[SEZIONE DUODECIMA] Altre pruove tratte dalle propietá dell’aristocrazie eroiche
[Introduzione]
[980] Cosí costante perpetua ordinata successione di cose umane civili, dentro la forte catena di tante e tanto varie cagioni ed effetti che si sono osservati nel corso che fanno le nazioni, debbe strascinare le nostre menti a ricevere la veritá di questi princípi. Ma, per non lasciare verun luogo di dubitarne, aggiugniamo la spiegazione d’altri civili fenomeni, i quali non si possono spiegare che con la discoverta, la qual sopra si è fatta, delle repubbliche eroiche.
[Capitolo Primo]
Della custodia de’ confini
[981] Imperciocché le due eterne massime propietá delle repubbliche aristocratiche sono le due custodie, come sopra si è detto, una de’ confini, l’altra degli ordini.
[982] La custodia de’ confini cominciò ad osservarsi, come si è sopra veduto, con sanguinose religioni sotto i governi divini, perché si avevano da porre i termini a’ campi, che riparassero all’infame comunion delle cose dello stato bestiale; sopra i quali termini avevano a fermarsi i confini prima delle famiglie, poi delle genti o case, appresso de’ popoli e alfin delle nazioni. Onde i giganti, come dice Polifemo ad Ulisse, se ne stavano ciascuno con le loro mogli e figliuole dentro le loro grotte, né s’impacciavano nulla l’uno delle cose dell’altro, servando in ciò il vezzo dell’immane loro recente origine, e fieramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro i confini di ciascheduno, come voleva Polifemo fare d’Ulisse e de’ suoi compagni (nel qual gigante, come piú volte si è detto, Platone ravvisa i padri nello stato delle famiglie); onde sopra dimostrammo esser poi derivato il costume di guardarsi lunga stagione le cittá con l’aspetto di eterne nimiche tra loro. Tanto è soave la divisione de’ campi che narra Ermogeniano giureconsulto, e di buona fede si è ricevuta da tutti gl’interpetri della romana ragione! E da questo primo antichissimo principio di cose umane, donde ne incominciò la materia, sarebbe ragionevole incominciar ancor la dottrina ch’insegna De rerum divisione et acquirendo earum dominio. Tal custodia de’ confini è naturalmente osservata nelle repubbliche aristocratiche, le quali, come avvertono i politici, non sono fatte per le conquiste. Ma, poi che, dissipata affatto l’infame comunion delle cose, furono ben fermi i confini de’ popoli, vennero le repubbliche
popolari, che sono fatte per dilatare gl’imperi, e finalmente le monarchie, che vi vagliono molto piú.[983] Questa e non altra dev’essere la cagione perché la legge delle XII Tavole non conobbe nude possessioni; e l’usucapione ne’ tempi eroici serviva a solennizzare le tradizioni naturali, come i miglior interpetri ne leggono la diffinizione che dica «dominii adiectio», aggiunzione del dominio civile al naturale innanzi acquistato. Ma, nel tempo della libertá popolare, vennero, dopo, i pretori ed assisterono alle nude possessioni con gl’interdetti, e l’usucapione incominciò ad essere «dominii adeptio», modo d’acquistare da principio il dominio civile; e, quando prima le possessioni non comparivano affatto in giudizio, perché ne conosceva estragiudizialmente il pretore, per ciò che se n’è sopra detto, oggi i giudizi piú accertati sono quelli che si dicono «possessòri».
[984] Laonde, nella libertá popolare di Roma in gran parte, ed affatto sotto la monarchia, cadde quella distinzione di dominio bonitario, quiritario, ottimo e finalmente civile, i quali nelle lor origini portavano significazioni diversissime dalle significazioni presenti: il primo, di dominio naturale, che si conservava con la perpetua corporale possessione; — il secondo, di dominio che potevasi vindicare, che correva tra plebei, comunicato loro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, ma ch’a’ plebei dovevano vindicare, laudati in autori, essi nobili, da’ qual’i plebei avevano la cagion del dominio, come pienamente sopra si è dimostrato; — il terzo, di dominio libero d’ogni peso pubblico nonché privato, che celebrarono tra essoloro i patrizi innanzi d’ordinarsi il censo che fu pianta della libertá popolare, come si è sopra detto; — il quarto ed ultimo, di dominio ch’avevan esse cittá, ch’or si dice «eminente». Delle quali differenze, quella d’ottimo e di quiritario da essi tempi della libertá si era di giá oscurata, tanto che non n’ebbero niuna contezza i giureconsulti della giurisprudenza ultima. Ma sotto la monarchia quel che si dice «dominio bonitario» (nato dalla nuda tradizion naturale) e ’l detto «dominio quiritario» (nato dalla mancipazione o tradizion civile) affatto si confusero da
Giustiniano con le costituzioni De nudo iure quiritium tollendo e De usucapione transformanda, e la famosa differenza delle cose mancipi e nec mancipi si tolse affatto; e restarono «dominio civile» in significazione di dominio valevole a produrre revindicazione, e «dominio ottimo» in significazione di dominio non soggetto a veruno peso privato.[Capitolo Secondo]
Della custodia degli ordini
[985] La custodia degli ordini cominciò da’ tempi divini con le gelosie (onde vedemmo sopra esser gelosa Giunone, dea de’ matrimoni solenni), acciocché indi provenisse la certezza delle famiglie incontro la nefaria comunion delle donne. Tal custodia è propietá naturale delle repubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi, le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la potenza, dentro l’ordine de’ nobili; onde tardi vennero nelle nazioni le leggi testamentarie (siccome tra’ Germani antichi narra Tacito che non era alcun testamento): il perché, volendo il re Agide introdurle in Isparta, funne fatto strozzare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni, com’altra volta si è detto. Quindi s’intenda con quanto accorgimento gli adornatori della legge delle XII Tavole fissano nella tavola decimaprima il capo «Auspicia incommunicata plebi sunto», de’ quali dapprima furono dipendenze tutte le ragioni civili cosí pubbliche come private, che si conservavano tutte dentro l’ordine de’ nobili; e le private furono nozze, patria potestá, suitá, agnazioni, gentilitá, successioni legittime, testamenti e tutele, come sopra si è ragionato; — talché, dopo avere, nelle prime tavole, col comunicare tai ragioni tutte alla plebe, stabilite le leggi propie d’una repubblica popolare, particolarmente con la legge testamentaria, dappoi, nella tavola decimaprima, in un sol capo la formano tutta aristocratica. Ma, in tanta confusione di cose, dicono pur questo, quantunque indovinando, di vero: che nelle due ultime tavole passarono in leggi alcune costumanze antiche d’essi romani; il qual detto avvera che lo Stato romano antico fu aristocratico.
[986] Ora, ritornando al proposito, poi che fu fermato dappertutto il gener umano con la solennitá de’ matrimoni, vennero le
repubbliche popolari e, molto piú appresso, le monarchie; nelle quali, per mezzo de’ parentadi con le plebi de’ popoli e delle successioni testamentarie, se ne turbarono gli ordini della nobiltá, e quindi andarono tratto tratto uscendo le ricchezze dalle case nobili. Perché appieno sopra si è dimostrato ch’i plebei romani sin al trecento e nove di Roma, che riportarono da’ patrizi finalmente comunicati i connubi, o sia la ragione di contrarre nozze solenni, essi contrassero matrimoni naturali; né, in quello stato sí miserevole quasi di vilissimi schiavi, come la storia romana pure gli ci racconta, potevano pretendere d’imparentare con essi nobili. Ch’è una delle cose massime, onde dicevamo in quest’opera la prima volta stampata che, se non si dánno questi princípi alla giurisprudenza romana, la romana storia è piú incredibile della favolosa de’ greci, quale finora ci è stata ella narrata. Perché di questa non sapevamo che si avesse voluto dire; ma, della romana, sentiamo nella nostra natura l’ordine de’ disidèri umani esser tutto contrario: che uomini miserabilissimi pretendessero prima nobiltá nella contesa de’ connubi, poi onori con quella che loro comunicassesi il consolato, finalmente ricchezze con l’ultima pretensione che fecero de’ sacerdozi; quando, per eterna comune civil natura, gli uomini prima disiderano ricchezze, dopo di queste onori, e per ultimo nobiltá.[987] Laonde s’ha necessariamente a dire ch’avendo i plebei riportato da’ nobili il dominio certo de’ campi con la legge delle XII Tavole (che noi sopra dimostrammo essere stata la seconda agraria del mondo) ed essendo ancora stranieri (perché tal dominio puossi concedere agli stranieri), con la sperienza furono fatti accorti che non potevano lasciargli ab intestato a’ loro congionti, perché, non contraendo nozze solenni tra essoloro, non avevano suitá, agnazioni, gentilitá; molto meno in testamento, non essendo cittadini. Né è maraviglia, essendo stati uomini di niuna o pochissima intelligenza, come lo ci appruovano le leggi furia, voconia e falcidia, che tutte e tre furono plebisciti; e tante ve n’abbisognarono perché con la legge falcidia si fermasse finalmente la disiderata utilitá ch’i retaggi
non si assorbissero da’ legati. Perciò, con le morti d’essi plebei ch’eran avvenute in tre anni, accortisi che, per tal via, i campi loro assegnati ritornavano a’ nobili, coi connubi pretesero la cittadinanza, come sopra si è ragionato. Ma i gramatici, confusi da tutti i politici, ch’immaginarono Roma essere stata fondata da Romolo sullo stato nel quale ora stanno le cittá, non seppero che le plebi delle cittá eroiche per piú secoli furono tenute per istraniere, e quindi contrassero matrimoni naturali tra loro; e perciò essi non avvertirono ch’era una, quanto in fatti sconcia, tanto nelle parole men latina espressione quella della storia: che «plebei tentarunt connubia patrum», ch’arebbe dovuto dire «cum patribus» (perché le leggi connubiali parlan cosí per esemplo: «patruus non habet cum fratris filia connubium»), come si è sopra detto. Che, se avessero ciò avvertito, avrebbono certamente inteso ch’i plebei non pretesero aver diritto d’imparentare co’ nobili, ma di contrarre nozze solenni, il qual diritto era de’ nobili.[988] Quindi, se si considerano le successioni legittime, ovvero le comandate dalla legge delle XII Tavole: — ch’al padre di famiglia difonto succedessero in primo luogo i suoi, in lor difetto gli agnati e ’n mancanza di questi i gentili, — sembra la legge delle XII Tavole essere stata appunto una legge salica de’ romani; la quale ne’ suoi primi tempi si osservò ancora per la Germania (onde si può congetturare lo stesso per l’altre nazioni prime della ritornata barbarie), e finalmente si ristò nella Francia e, fuori di Francia, nella Savoia. Il qual diritto di successioni Baldo, assai acconciamente al nostro proposito, chiama «ius gentium Gallorum»: alla qual istessa fatta, cotal diritto romano di successioni agnatizie e gentilizie si può con ragion chiamare «ius gentium romanarum», aggiontavi la voce «heroicarum», e, per dirla con piú acconcezza, «romanum»; che sarebbe appunto «ius quiritium romanorum», che noi provammo qui sopra essere stato il diritto naturale comune a tutte le genti eroiche.
[989] Né ciò, come sembra, egli turba punto le cose da noi qui dette d’intorno alla legge salica, in quanto esclude le femmine
dalla successione de’ regni: che Tanaquille, femmina, governò il regno romano. Perché ciò fu detto, con frase eroica, ch’egli fu un re d’animo debole, che si fece regolare dallo scaltrito di Servio Tullio, il qual invase il regno romano col favor della plebe, alla qual aveva portato la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato. Alla qual fatta di Tanaquille, per la stessa maniera di parlar eroico, ricorsa ne’ tempi barbari ritornati, Giovanni papa fu detto femmina (contro la qual favola Lione Allacci scrisse un intiero libro), perché mostrò la gran debolezza di ceder a Fozio, patriarca di Costantinopoli, come ben avvisa il Baronio e, dopo di lui, lo Spondano.[990] Sciolta adunque sí fatta difficultá, diciamo ch’alla stessa maniera che prima si era detto «ius quiritium romanorum», nel significato di «ius naturale gentium heroicarum romanarum», non altrimente sotto gl’imperadori, quando Ulpiano il diffinisce, con peso di parole dice «ius naturale gentium humanarum», che corre nelle repubbliche libere e molto piú sotto le monarchie. E per tutto ciò il titolo dell’Instituta sembra doversi leggere: De iure naturali gentium civili, non solo, con Ermanno Vulteio, togliendo la virgola tralle voci «naturali» «gentium» (supplita, con Ulpiano, la seconda «humanarum»), ma anco la particella «et» innanzi alla voce «civili». Perché i romani dovetter attendere al diritto loro propio, come, dall’etá di Saturno introdutto, l’avevano conservato prima coi costumi e poi con le leggi, siccome Varrone, nella grand’opera Rerum divinarum et humanarum, trattò le cose romane per origini tutte quante natie, nulla mescolandovi di straniere.
[991] Ora, ritornando alle successioni eroiche romane, abbiamo assai molti e troppo forti motivi di dubitare se, ne’ tempi romani antichi, di tutte le donne succedessero le figliuole; perché non abbiamo nessuno motivo di credere ch’i padri eroi n’avessero sentito punto di tenerezza, anzi n’abbiamo ben molti e grandi tutti contrari. Imperciocché la legge delle XII Tavole chiamava un agnato anco in settimo grado ad escludere un figliuolo, che trovavasi emancipato, dalla succession di suo padre. Perché i padri di famiglia avevano un sovrano diritto di vita
e morte, e quindi un dominio dispotico sopra gli acquisti d’essi figliuoli: essi contraevano i parentadi per gli medesimi, per far entrar femmine nelle loro case degne delle lor case (la qual istoria ci è narrata da esso verbo «spondere», ch’è, propiamente, «promettere per altrui», onde vengono detti «sponsalia»); consideravano le adozioni quanto le medesime nozze, perché rinforzassero le cadenti famiglie con eleggere strani allievi che fussero generosi; tenevano l’emancipazioni a luogo di castigo e di pena; non intendevano legittimazioni, perché i concubinati non erano che con affranchite e straniere, con le quali ne’ tempi eroici non si contraevano matrimoni solenni, onde i figliuoli degenerassero dalla nobiltá de’ lor avoli; i loro testamenti per ogni frivola ragione o erano nulli o s’annullavano o si rompevano o non conseguivano il loro effetto, acciocché ricorressero le successioni legittime. Tanto furono naturalmente abbagliati dalla chiarezza de’ loro privati nomi, onde furono per natura infiammati per la gloria del comun nome romano! Tutti costumi propi di repubbliche aristocratiche, quali furono le repubbliche eroiche, le quali tutte sono propietá confaccenti all’eroismo de’ primi popoli.[992] Ed è degno di riflessione questo sconcissimo errore preso da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole, i quali vogliono essersi portata da Atene in Roma: che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato, per tutto il tempo innanzi di portarvi tal legge le successioni testamentarie e legittime, dovettero andare nelle spezie delle cose che sono dette nullius. Ma la provvedenza dispose che, perché ’l mondo non ricadesse nell’infame comunion delle cose, la certezza de’ domíni si conservasse con essa e per essa forma delle repubbliche aristocratiche. Onde tali successioni legittime per tutte le prime nazioni naturalmente si dovettero celebrare innanzi d’intendersi i testamenti, che sono propi delle repubbliche popolari e molto piú delle monarchie, siccome de’ Germani antichi (i quali ci dánno luogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari) apertamente da Tacito ci è narrato; onde testé congetturammo la legge salica, la quale certamente fu celebrata
nella Germania, essere stata osservata universalmente dalle nazioni nel tempo della seconda barbarie.[993] Però i giureconsulti della giurisprudenza ultima, per quel fonte d’innumerabili errori (i quali si sono notati in quest’opera) d’estimare le cose de’ tempi primi non conosciuti da quelle de’ loro tempi ultimi, han creduto che la legge delle XII Tavole avesse chiamate le figliuole di famiglia all’ereditá de’ loro padri, che morti fussero ab intestato, con la parola «suus», su quella massima che ’l genere maschile contenga ancora le donne. Ma la giurisprudenza eroica, della quale tanto in questi libri si è ragionato, prendeva le parole delle leggi nella propissima loro significazione; talché la voce «suus» non significasse altro che ’l figliuol di famiglia. Di che con un’invitta pruova ne convince la formola dell’istituzione de’ postumi, introdutta tanti secoli dopo da Gallo Aquilio, la quale sta cosí conceputa: «Si quis natus natave erit», per dubbio che nella sola voce «natus» la postuma non s’intendesse compresa. Onde, per ignorazione di queste cose, Giustiniano nell’Istituta dice che la legge delle XII Tavole con la voce «adgnatus» avesse chiamati egualmente gli agnati maschi e l’agnate femmine, e che poi la giurisprudenza mezzana avesse irrigidito essa legge, restringendola alle sole sorelle consanguinee; lo che dev’esser avvenuto tutto il contrario, e che prima avesse steso la parola «suus» alle figliuole ancor di famiglia, e dipoi la voce «adgnatus» alle sorelle consanguinee. Ove a caso, ma però bene, tal giurisprudenza vien detta «media», perch’ella da questi casi incominciò a rallentare i rigori della legge delle XII Tavole: la qual venne dopo la giurisprudenza antica, la quale n’aveva custodito con somma scrupolositá le parole, siccome dell’una e dell’altra appieno si è sopra detto.
[994] Ma, essendo passato l’imperio da’ nobili al popolo, perché la plebe pone tutte le sue forze, tutte le sue ricchezze, tutta la sua potenza nella moltitudine de’ figliuoli, s’incominciò a sentire la tenerezza del sangue, ch’innanzi i plebei delle cittá eroiche non avevano dovuto sentire, perché generavano i figliuoli per fargli schiavi de’ nobili, da’ quali erano posti a
generare in tempo ch’i parti provenissero nella stagione di primavera, perché nascessero non solo sani, ma ancor robusti (onde se ne dissero «vernae», come vogliono i latini etimologi, da’ quali, come si è detto sopra, le lingue volgari furono dette «vernaculae»), e le madri dovevano odiargli anzi che no, siccome quelli de’ quali sentivano il solo dolore nel partorirgli e le sole molestie nel lattargli, senza prenderne alcun piacere d’utilitá nella vita. Ma, perché la moltitudine de’ plebei, quanto era stata pericolosa alle repubbliche aristocratiche, che sono e si dicon di pochi, tanto ingrandiva le popolari, e molto piú le monarchiche (onde sono i tanti favori che fanno le leggi imperiali alle donne per gli pericoli e dolori del parto), quindi da’ tempi della popolar libertá cominciaron i pretori a considerare i diritti del sangue ed a riguardarlo con le bonorum possessioni; cominciaron a sanare co’ loro rimedi i vizi o difetti de’ testamenti, perché si divolgassero le ricchezze, le quali sole son ammirate dal volgo.[995] Finalmente, venuti gl’imperadori, a’ quali faceva ombra lo splendore della nobiltá, si dieder a promuovere le ragioni dell’umana natura, comune cosí a’ plebei com’a’ nobili, incominciando da Augusto, il quale applicò a proteggere i fedecommessi (per gli quali, con la puntualitá degli eredi gravati, erano innanzi passati i beni agl’incapaci d’ereditá), e lor assisté tanto, che nella sua vita passarono in necessitá di ragione di costrignere gli eredi a mandargli in effetto. Succedettero tanti senaticonsulti, co’ quali i cognati entrarono nell’ordine degli agnati; finché venne Giustiniano e tolse le differenze de’ legati e de’ fedecommessi, confuse le quarte falcidia e trebellianica, di poco distinse i testamenti da’ codicilli e, ab intestato, adeguò gli agnati e i cognati in tutto e per tutto. E tanto le leggi romane ultime si profusero in favorire l’ultime volontá, che, quando anticamente per ogni leggier motivo si viziavano, oggi si devono sempre interpetrar in maniera che reggano piú tosto che cadano.
[996] Per l’umanitá de’ tempi (ché le repubbliche popolari amano i figliuoli, e le monarchie vogliono i padri occupati nell’amor
de’ figliuoli), essendo giá caduto il diritto ciclopico ch’avevano i padri delle famiglie sopra le persone, perché cadesse anco quello sopra gli acquisti de’ lor figliuoli, gl’imperadori introdussero prima il peculio castrense per invitar i figliuoli alla guerra, poi lo stesero al quasi castrense per invitargli alla milizia palatina, e finalmente, per tener contenti i figliuoli che né eran soldati né letterati, introdussero il peculio avventizio. Tolsero l’effetto della patria potestá all’adozioni, le quali non si contengono ristrette dentro pochi congionti. Appruovarono universalmente le arrogazioni, difficili alquanto ch’i cittadini, di padri di famiglia propia, divengano soggetti nelle famiglie d’altrui. Riputarono l’emancipazioni per benefizi. Diedero alle legittimazioni che dicono «per subsequens matrimonium» tutto il vigore delle nozze solenni. Ma sopra tutto, perché sembrava scemare la loro maestá quell’«imperium paternum», il disposero a chiamarsi «patria potestá»; sul lor esemplo, introdutto con grand’avvedimento da Augusto, che, per non ingelosire il popolo che volessegli togliere punto dell’imperio, si prese il titolo di «potestá tribunizia», o sia di protettore della romana libertá, che ne’ tribuni della plebe era stata una potestá di fatto, perch’essi non ebbero giammai imperio nella repubblica: come ne’ tempi del medesimo Augusto, avendo un tribuno della plebe ordinato a Labeone che comparisse avanti di lui, questo principe d’una delle due sètte de’ romani giureconsulti ragionevolmente ricusò d’ubbidire, perché i tribuni della plebe non avessero imperio. Talché né da’ gramatici né da’ politici né da’ giureconsulti è stato osservato il perché, nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi di comunicarle punto d’imperio, fecero quell’uscita di criare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cum consulari potestate», come sempre legge la storia, non giá «cum imperio consulari», che la storia non legge mai.[997] Onde la repubblica romana libera si concepí tutta con questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus autoritas», «populi imperium», «tribunorum plebis potestas». E queste due voci restarono nelle leggi con tali loro native eleganze: che l’«imperio»
si dice de’ maggiori maestrati, come de’ consoli, de’ pretori, e si stende fino a poter condennare di morte; la «potestá» si dice de’ maestrati minori, come degli edili, e «modica coërcitione continetur».[998] Finalmente, spiegando i romani principi tutta la loro clemenza verso l’umanitá, presero a favorire la schiavitú e raffrenarono la crudeltá de’ signori contro i loro miseri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle solennitá le manomessioni; e la cittadinanza, che prima non si dava ch’a’ grandi stranieri benemeriti del popolo romano, diedero ad ogniuno ch’anco di padre schiavo, purché da madre libera (nonché nata, affranchita) nascesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nelle cittá, il diritto naturale, ch’innanzi dicevasi «delle genti» o delle case nobili (perché ne’ tempi eroici erano state tutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propio cotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennero le repubbliche popolari (nelle quali l’intiere nazioni sono signore degl’imperi) e quindi le monarchie (dove i monarchi rappresentano l’intiere nazioni loro soggette), restò detto «diritto naturale delle nazioni».
[Capitolo Terzo]
Della custodia delle leggi
[999] La custodia degli ordini porta di séguito quella de’ maestrati e de’ sacerdozi, e quindi quella ancor delle leggi e della scienza d’interpetrarle. Ond’è che si legge nella storia romana, a’ tempi ne’ quali era quella repubblica aristocratica, che dentro l’ordine senatorio (ch’allora era tutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sacerdozi, e dentro il collegio de’ pontefici (nel quale non si ammettevano che patrizi), come appo tutte l’altre nazioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che sono lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra’ romani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, al narrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono detti «viri», che tanto in que’ tempi a’ latini significò quanto a’ greci significarono «eroi», e con tal nome s’appellarono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici, come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremo della custodia delle leggi, siccome quella ch’era una massima propietá dell’aristocrazie eroiche; onde fu l’ultima ad essere da’ patrizi comunicata alla plebe.
[1000] Tal custodia scrupolosamente si osservò ne’ tempi divini; talché l’osservanza delle leggi divine se ne chiama «religione», la quale si perpetuò per tutti i governi appresso, ne’ quali le leggi divine si devon osservare con certe innalterabili formole di consagrate parole e di cerimonie solenni. La qual custodia delle leggi è tanto propia delle repubbliche aristocratiche che nulla piú. Perciò Atene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le cittá della Grecia) andò prestamente alla libertá popolare, per quello che gli spartani (ch’erano di repubblica aristocratica) dicevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne scrivevano, e le poche ch’erano in Isparta si osservavano.
[1001] Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto
che da Tacito funne detta «finis omnis aequi iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertá (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sopra dimostra, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis aequi iuris», perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodí comandava delle leggi singolari, perché d’universali ella non è capace. Al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le Quistioni perpetue; ma, rinnunziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politici l’avvertiscono, non vi è via piú spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti principi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertá popolare si custodirono sí severamente le formole dell’azioni, che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene», perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolar d’equitá fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l’equitá naturale. Cosí, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertá popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch’i principi non fann’altro che concedere privilegi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piú conforme alla natural equitá. Anzi tutte l’eccezioni, ch’oggi si dánno alle leggi, si può con veritá dire che sono privilegi dettati dal particolar merito de’ fatti, il quale gli tragge fuori dalla comun disposizion delle leggi.[1002] Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane; tanto che in Francia era con gravi pene punito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiunque nella sua causa n’avesse allegato alcuna. Certamente, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i lor affari con le leggi romane e professavano soggiacere alle longobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de’ lor costumi, praticavano alcuni diritti romani in forza di consuetudini: ch’è la cagione onde il corpo delle leggi di Giustiniano ed altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romano orientale tra’ greci si seppellirono. Ma poi, rinnate le monarchie e rintrodutta la libertá popolare, il diritto romano compreso ne’ libri di Giustiniano è stato ricevuto universalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa.
[1003] Però qui è da ammirare la romana gravitá e sapienza: che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsulti si studiarono a tutto loro potere che di quanto meno e con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principalmente l’imperio romano cotanto s’ingrandí e durò: perché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto potere di star fermo sopra i suoi princípi, che furono gli stessi che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i politici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di durar e d’ingrandire gli Stati. Cosí la cagione, che produsse a’ romani la piú saggia giurisprudenza del mondo (di che sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezza romana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nella religione de’ nobili, al contrario Macchiavello nella magnanimitá della plebe, e Plutarco, invidioso della romana virtú e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libro De fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritte Torquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta.