innanzi consegrare le fiere che bramavano uccidere, nel tempo che credevano ch’ogni cosa facesser gli dèi, come si è appieno sopra dimostrato. Laonde, come dovettero le prime mense opime esser queste dove s’imbandivano tali carni, che facevano tutta la lautezza delle cene eroiche, quali appunto le descrive Virgilio; e poi, passando il pregio da’ cibi a’ pesci, i quali oggi rendono sontuose le tavole de’ grandi, restò «opsonari» per «comperar pesci», come l’avvertono i latini gramatici; — cosí «personari» dovett’essere «vestir pelli di fiere uccise», e ’n conseguenza queste dovetter essere le prime spoglie opime, che riportarano dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come abbiamo sopra ragionato, e poi se ne dissero «spoglie opime» quelle degli re uccisi in guerra da’ romani re o da’ consoli, ch’eran appese in voto a Giove Feretrio nel Campidoglio.
[1386] [1037] Ma, venuti finalmente i tempi umani delle repubbliche popolari .... le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». E della mente de’ popoli legislatori [CMA3] (e sen rida pure il celebratissimo giureconsulto di Arnoldo Vinnio, perch’egli non può intendere questi sublimi e finor seppelliti princípi di legal metafisica) si fece una platonica idea, detta «intellectus iuris», alla qual idea la volontá de’ cittadini si debbe conformare, acciocché ella sia, per dirla
co’ dottori, «investita» e, piú propiamente co’ filosofi, «informata» del diritto. Il qual intelletto è appunto la mente d’eroe scevera di passioni, la quale divinamente Aristotile diffinisce la buona legge; perché in cotal intelletto consiste il gius, che non ha punto di corpolenza, dalla quale vengono alla mente le passioni; e quivi consistono tutti que’ diritti che non hanno corpo, dov’essi si esercitino, quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi [di] corpolenza, e si dicono «in intellectu iuris consistere». Cosí i romani giureconsulti in forza di essa giurisprudenza, i cui princípi richiamavano dalla provvedenza divina, sentirono ciò che Platone in forza d’una sublime metafisica, nella quale dimostra la provvedenza, intese dell’idee eterne: che, perocché i diritti sono modi di sostanza spirituale, perciò son individui, perché la divisibilitá è propia de’ corpi, e, perocché son individui, son quindi eterni, perché la corrozione non è altro che la division delle parti.LIBRO QUINTO
Capitolo Primo
[1387] [1047] Ora, entrando vieppiú nel ricorso delle cose umane, che ’n quest’ultimo libro principalmente proponemmo di ragionare, diciamo che tutti i politici ultimi, abbagliati da’ falsi princípi, che della civil dottrina avevano posti i politici primi (per lo che sopra abbiam preso Giovanni Bodino a confutare, il qual è stato il piú erudito di tutti gli ultimi), non avendo inteso il ricorso che fanno le nazioni, secondo il quale si conducono le forme politiche da noi scoverte per gli princípi di questa Scienza, senza i quali i tempi della barbarie seconda erano giaciuti piú oscuri di quelli della barbarie prima ...., perciò non poteron avvertire che la divina provvedenza, avendo per vie sovraumane schiarita e ferma la veritá della cristiana religione, con la virtú de’ martiri incontro la potenza romana e con la dottrina de’ Padri e con miracoli ’ncontro la vana sapienza greca; [CMA3] e sí avendo fondata e stabilita la cristiana religione con la sapienza e con l’eroica virtú, ma infinitamente superiori a quelle con le quali s’erano fondate e ferme le religioni gentilesche, nelle quali la sapienza fu di fantastici e l’eroismo fu d’orgogliosi; ove nella cristiana fu una sapienza piú sublime di quella degli piú sublimi filosofi, e un eroismo tutto riposto nella mansuetudine ed umiltá dello spirito; ed avendo poi a surgere nazioni armate ....
[1388] [1048] .... vestirono le dalmatiche dei diaconi, [CMA1] le quali ora vestono gli angioli che son i tenenti dell’arma reale di Francia, e delle quali poi restò il costume di vestirsi gli araldi
di guerra che si chiamano gli «re dell’armi»; e consegrarono le loro persone reali ....[1389] [1050] .... Ond’è che i popoli, in que’ tempi, erano diligentissimi in sotterrarle e nasconderle, [CMA3] onde tai luoghi, ch’osserviamo nelle chiese addentrati e profondi, ne restaron detti «succorpi».
[1390] [1056*] [CMA4] Tutte queste osservate cose, con altre sopra ragionate da noi, possono dare la via d’intorno a ciò che la storia barbara del settimo ed ottavo secolo, con maraviglia de’ leggitori, racconta: che gli re concedevano a’ loro capitani intieri cenobi e monasteri, in qualitá di benefíci e di feudi, e che nella Francia, Inghilterra, Germania ed anco Italia ministri de’ re possiedevano de’ cenobi e monasteri, e vi abitavano con le loro mogli e figliuoli, consecravano il capo con la tonsura, che usasi da’ chierici, e s’intitolavano «abati».
Capitolo Secondo
[Questo capitolo nella SN2 formava tutt’una cosa col precedente. Ma giá nelle CMA1 il V. ne faceva un capitolo a parte, col titolo: Discoverta d’intorno alla vera origine de’ feudi; titolo che nelle CMA3 diventò Ricorso che fanno le nazioni sopra la natura eterna de’ feudi, e quindi il ricorso della giurisprudenza romana antica fatto colla dottrina feudale; salvo a esser nuovamente mutato, nelle CMA4, in quello adottato nella SN3].
[1391] [1057] A questi succedettero certi tempi eroici, per una certa distinzione ritornata di nature quasi diverse, eroica ed umana; onde ancor oggi tra noi usano i nobili quella espressione: che essi «nascono bianchi». Da che viene la cagione di quell’effetto di che si maraviglia Ottomano ....
[1392] [1075] .... [CMA3] cosí questi negli ultimi loro tempi perderono di veduta l’antico diritto feudale. Imperciocché diffiniscono l’investitura del feudo con la tradizione; poi ne fanno due spezie, delle quali una chiamano «cerimoniale», e diffiniscono «tradizione del feudo fatta con la consegna dell’anello o della spada o della lancia»; e questa oppinano produrre una spezie di «bonorum possessione» decretale: l’altra spezie d’investitura chiamano «vera», ch’è quando il signore del feudo ne mette nel real possesso il
vassallo. Quindi vedasi che sconcezze! che assurdi! che contorcimenti d’idee! Chiamano «cerimoniale» la prima in senso di «finta», perché l’oppongono all’altra, che chiaman «vera»; la quale dovevano appellare «investitura vera fatta con la tradizione solenne», o sia con la mancipazione, ch’a’ romani era stata la consegna d’un nodo, a questi fu dell’anello (che sopra ad altro proposito dimostrammo esser succeduto in luogo del nodo), o si faceva con la consegna della spada o dell’asta, dalla qual appunto era venuto detto il dominio quiritario a’ romani, e i feudi se ne dissero da’ barbari, con troppo bella corrispondenza, «beni della lancia». E cotal tradizione era del gius, la quale principalmente si considerava dalla giurisprudenza romana antica; e cosí dalla giurisprudenza barbara antica dovette considerarsi. La qual tradizione di gius deve produrre possessione civile, non naturale, che debbia essere soccorsa da alcuna «bonorum possessione»; e cosí questa dovette scrupolosamente osservare le cerimonie di tal tradizione, che perciò «cerimoniale» restò detta, come quella aveva osservato la solennitá della mancipazione, la qual dava la forma a tutti gli atti legittimi. Perché l’una e l’altra civile tradizione nacque ne’ tempi mutoli, ne’ quali con atti diffiniti si dovevano spiegare le volontá determinate di coloro che volevano acquistare, conservare o alienare diritti; e sí in tai tempi tai cerimonie erano tanto necessarie quanto lo è oggi l’accertarsi della volontá, ch’è ’l subbietto di tutti i diritti. Onde cosí dagli antichi romani come da’ primi ricorsi barbari si teneva a luogo d’una dipendenza di fatto la tradizione naturale, che i feudisti dicono «vera», ed era la tradizione d’esso corpo feudale. Perché i feudisti ne parlano ne’ tempi umani, ne’ quali, come i giureconsulti della giurisprudenza ultima, attendono alla sola veritá de’ fatti, non giá alle cerimonie degli atti legittimi. Conduce a ciò che diciamo, che chiamano «cerimoniale» la prima, perché si celebrò ne’ tempi divini ricorsi, ne’ quali i feudi incominciarono dagli ecclesiastici, de’ quali questi furono i primi ecclesiastici benefíci, come sopra si è detto, e i feudisti eruditi latinamente «beneficia» voltano i feudi, de’ quali le piú antiche memorie si ritruovan ne’ canoni.[1393] [1077*] Ritornarono le pene crudeli eroiche, onde lo scudo di Perseo insassiva i riguardanti, come sopra abbiam spiegato, e ne restaron dette «pene ordinarie» le pene di morte.
[1394] [1079] .... [CMA3] Perché nelle cittá eroiche ogni tal ammazzamento era fatto d’un padre o sia d’un nobile, perché di soli
nobili esse si componevano. Il quale stato civile doveva anco durare nel tempo ch’era in osservanza quel capo della legge delle XII Tavole, il qual è «De capite civis romani nisi in maximo comitiatu ius dicere nefas esto»; perché, comunicata poi la cittadinanza romana a’ plebei, arebbero dovuto i romani star sempre in adunanza per conoscere cause d’omicidio. Perciò da Romolo infin a Tullo Ostilio ....[1395] [1081] [CMA3] Finalmente, come dalla sentenza con la qual era stato condennato Orazio, permise al reo il re Tullo l’appellagione al popolo, ch’allora era di soli nobili e tutti i filologi, ingannati da tal voce «popolo», non distinta, credettero ch’avesse appellato alla miserabile ciurma de’ giornalieri di Romolo, e Tullo avesse loro il suo regno assoggettito con appellazione sí fatta. Ed è necessario ch’a tal popolo di nobili la casa Publicola, per un suo famigliare destino che dice Livio, avesse due volte restituita l’appellagione. Perché da un re d’un senato regnante non vi è altro rimedio a’ rei che ’l richiamo a’ medesimi giudicanti; cosí e non altrimenti dovettero praticar i nobili de’ tempi barbari ritornati, nelle loro cause feudali di richiamarsi ad essi re ne’ loro parlamenti, come, per cagion d’esemplo, agli re di Francia, che n’eran capi e da principio, com’abbiam veduto, vi presiedettero.
[1396] [1082] [CMA3] E quest’è l’origine dell’inclito nostro Sagro Real Consiglio napoletano, il quale di sua natura è un’aristocrazia: il presidente vi presiede col titolo di «Real Maestá» .... ma sol è permesso di richiamarsi al Sagro Consiglio medesimo. Le quali cose i dottori municipali, non sappiendo tali propietá uscite dall’aristocrazie eroiche degli antichi, ne hanno fatto somiglianze al prefetto al pretorio sotto la monarchia de’ romani imperadori: quando, nel tempo che s’introdusse questo gran tribunale, non si sapeva chi fosse stato Cesare Augusto, nonché ’l prefetto al pretorio. [SN2] Dalle quali cose d’intorno a’ feudi, qui in parte raccolte e combinate, veda Cuiacio se tal materia de’ feudi è punto vile, com’egli dice; ché ella è tutta eroica e degna di esser adornata della piú colta riposta erudizione antica cosí greca come romana.
[1397] [1084*] Dalla qual forza la dea Opi fu da’ poeti appresa, come si è sopra veduto, per la signora del mondo delle cittá. [CMA4] E cosí può farsi vera la favola della legge regia, con la qual il popolo romano si spogliò del suo sovrano imperio, e n’investí Augusto. Con che può convenire il saggio motto di Tacito, con cui legittima la monarchia romana fondata da Augusto: «qui
rempublicam, bellis civilibus fessam, sub imperium accepit». [SN2] Se cotal legge regia naturale avesse Grozio avvertito, il Gronovio, per lusingare la libertá olandese, non l’arebbe calonniato che fusse adulatore della francese monarchia [CMA3], come sopra si è pur narrato. Ma, lasciando le frivole obbiezioni che gli fa il Gronovio, esso Cuiacio, [CMA1] quando scrisse sopra i feudi, doveva [CMA3] pure [CMA1] porsi in ricerca perché le piú belle espressioni [CMA3] e piú eleganti [CMA1] della piú colta giurisprudenza romana [CMA3] antica, [CMA1] con le quali egli mitiga la barbarie della dottrina feudale, vi riescono cotanto acconce che nulla piú. Ma egli non poté neppur odorare le cagioni dell’acconcezza, perché non [CMA3] poté saper nulla de’ princípi [CMA1] dell’antica giurisprudenza romana eroica. La quale giá si era perduta di vista da essi giureconsulti della giurisprudenza romana [CMA3] ultima, tanto che Giustiniano, come sopra osservammo, ne tiene le leggi a luogo di favole; e i romani certamente [CMA1] non dovettero godere del privilegio, che non poteron aver essi greci, gli piú intelligenti e scorti di tutte le nazioni, i quali fin al tempo del padre di Tucidide nulla seppero affatto delle antichitá loro propie: onde l’uomo d’ingegno severo e grave si diede a scrivere l’istoria della guerra peloponnesiaca, [CMA3] la quale si era fatta a’ suoi tempi.[1398] [1085] [CMA3] E qui faccia tutto il suo uso ciò che si è sopra detto: che quindi intenda Bodino se i feudi [CMA4] soggetti a maggiore sovranitá [CMA3] sono diritto de’ tempi barbari ultimi, che sono di tutti i tempi barbari, da’ quali incomincian le nazioni; intenda Oldendorpio .... il diritto romano è nato dalle scintille de’ feudi; intenda Cuiacio, che, se [CMA1] avesse ritruovato queste origini de’ feudi, non solo non ne arebbe detto essere la [CMA4] dottrina, in questa sua parte, [CMA1] vile, ma arebbe scoverte l’origini del suo grande e magnifico regno di Francia. [CMA4] Il quale, perché piú degli altri stiede fermo sopra i princípi dei feudi, particolarmente con la legge salica, divenne sopra gli altri tutti d’Europa grande e magnifico. Appunto come i romani, perché vi stettero fermi piú dell’altre nazioni del mondo, divennero signori del mondo. Le quali origini del regno di Francia abbiamo noi scoverte in dimostrando [CMA1] i falsi princípi della politica [CMA3] posti dal francese [CMA1] Bodino, il quale superbamente si rideva d’esso Cuiacio. [CMA3] Ch’è finalmente ciò che nell’Idea dell’opera avevamo promesso di dimostrare: dentro la natura de’ feudi ritruovarsi l’origini de’ nuovi reami d’Europa.
Capitolo Terzo
[1399] [1091] .... ha nella lingua un’aria simile alla latina [CMA3*] e perché egli partecipa piú della zona fredda che temperata, come noi abbiam osservato de’ reami d’Europa posti sotto il Settentrione, ritiene molto della natura eroica ....
[1400] [1092] .... perverranno a perfettissime monarchie. [CMA3*] Ed è da osservare come sopra i feudi reggono tutte le nazioni del mondo; ch’in Affrica il gran negus, nell’Europa l’imperador de’ romani, nell’Asia il Gran Turco, nell’Indie orientali l’imperador del Giappone hanno quantitá di sovrani soggetti alla loro maggiore sovranitá. In questa nostra parte del mondo sola, perché coltiva lettere, vi ha di piú un buon numero di repubbliche popolari, ....
[1401] [1095] Finalmente, valicando per l’oceano nel nuovo mondo, gli americani correrebbon ora tal corso di cose umane, se non fossero stati scoperti dagli europei, e los patacones verranno a queste nostre giuste stature ed umani costumi, se gli lasceranno fare il naturale lor corso. Ci vien riferito, perché non l’abbiam veduto, che ’l padre Lafitó, gesuita, missionario nell’America, ha scritto un’opera assai erudita, De’ costumi de’ selvaggi americani, i quali osserva essere quasi gli stessi che gli antichissimi dell’Asia: onde vuol pruovare che dall’Asia fussero uomini e donne trasportate in America. Ma è troppo duro il poterlo persuadere. E forse egli l’avrebbe lavorato con piú veritá, se noi l’avessimo prevenuto con questa Scienza. Perciò il leggitore il rincontri con questi nostri princípi, ch’auguriamo ch’esso gli truoverá, con tal rincontro, felicemente avverati.
CONCHIUSIONE DELL’OPERA
Capitolo Primo
[1402] [1101] .... dovevano portare di séguito un’eloquenza robusta e sappientissima. Siccome la coltura della latina volgar favella in Terenzio, che dicesi aver lavorato le sue commedie secondo gli scorti avvisi di Lelio, il romano Socrate, e di Scipione, in cui Roma riveriva una certa divinitá, si osserva tale e tanta, che ’n tutte l’etadi appresso, anco quella che dicesi secol d’oro della lingua latina, non si legge maggiore.
[1403] [1106] .... gli avevano resi fiere piú immani con la barbarie della riflessione che non è la stessa barbarie del senso. Perché, come ne’ tempi della barbarie del senso, cosí la barbarie della riflessione osserva le parole e non la mente delle leggi e degli ordini, con questo di peggio: che quella credeva tal essere il giusto, dal qual fosse tenuta qual suonavano le parole: questa conosce e sa il giusto, con cui è tenuta, essere ciò ch’intendono gli ordini e le leggi, e si studia di defraudarle con la superstizione delle parole. Perciò uomini maliziosamente riflessivi, con tal ultimo rimedio, ch’adopera la provvedenza ....
[1404] [1109] .... La quale Pufendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno suppose e Grozio ne prescindé. Sono quindi innanzi da cacciarsi dalle scuole della giurisprudenza cosí Epicuro col suo «caso» come col lor «fato» gli stoici, come sopra s’avvisò nelle Degnitá; nella quale gl’interpetri quanto molto eruditi, tanto poco filosofi, per boria d’ingegni hanno a forza intruso le sètte stoica ed epicurea. Perché si è appieno dimostrato che i primi governi del mondo ....
[CMA3]Capitolo Secondo
Pratica della scienza nuova
[1405] Ma tutta quest’Opera è stata finora ragionata come una mera scienza contemplativa d’intorno alla comune natura delle nazioni. Però sembra, per quest’istesso, mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond’ella s’adoperi perché le nazioni, le quali vanno a cadere, o non rovinino affatto o non s’affrettino alla loro roina; e ’n conseguenza mancare nella pratica, qual dee essere di tutte le scienze, che si ravvolgono d’intorno a materie le quali dipendono dall’umano arbitrio, che tutte si chiamano «attive».
[1406] Cotal pratica ne può esser data facilmente da essa contemplazione del corso che fanno le nazioni; dalla qual avvertiti i sappienti delle repubbliche e i loro principi potranno con buoni ordini e leggi ed esempli richiamar i popoli alla loro ἀκμή, o sia stato perfetto. La pratica, la qual ne possiamo dar noi da filosofi, ella si può chiudere dentro dell’accademie. Ed è che ’n questi tempi umani, ne’ quali siam nati, d’ingegni scorti ed intelligenti, dee qui, nel fine, guardarsi a rovescio la figura proposta nel principio; e che l’accademie colle loro sètte de’ filosofi non secondino la corrottella della setta di questi tempi, ma quelli tre princípi sopra i quali si è questa Scienza fondata — cioè: che si dia provvedenza divina; che, perché si possano, si debbano moderare l’umane passioni; e che l’anime nostre sien immortali — e quel criterio di veritá: che si debba riverire il comun giudizio degli uomini, o sia il senso comune del gener umano, del quale Iddio, che non lascia sconoscersi dalle quantunque perdute nazioni, non mai desta loro piú forte riflessione che quando esse son corrottissime. Perché, mentre i popoli sono ben costumati, essi operano le cose oneste e giuste piú che ne parlano, perché l’operano, piú che per riflessione, per sensi: ma, quando sono guasti e corrotti, allora, perché mal soffrono internamente sentirne la mancanza, non parlan d’altro che d’onestá e di giustizia (come naturalmente avviene ch’uomo non d’altro parla che di ciò ch’affetta d’essere e non lo è); e, perché sentono resister loro la religione (la qual non possono naturalmente sconoscere e rinniegare), per consolare le loro perdute coscienze, con essa religione, empiamente pii, consagrano le loro scellerate e nefande
azioni. Onde sono que’ due orrendi umani fenomeni che si leggono sulla storia di Roma corrotta: uno di Messalina, la qual aveva appo il balordo e scimonito Claudio tutto l’agio, licenza e libertá di sfogare l’intiere notti nel chiasso la sua insaziabil libidine, ma, nel tempo stesso ch’era maritata con l’imperadore, vuol godersi Caio Silio con tutta la santitá e celebritá delle nozze; l’altro è di Domizio Nerone, ch’aveva svergognata la maestá dell’imperio romano col far il musico per gli pubblici teatri, e co’ sagrifici ed augúri e tutte l’altre cerimonie divine volle maritarsi nefariamente a Pittagora.[1407] Per tutto ciò i maestri della sapienza insegnino a’ giovani come dal mondo di Dio e delle menti si discenda al mondo della natura, per poi vivere un’onesta e giusta umanitá nel mondo delle nazioni. Ciò vuol dire che l’accademie, con tai princípi e con tal criterio di veritá, addottrinino la gioventú che la natura del mondo civile, ch’è ’l mondo il qual è stato fatto dagli uomini, abbia tal materia e tal forma quali essi uomini hanno; laonde ciascuno di essi due princípi, che ’l compongono, sia della stessa natura ed abbia le stesse propietá c’hanno esso corpo ed essa anima ragionevole, delle quali due parti la prima è la materia e la seconda è la forma dell’uomo.
[1408] Le propietá della materia sono d’esser informe, difettuosa, oscura, poltrona, divisibile, mobile, «altro», come Platon la chiama, o sia sempre da sé diversa; e per tutte questa propietá essa materia ha questa natura d’esser disordine, confusione e cao, ingordo di distruggere tutte le forme. Le propietá della forma sono d’essere perfezione, luminosa, attiva, indivisibile, costante, o sia che, quanto piú può, si sforza di persistere nel suo stato, nel qual’è (che è quello onde Platone suol appellarla «l’istesso»); per le quali propietá la natura della forma dell’uomo è d’essere ordine, lume, vita, armonia e bellezza.
[1409] Quindi la materia (ch’è ’l corpo del mondo delle nazioni), per la propietá d’essere informe, sono gli uomini, che non hanno né propio consiglio né propia virtú; per la propietá d’esser difettuosa, sono gli uomini viziosi, perché tutti i vizi altro non son che difetti; per la propietá dell’oscurezza, sono gli uomini i quali traccurano, nonchè la gloria (ch’è un lume grande e strepitoso), anco la lode (ch’è un lume quieto e picciolo); per la propietá d’essere neghittosa ed infingarda, sono tutti i poltroni, dilicati, molli e dissoluti; per la divisibilitá, sono gli uomini che
non vanno appresso ad altro che alle loro propie particolari utilitá (le quali dividono gli uomini) ed a’ corporali piaceri o sieno gusti de’ sensi (i quali tanti sono quanti son gli uomini); per la mobilitá, sono tutti gli uomini stolti, che sempre si pentono, non mai sono contenti del medesimo, sempre amano ed affettano novitá (che, in una parola, si chiama «volgo», di cui è aggiunto perpetuo quello d’esser «mobile»); per lo disordine e la confusione, sono gli uomini che, per tutte queste propietá della materia, ridurrebbono, quanto è per essi, il mondo delle nazioni al cao de’ poeti teologi (qual è stato da noi truovato essere la confusione de’ semi umani), e ’n conseguenza alla vita bestiale e nefaria, quando questa terra era un’infame selva di bestie.[1410] Per lo contrario, la forma e mente di questo mondo di nazioni, per la propietá d’esser perfezione, sono gli uomini che possono consigliare e difendere sé ed altrui, che son i saggi e i forti; per l’attivitá, sono gli uomini industriosi e diligenti; per la propietá d’esser luminosa, sono gli uomini che s’adornano privatamente di lode, pubblicamente di gloria; per l’indivisibilitá, sono gli uomini i qual in ciascuna loro azione o professione sono tutti occupati con tutte le potenze e con tutta la propietá: il cavaliere nell’arti cavalleresche, il letterato negli studi delle scienze, il politico nelle pratiche della corte, ciascun artegiano nell’arte sua; per la costanza, sono gli uomini seriosi e gravi; per la propietá d’essere «lo stesso», sono gli uomini uniformi, circospetti, convenevoli e decorosi; e ’n fine, per quelle d’essere ordine, bellezza ed armonia, sono gli uomini che, compiendo ciascuno i doveri del suo ordine propio, cospirano all’armonia e bellezza delle repubbliche e, con tutte queste belle virtú civili, si sforzano di conservare gli Stati. Il quale sforzo non potendo essi celebrare per la loro debole corrotta natura, la provvedenza ha posto tali ordini alle cose umane, che loro il promuovano le religioni e le leggi assistite dalla forza dell’armi. La qual forza incominciò tra’ gentili dalla forza di Giove con le religioni, la quale promosse lo sforzo de’ pochi piú robusti giganti a fondare l’umanitá. Alla qual forza i pochi forti sono tratti per natura e, ’n conseguenza, con piacere, perché promuove loro lo sforzo, ch’è connaturale de’ forti; e i molti deboli vi son tenuti dentro a dispetto, perché non dissolvano l’umana societá. Ch’è lo spirito di tutta quest’opera.
[1411] Cosí, con questi princípi di metafisica discesi nella fisica e quindi per la morale innoltrati all’iconomica, o sia nell’educazione
de’ giovani, sien essi guidati alla buona politica e con tal disposizione d’animi passino finalmente alla giurisprudenza (la qual perciò noi nella Scienza nuova prima proponemmo alle universitá dell’Europa doversi trattare con tutto il complesso dell’umana e divina erudizione, e ’n conseguenza ponemmo sopra a tutte le scienze), perché i giovani da erudirsi, cosí disposti, apparino la pratica di questa Scienza, fondata su questa legge eterna, c’ha posto la provvedenza al mondo delle nazioni: ch’allora son salve, fioriscono e son felici, quando il corpo vi serva e la mente vi comandi; e sí mostrar loro il vero bivio di Ercole (il quale tutte le gentili fondò): se vogliamo entrare nella via del piacere con viltá, disprezzo e schiavitú loro e delle loro nazioni, o in quella della virtú con onore, gloria e felicitá.