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Giambattista Vico: Opere
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IV-2: La Scienza Nuova (II) (giusta l'edizione del 1744)
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Principj di Scienza Nuova
LIBRO QUARTO del corso che fanno le nazioni
[SEZIONE DECIMATERZA]

[SEZIONE DECIMATERZA]

[Capitolo Primo]
Altre pruove prese dal temperamento delle repubbliche, fatto degli stati delle seconde coi governi delle primiere.

[1004] Per tutte le cose che in questo libro si sono dette, con evidenza si è dimostrato che, per tutta l’intiera vita onde vivon le nazioni, esse corrono con quest’ordine sopra queste tre spezie di repubbliche, o sia di Stati civili, e non piú: che tutti mettono capo ne’ primi, che furon i divini governi; da’ quali, appo tutte, incominciando (per le degnitá sopra poste come princípi della storia ideal eterna), debbe correre questa serie di cose umane, prima in repubbliche d’ottimati, poi nelle libere popolari e finalmente sotto le monarchie. Onde Tacito, quantunque non le veda con tal ordine, dice (quale nell’Idea dell’opera l’avvisammo) che, oltre a queste tre forme di Stati pubblici, ordinate dalla natura de’ popoli, l’altre di queste tre, mescolate per umano provvedimento, sono piú da disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conseguire, e, se per sorte ve n’hanno, non sono punto durevoli. Ma, per non trallasciare punto di dubbio d’intorno a tal naturale successione di Stati politici o sien civili, secondo questa ritruoverassi le repubbliche mescolarsi naturalmente, non giá di forme (che sarebbero mostri), ma di forme seconde mescolate coi governi delle primiere; il qual

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mescolamento è fondato sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempo l’impressione del loro vezzo primiero.

[1005] Perciò diciamo che, come i primi padri gentili, venuti dalla vita lor bestiale all’umana, eglino, a’ tempi religiosi, nello stato di natura, sotto i divini governi, ritennero molto di fierezza e d’immanitá della lor fresca origine (onde Platone riconosce ne’ polifemi d’Omero i primi padri di famiglia del mondo); cosí, nel formarsi le prime repubbliche aristocratiche, restaron intieri gl’imperi sovrani privati a’ padri delle famiglie, quali gli avevano essi avuto nello stato giá di natura; e, per lo loro sommo orgoglio, non dovendo niuno ceder ad altri, perch’erano tutti uguali, con la forma aristocratica s’assoggettirono all’imperio sovrano pubblico d’essi ordini loro regnanti; onde il dominio alto privato di ciascun padre di famiglia andò a comporre il dominio alto superiore pubblico d’essi senati, siccome delle potestá sovrane private, ch’avevano sopra le loro famiglie, essi composero la potestá sovrana civile de’ loro medesimi ordini. Fuori della qual guisa, è impossibil intendere come altrimente delle famiglie si composero le cittá, le quali, perciò, ne dovettero nascere repubbliche aristocratiche, naturalmente mescolate d’imperi famigliari sovrani.

[1006] Mentre i padri si conservarono cotal autoritá di dominio dentro gli ordini loro regnanti, finché le plebi de’ loro popoli eroici, per leggi di essi padri, riportarono comunicati loro il dominio certo de’ campi, i connubi, gl’imperi, i sacerdozi e, co’ sacerdozi, la scienza ancor delle leggi, le repubbliche durarono aristocratiche. Ma, poi che esse plebi dell’eroiche cittá, divenute numerose ed anco agguerrite (che mettevano paura a’ padri, che nelle repubbliche di pochi debbon essere pochi) ed assistite dalla forza (ch’è la loro moltitudine), cominciarono a comandare leggi senza autoritá de’ senati, si cangiarono le repubbliche, e da aristocratiche divennero popolari: perché non potevano pur un momento vivere ciascuna con due potestá somme legislatrici, senza essere distinte di subbietti, di tempi, di territori, d’intorno a’ quali, ne’ quali e dentro i quali dovessero

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comandare le leggi: come con la legge publilia, perciò, Filone dittatore dichiarò la repubblica romana essersi per natura fatta giá popolare. In tal cangiamento, perché l’autoritá di dominio ritenesse ciò che poteva della cangiata sua forma, ella naturalmente divenne autoritá di tutela (siccome la potestá c’hanno i padri sopra i loro figliuoli impuberi, morti essi, diviene in altri autoritá di tutori); per la quale autoritá, i popoli liberi, signori de’ lor imperi, quasi pupilli regnanti, essendo di debole consiglio pubblico, essi naturalmente si fanno governare, come da’ tutori, da’ lor senati; e sí furono repubbliche libere per natura, governate aristocraticamente. Ma, poi che i potenti delle repubbliche popolari ordinarono tal consiglio pubblico a’ privati interessi della loro potenza, e i popoli liberi, per fini di private utilitá, si fecero da’ potenti sedurre ad assoggettire la loro pubblica libertá all’ambizione di quelli, con dividersi in partiti, sedizioni, guerre civili, in eccidio delle loro medesime nazioni, s’introdusse la forma monarchica.
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[Capitolo Secondo]
D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie

[1007] E tal forma monarchica s’introdusse con questa eterna natural legge regia, la qual sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani. La qual legge non han veduto gl’interpetri della romana ragione, occupati tutti d’intorno alla favola della «legge regia» di Triboniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano nelle Pandette. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani, che seppero bene del diritto naturale delle genti, per ciò che Pomponio, nella brieve storia del diritto romano, ragionando di cotal legge, con quella ben intesa espressione ci lasciò scritto: «rebus ipsis dictantibus, regna condita».

[1008] Cotal legge regia naturale è conceputa con questa formola naturale di eterna utilitá: che, poiché nelle repubbliche libere tutti guardano a’ loro privati interessi, a’ quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio delle loro nazioni, perché si conservin le nazioni, vi surga un solo (come tra’ romani un Augusto), che con la forza dell’armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci a’ soggetti curarsi le loro cose private, e tale e tanta cura abbiano delle pubbliche qual e quanta il monarca lor ne permetta; e cosí si salvino i popoli, ch’anderebbono altrimente a distruggersi. Nella qual veritá convengono i volgari dottori, ove dicono che «universitates sub rege habentur loco privatorum», perché la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico. Lo che Tacito, sappientissimo del diritto natural delle genti, negli Annali, dentro la sola famiglia de’ Cesari l’insegna con quest’ordine d’idee umane civili: avvicinandosi al fine Augusto, «pauci bona libertatis incassum

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disserere»; tosto venuto Tiberio, «omnes principis iussa adspectare»; sotto gli tre Cesari appresso, prima venne «incuria» e finalmente «ignorantia reipublicae tanquam alienae»: onde, essendo i cittadini divenuti quasi stranieri delle loro nazioni, è necessario ch’i monarchi nelle loro persone le reggano e rappresentino. Ora, perché nelle repubbliche libere per portarsi un potente alla monarchia vi deve parteggiare il popolo, perciò le monarchie per natura si governano popolarmente: prima con le leggi, con le quali i monarchi vogliono i soggetti tutti uguagliati; dipoi per quella propietá monarchica, ch’i sovrani, con umiliar i potenti, tengono libera e sicura la moltitudine dalle lor oppressioni; appresso per quell’altra di mantenerla soddisfatta e contenta circa il sustentamento che bisogna alla vita e circa gli usi della libertá naturale; e finalmente co’ privilegi, ch’i monarchi concedono o ad intieri ordini (che si chiamano «privilegi di libertá») o a particolari persone, con promuovere fuori d’ordine uomini di straordinario merito agli onori civili (che sono leggi singolari dettate dalla natural equitá). Onde le monarchie sono le piú conformi all’umana natura della piú spiegata ragione, com’altra volta si è detto.
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[Capitolo Terzo]
Confutazione de’ princípi della dottrina politica
fatta sopra il sistema di Giovanni Bodino

[1009] Dallo che si è fino qui ragionato s’intenda quanto Gian Bodino stabilí con iscienza i princípi della sua dottrina politica, che dispone le forme degli Stati civili con sí fatt’ordine: che prima furono monarchici, dipoi per le tirannie passati in liberi popolari, e finalmente vennero gli aristocratici. Qui basterebbe averlo appien confutato con la natural successione delle forme politiche, spezialmente in questo libro a tante innumerabili pruove dimostrata di fatto. Ma ci piace, ad exuberantiam, confutarlo dagl’impossibili e dagli assurdi di cotal sua posizione.

[1010] Esso, certamente, conviene in quello ch’è vero: che sopra le famiglie si composero le cittá. Altronde, per comun errore, che si è qui sopra ripreso, ha creduto che le famiglie sol fussero di figliuoli. Or il domandiamo: come sopra tali famiglie potevano surger le monarchie?

[1011] Due sono i mezzi: o la forza o la froda.

[1012] Per forza, come un padre di famiglia poteva manomettere gli altri? Perché, se nelle repubbliche libere (che, per esso, vennero dopo le tirannie) i padri di famiglia consagravano sé e le loro famiglie per le loro patrie, che loro conservavano le famiglie (e, per esso, erano quelli giá stati addimesticati alle monarchie), quanto è da stimarsi ch’i padri di famiglia, allor polifemi, nella recente origine della loro ferocissima libertá bestiale, si arebbono tutti con le lor intiere famiglie fatti piú tosto uccidere che sopportar inegualitá?

[1013] Per froda, ella è adoperata da coloro ch’affettano il regno nelle repubbliche libere, con proporre a’ sedutti o libertá o potenza o ricchezze. Se libertá, nello stato delle famiglie i padri erano tutti sovrani. Se potenza, la natura de’ polifemi era di

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starsi tutti soli nelle loro grotte e curare le lor famiglie, e nulla impacciarsi di quelle ch’eran d’altrui, convenevolmente al vezzo della lor origine immane. Se ricchezze, in quella semplicitá e parsimonia de’ primi tempi non s’intendevano affatto.

[1014] Cresce a dismisura la difficultá, perché ne’ tempi barbari primi non vi eran fortezze, e le cittá eroiche, le quali si composero dalle famiglie, furono lungo tempo smurate, come ce n’accertò sopra Tucidide. E, nelle gelosie di Stato, che furono funestissime nell’aristocrazie eroiche che sopra abbiam detto, Valerio Publicola, per aversi fabbricato una casa in alto, venutone in sospetto d’affettata tirannide, affin di giustificarsene, in una notte fecela smantellare, e ’l giorno appresso, chiamata pubblica ragunanza, fece da’ littori gittar i fasci consolari a’ piedi del popolo. E ’l costume delle cittá smurate piú durò ove furono piú feroci le nazioni; talché in Lamagna si legge ch’Arrigo detto l’uccellatore fu il primo che ’ncominciasse a ridurre i popoli, da’ villaggi dove innanzi avevano vivuto dispersi, a celebrar le cittá ed a cingere le cittá di muraglie. Tanto i primi fondatori delle cittá essi furono quelli che con l’aratro vi disegnarono le mura e le porte: ch’i latini etimologi dicono essersi cosí dette a «portando aratro», perché l’avessero portato alto, ove volevano che si aprisser le porte! Quindi, tra per la ferocia de’ tempi barbari e per la poca sicurtá delle regge, nella corte di Spagna in sessant’anni furon uccisi piú di ottanta reali; talché i padri del concilio illiberitano, uno degli piú antichi della Chiesa latina, con gravi scomuniche ne condennarono la tanto frequentata scelleratezza.

[1015] Ma giugne la difficultá all’infinito, poste le famiglie sol di figliuoli. Ché o per forza o per froda debbon i figliuoli essere stati i ministri dell’altrui ambizione, e o tradire o uccidere i propi padri; talché le prime sarebbono state, non giá monarchie, ma empie e scellerate tirannidi. Come i giovani nobili in Roma congiurarono contro i lor propi padri a favore del tiranno Tarquinio, per l’odio ch’avevano al rigor delle leggi, propio delle repubbliche aristocratiche (come le benigne sono delle repubbliche popolari, le clementi de’ regni legittimi, le

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dissolute sotto i tiranni); ed essi giovani congiurati le sperimentarono a costo delle propie lor vite; e, tra quelli, due figliuoli di Bruto, dettando esso padre la severissima pena, furon entrambi decapitati. Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare!

[1016] Per tali e tante difficultá debbe Bodino (e con lui tutti gli altri politici) riconoscere le monarchie famigliari nello stato delle famiglie che si sono qui dimostrate, e riconoscere le famiglie, oltre de’ figliuoli, ancora de’ famoli (da’ quali principalmente si dissero le famiglie), i quali si sono qui truovati che abbozzi furono degli schiavi, i quali vennero dopo le cittá con le guerre. E ’n cotal guisa sono la materia delle repubbliche uomini liberi e servi, i quali il Bodino pone per materia delle repubbliche, ma, per la sua posizione, non posson esserlo.

[1017] Per tale difficultá di poter essere uomini liberi e servi materia delle repubbliche con la sua posizione, si maraviglia esso Bodino che la sua nazione sia stata detta di «franchi», i quali osserva essere stati ne’ loro primi tempi trattati da vilissimi schiavi; perché, per la sua posizione, non poté vedere che sugli sciolti dal nodo della legge petelia si compierono le nazioni. Talché i franchi, de’ quali si maraviglia il Bodino, sono gli stessi che [gli] «homines», de’ quali si maraviglia Ottomano essere stati detti i vassalli rustici, de’ quali, come in questi libri si è dimostrato, si composero le plebi de’ primi popoli, i quali eran d’eroi. Le quali moltitudini, come pure si è dimostrato, trassero l’aristocrazie alla libertá popolare e, finalmente, alle monarchie; e ciò, in forza della lingua volgare, con cui, in ogniuno dei due ultimi Stati, si concepiscon le leggi, come sopra si è ragionato. Onde da’ latini si disse «vernacula» la volgar lingua, perocché venne da questi servi nati in casa, ché tanto «verna» significa, non «fatti in guerra»; quali sopra dimostrammo essere stati per tutte le nazioni antiche fin dallo stato delle famiglie. Il perché i greci non si dissero piú «achivi» (onde da Omero si dicono «filii achivorum» gli eroi), ma si dissero «elleni» da Elleno, che ’ncominciò la lingua greca volgare; appunto come non piú si dissero «filii Israël», come ne’ tempi

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primi, ma restò detto «popolo ebreo», da Eber, che i padri vogliono essere stato il propagator della lingua santa. Tanto Bodino, e tutti gli altri c’hanno scritto di dottrina politica, videro questa luminosissima veritá, la quale per tutta quest’opera, particolarmente con la storia romana, ad evidenza si è dimostrata: che le plebi de’ popoli, sempre ed in tutte le nazioni, han cangiato gli Stati da aristocratici in popolari, da popolari in monarchici, e che, come elleno fondarono le lingue volgari (come sopra appieno si è pruovato nell’Origini delle lingue), cosí hanno dato i nomi alle nazioni, conforme testé si è veduto! E sí gli antichi franchi, de’ quali il Bodino si maraviglia, il diedero alla sua Francia.

[1018] Finalmente gli Stati aristocratici, per la sperienza ch’ora n’abbiamo, sono pochissimi, rimastici da essi tempi della barbarie, che sono Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, perocché gli altri sono Stati popolari governati aristocraticamente. Laonde lo stesso Bodino — che, sulla sua posizione, vuole il regno romano monarchico, e, cacciati indi i tiranni, vuole in Roma introdutta la popolar libertá, — non vedendo ne’ tempi primi di Roma libera riuscirgli gli effetti conformi al disegno de’ suoi princípi (perch’eran propi di repubblica aristocratica), osservammo sopra che, per uscirne onestamente, dice prima che Roma fu popolare di Stato ma di governo aristocratico, ma poi, essendo costretto dalla forza del vero, in altro luogo, con brutta incostanza, confessa essere stata aristocratica, nonché di governo, di Stato.

[1019] Tali errori nella dottrina politica sono nati da quelle tre voci non diffinite, ch’altre volte abbiamo sopra osservato: «popolo», «regno» e «libertá». E si è creduto i primi popoli comporsi di cittadini cosí plebei come nobili, i quali a mille pruove qui si sono truovati essere stati di soli nobili. Si è creduto libertá popolare di Roma antica, cioè libertá del popolo da’ signori, quella che qui si è truovata libertá signorile, cioè libertá de’ signori da’ tiranni Tarquini; onde agli uccisori di tai tiranni s’ergevano le statue, perché gli uccidevano per

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ordine di essi senati regnanti. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli e nella mala sicurtá delle regge, furono aristocratici, quali i due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor di dubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poi furono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chiama «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamento fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professa che ’l regno romano di nulla fu mutato d’intorno alla regal potestá; come l’abbiamo sopra osservato che da questi re annali, durante il loro regno, vi era l’appellagione al popolo, e, quello finito, dovevano render conto del regno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflettemmo che, ne’ tempi eroici, gli re tutto giorno si cacciavano di sedia l’un l’altro, come ci disse Tucidide; co’ quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne’ quali non si legge cosa piú incerta e varia che la fortuna de’ regni. Ponderammo Tacito (che nella propietá ed energia di esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che ’ncomincia gli Annali con questo motto: «Urbem Romam principio reges habuere», ch’è la piú debole spezie di possessione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quando dicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce «urbem», che, propiamente, son gli edifici, per significare una possessione conservata col corpo: non disse «civitatem», ch’è ’l comune de’ cittadini, i quali tutti, o la maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica.
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