[SEZIONE DECIMA] Tre spezie di giudizi
[Capitolo Primo]
[Prima spezie: giudizi divini]
[954] Le spezie de’ giudizi furono tre.
[955] La prima di giudizi divini, ne’ quali, nello stato che dicesi «di natura» (che fu quello delle famiglie), non essendo imperi civili di leggi, i padri di famiglia si richiamavano agli dèi de’ torti ch’erano stati lor fatti (che fu, prima e propiamente, «implorare deorum fidem»), chiamavano in testimoni della loro ragion essi dèi (che fu, prima e propiamente, «deos obtestari»). E tali accuse o difese furono, con natia propietá, le prime orazioni del mondo, come restò a’ latini «oratio» per «accusa» o «difesa». Di che vi sono bellissimi luoghi in Plauto e ’n Terenzio, e ne serbò due luoghi d’oro la legge delle XII Tavole, che sono «furto orare» e «pacto orare» (non «adorare», come legge Lipsio), nel primo per «agere» e nel secondo per «excipere». Talché da queste orazioni restaron a’ latini detti «oratores» coloro ch’arringano le cause in giudizio. Tali richiami agli dèi si facevano dapprima dalle genti semplici e rozze, sulla credulitá ch’essi eran uditi dagli dèi, ch’immaginavano starsi sulle cime de’ monti, siccome Omero gli narra su quella del monte Olimpo; e Tacito ne scrive tra gli ermonduri e catti una guerra con tal superstizione: che dagli dèi se non dall’alte cime de’ monti «preces mortalium nusquam propius audiri».
[956] Le ragioni, le quali s’arrecavano in tali divini giudizi, eran essi dèi, siccome ne’ tempi ne’ quali i gentili tutte le cose immaginavano esser dèi: come «Lar» per lo dominio della casa, «dii Hospitales» per la ragion dell’albergo, «dii Penates» per la paterna potestá, «deus Genius» per lo diritto del matrimonio, «deus Terminus» per lo dominio del podere, «dii Manes» per la ragion del sepolcro; di che restò nella legge delle XII Tavole un aureo vestigio: «ius deorum manium».
[957] Dopo tali orazioni (ovvero obsecrazioni, ovvero implorazioni) e dopo tali obtestazioni, venivan all’atto di esegrare essi rei; onde appo i greci, come certamente in Argo, vi furono i templi di essa esegrazione, e tali esegrati si dicevano ἀναθήματα,/ che noi diciamo «scomunicati». E contro loro concepivano i voti (che fu il primo «nuncupare vota», che significa far voti solenni ovvero con formole consagrate) e gli consagravano alle Furie (che furono veramente «diris devoti»), e poi gli uccidevano (ch’era quello degli sciti, lo che sopra osservammo, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravan per dio, e poi uccidevano l’uomo). E i latini tal uccidere dissero col verbo «mactare», che restò vocabolo sagro che si usava ne’ sagrifizi; onde agli spagnuoli restò «matar» ed agl’italiani altresí «ammazzare» per «uccidere». E sopra vedemmo ch’appo i greci restò ἄρα per significar il «corpo che danneggia», il «voto» e la «furia»; ed appo i latini «ara» significò e l’«altare» e la «vittima». Quindi restò appo tutte le nazioni una spezie di scomunica: della quale, tra’ Galli, ne lasciò Cesare un’assai spiegata memoria; e tra’ romani restonne l’interdetto dell’acqua e fuoco, come sopra si è ragionato. Delle quali consagrazioni molte passarono nella legge delle XII Tavole: come «consagrato a Giove» chi aveva violato un tribuno della plebe, «consagrato agli dèi de’ padri» il figliuolo empio, «consagrato a Cerere» chi aveva dato fuoco alle biade altrui, il quale fusse bruciato vivo (si veda crudeltá di pene divine, somigliante all’immanitá, ch’abbiamo nelle Degnitá detto, dell’immanissime streghe!), che debbon essere state quelle sopra da Plauto dette «Saturni hostiae».
[958] Con questi giudizi praticati privatamente, usciron i popoli a far le guerre che si dissero «pura et pia bella»; e si facevano «pro aris et focis», per le cose civili come pubbliche cosí private, col qual aspetto di divine si guardavano tutte le cose umane. Onde le guerre eroiche tutt’erano di religione, perché gli araldi, nell’intimarle, dalle cittá, alle quali le portavano, chiamavan fuori gli dèi e consagravano i nimici agli dèi. Onde gli re trionfati erano da’ romani presentati a Giove Feretrio nel Campidoglio e dappoi s’uccidevano, sull’esemplo de’ violenti empi, ch’erano state le prime ostie, le prime vittime, ch’aveva consagrato Vesta sulle prime are del mondo. E i popoli arresi erano considerati uomini senza dèi, sull’esemplo de’ primi famoli: onde gli schiavi, come cose inanimate, in lingua romana si dissero «mancipia» ed in romana giurisprudenza si tennero «loco rerum».
[Capitolo Secondo]
Corollario
de’ duelli e delle ripresaglie
[959] Talché furon una spezie di giudizi divini, nella barbarie delle nazioni, i duelli, che dovettero nascere sotto il governo antichissimo degli dèi e condursi per lunga etá dentro le repubbliche eroiche. Delle quali riferimmo nelle Degnitá quel luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir i torti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsa oppenione finor avuta dalla boria de’ dotti d’intorno all’eroismo filosofico de’ primi popoli, il quale andasse di séguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si è creduto finora.
[960] Certamente, tra’ romani furono tardi introdutti, e pur dal pretore, cosí l’interdetto «Unde vi» come le azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», come altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie ultima, le ripresaglie private durarono fin a’ tempi di Bartolo, che dovetter essere «condiczioni», o «azioni personali» degli antichi romani, perché «condicere», secondo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre di famiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiustamente tolto ciò ch’era suo, che glielo restituisse, per poi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solennitá dell’azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acutamente fu inteso.
[961] Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché si facevano in re praesenti, non avevano bisogno della dinonzia; onde restarono le vindiciae, le quali, tolte all’ingiusto possessore con una finta forza, che Aulo Gellio chiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza vera, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciae»), si dovevano portare dal giudice, per dire, in quella «gleba» o zolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Quindi coloro che scrivono i duelli
essersi introdutti per difetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difetto di leggi giudiziarie. Perché certamente Frotone, re di Danimarca, comandò che tutte le contese si terminassero per mezzo degli abbattimenti, e sí vietò che si diffinissero con giudizi legittimi. E, per non terminarle con giudizi legittimi, sono di duelli piene le leggi de’ longobardi, salii, inghilesi, borghignoni, normanni, danesi, alemanni. Per lo che Cuiacio ne’ Feudi dice: «Et hoc genere purgationis diu usi sunt christiani tam in civilibus quam in criminalibus caussis, re omni duello commissa». Di che è restato che in Lamagna professano scienza di duello coloro che si dicon «reistri», i quali obbligano quelli c’hanno da duellare a dire la veritá, perocché i duelli, ammessivi i testimoni, e perciò dovendovi intervenire i giudici, passerebbero in giudizi o criminali o civili.[962] Non si è creduto della barbarie prima, perché non ce ne sono giunte memorie, ch’avesse praticato i duelli. Ma non sappiamo intendere come in questa parte sieno stati, nonché umani, sofferenti di torti i polifemi d’Omero, ne’ quali riconosce gli antichissimi padri delle famiglie, nello stato di natura, Platone. Certamente Aristotile ne ha detto nelle Degnitá che nell’antichissime repubbliche, nonché nello stato delle famiglie, che furon innanzi delle cittá, non avevano leggi da emendar i torti e punire l’offese, con le qual’i cittadini s’oltraggiassero privatamente tra loro (e noi l’abbiamo testé dimostro della romana antica); e perciò Aristotile pur ci disse, nelle Degnitá, che tal costume era de’ popoli barbari, perché, come ivi avvertimmo, i popoli per ciò ne’ lor incominciamenti son barbari, perché non son addimesticati ancor con le leggi.
[963] Ma di essi duelli vi hanno due grandi vestigi — uno nella greca storia, un altro nella romana — ch’i popoli dovettero incominciar le guerre (che si dissero dagli antichi latini «duella») dagli abbattimenti di essi particolari offesi, quantunque fussero re, ed essendo entrambi i popoli spettatori, che pubblicamente volevano difendere o vendicare l’offese. Come, certamente, cosí la guerra troiana incomincia dall’abbattimento di Menelao e di Paride (questi ch’aveva, quegli a cui era stata rapita la
moglie Elena), il quale restando indeciso, seguitò poi a farsi tra greci e troiani la guerra; e noi sopra avvertimmo il costume istesso delle nazioni latine nella guerra de’ romani ed albani, che con l’abbattimento degli tre Orazi e degli tre Curiazi (uno de’ quali dovette rapire l’Orazia) si diffiní dello ’n tutto. In sí fatti giudizi armati estimarono la ragione dalla fortuna della vittoria: lo che fu consiglio della provvedenza divina, acciocché, tra genti barbare e di cortissimo raziocinio, che non intendevan ragione, da guerre non si seminassero guerre, e sí avessero idea della giustizia o ingiustizia degli uomini dall’aver essi propizi o pur contrari gli dèi: siccome i gentili schernivano il santo Giobbe dalla regale sua fortuna caduto, perocch’egli avesse contrario Dio. E, ne’ tempi barbari ritornati, perciò alla parte vinta, quantunque giusta, si tagliava barbaramente la destra.[964] Da sí fatto costume, privatamente da’ popoli celebrato, uscí fuori la giustizia esterna, ch’i morali teologi dicono, delle guerre, onde le nazioni riposassero sulla certezza de’ lor imperi. Cosí quelli auspíci, che fondarono gl’imperi paterni monarchici a’ padri nello stato delle famiglie e apparecchiarono e conservarono loro i regni aristocratici nell’eroiche cittá e, comunicati loro, produssero le repubbliche libere alle plebi de’ popoli (come la storia romana apertamente lo ci racconta), finalmente legittimano le conquiste, con la fortuna dell’armi, a’ felici conquistatori. Lo che tutto non può provenire altronde che dal concetto innato della provvedenza c’hanno universalmente le nazioni, alla quale si debbono conformare, ove vedono affliggersi i giusti e prosperarsi gli scellerati, come nell’Idea dell’opera altra volta si è detto.
[Capitolo Terzo]
[Seconda spezie: giudizi ordinari]
[965] I secondi giudizi, per la recente origine da’ giudizi divini, furono tutti ordinari, osservati con una somma scrupolositá di parole, che da’ giudizi, innanzi stati, divini dovette restar detta «religio verborum»; conforme le cose divine universalmente son concepute con formole consagrate, che non si possono d’una letteruccia alterare, onde delle antiche formole dell’azioni si diceva: «qui cadit virgula, caussa cadit». Ch’è ’l diritto naturale delle genti eroiche, osservato naturalmente dalla giurisprudenza romana antica, e fu il «fari» del pretore, ch’era un parlar innalterabile, dal quale furono detti «dies fasti» i giorni ne’ quali rendeva ragion il pretore. La quale, perché i soli eroi ne avevano la comunione nell’eroiche aristocrazie, dev’esser il «fas deorum» de’ tempi ne’ quali, come sopra abbiamo spiegato, gli eroi s’avevano preso il nome di «dèi», donde poi fu detto «Fatum» sopra le cose della natura l’ordine ineluttabile delle cagioni che le produce, perché tale sia il parlare di Dio: onde forse agl’italiani venne detto «ordinare», ed in ispezie in ragionamento di leggi, per «dare comandi che si devono necessariamente eseguire».
[966] Per cotal ordine (che, ’n ragionamento di giudizi, significa «solenne formola d’azione»), ch’aveva dettato la crudele e vil pena contro l’inclito reo d’Orazio, non potevano i duumviri essi stessi assolverlo, quantunque fussesi ritruovato innocente; e ’l popolo, a cui n’appellò, l’assolvette, come Livio il racconta, «magis admiratione virtutis quam iure caussae». E tal ordine di giudizi bisognò ne’ tempi d’Achille, che riponeva tutta la ragion nella forza, per quella propietá de’ potenti che descrive Plauto con la sua solita grazia: «pactum non pactum, non pactum pactum», ove le promesse non vanno a seconda delle lor
orgogliose voglie o non vogliono essi adempiere le promesse. Cosí, perché non prorompessero in piati, risse ed uccisioni, fu consiglio della provvedenza ch’avessero naturalmente tal oppenione del giusto, che tanto e tale fusse loro diritto quanto e quale si fusse spiegato con solenni formole di parole; onde la riputazione della giurisprudenza romana e de’ nostri antichi dottori fu in cautelare i clienti. Il qual diritto naturale delle genti eroiche diede gli argomenti a piú commedie di Plauto: nelle qual’i ruffiani, per inganni orditi loro da’ giovani innamorati delle loro schiave, ne sono ingiustamente fraudati, fatti da quelli innocentemente truovar rei d’una qualche formola delle leggi; e non solamente non isperimentano alcun’azione di dolo, ma altro rimborsa al doloso giovane il prezzo della schiava venduta, altro priega l’altro che si contenti della metá della pena, alla qual era tenuto, di furto non manifesto, altro si fugge dalla cittá per timore d’esser convinto d’aver corrotto lo schiavo altrui. Tanto a’ tempi di Plauto regnava ne’ giudizi l’equitá naturale![967] Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osservato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini credettero osservarsi da essi dèi anco ne’ lor giuramenti. Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch’è de’ giuramenti non sol testimone ma giudice, ch’essa non aveva solecitato Nettunno a muovere la tempesta contro i troiani, perocché ’l fece per mezzo dello dio Sonno; e Giove ne riman soddisfatto. Cosí Mercurio, finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l’inganna, sia Mercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plauto nell’Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch’insegnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo che meno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (il quale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimi principi della romana repubblica, co’ quali si dice Terenzio aver composte le sue commedie; il quale nell’Andria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l’uscio di Simone con le mani di Miside, acciocché, se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare d’averlovi posto esso.
[968] Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch’in Atene, cittá di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euripide, che Cicerone voltò in latino:
Iuravi lingua, mentem iniuratam habui,
gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perché naturalmente portavano oppenione che «uti lingua nuncupassit, ita ius esto», come comandava la legge delle XII Tavole. Tanto l’infelice Agamennone poteva assolversi del suo temerario voto, col quale consagrò ed uccise l’innocente e pia figliuola Ifigenia! Onde s’intenda che, perché sconobbe la provvedenza, perciò Lucrezio al fatto d’Agamennone fa quell’empia acclamazione:
Tantum relligio potuit suadere malorum!
che noi sopra nelle Degnitá proponemmo.
[969] Finalmente inchiovano al nostro proposito questo ragionamento queste due cose di giurisprudenza e d’istoria romana certa: una ch’a’ tempi ultimi Gallo Aquilio introdusse l’azione de dolo; l’altra, che Augusto diede la tavoletta a’ giudici d’assolvere gl’ingannati e sedutti.
[970] A tal costume avvezze in pace, le nazioni poi, nelle guerre essendo vinte, esse, con le leggi delle rese, o furono miserevolmente oppresse o felicemente schernirono l’ira de’ vincitori.
[971] Miserevolmente oppressi furon i cartaginesi, i quali dal Romano avevano ricevuta la pace sotto la legge che sarebbero loro salve la vita, la cittá e le sostanze, intendendo essi la «cittá» per gli «edifici», che da’ latini si dice «urbs». Ma, perché dal Romano si era usata la voce «civitas», che significa «comune di cittadini», quando poi, in esecuzion della legge, comandati di abbandonar la cittá posta al lido del mare e ritirarsi entro terra, ricusando essi ubbidire e di nuovo armandosi alla difesa, furono dal Romano dichiarati rubelli, e, per diritto di guerra eroico, presa Cartagine, barbaramente fu messa a fuoco.
I cartaginesi non s’acquetarono alla legge della pace data lor da’ romani, ch’essi non avevano inteso nel patteggiarla, perch’anzi tempo divenuti erano intelligenti, tra per l’acutezza affricana e per la negoziazione marittima, per la quale si fanno piú scorte le nazioni. Né pertanto i romani quella guerra tennero per ingiusta; perocché, quantunque alcuni stimino aver i romani incominciato a fare le guerre ingiuste da quella di Numanzia, che fu finita da esso Scipione Affricano, però tutti convengono aver loro dato principio da quella, che poi fecero, di Corinto.[972] Ma da’ tempi barbari ritornati si conferma meglio il nostro proposito. Corrado terzo imperadore, avendo dato la legge della resa a Veinsberga, la qual aveva fomentato il suo competitore dell’imperio: — che ne uscissero solamente salve le donne con quanto esse via ne portassero addosso fuora, — quivi le pie donne veinsbergesi si caricarono de’ loro figliuoli, mariti, padri; e, stando alla porta della cittá l’imperadore vittorioso, nell’atto dell’usar la vittoria (che per natura è solita insolentire), non ascoltò punto la collera (ch’è spaventosa ne’ grandi e dev’essere funestissima ove nasca da impedimento che lor si faccia di pervenire o di conservarsi la loro sovranitá), stando a capo dell’esercito, ch’era accinto, con le spade sguainate e le lance in resta, di far strage degli uomini veinsbergesi, se ’l vide e ’l sofferse che salvi gli passassero dinanzi tutti, ch’aveva voluto a fil di spada tutti passare. Tanto il diritto naturale della ragion umana spiegata di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio corse naturalmente per tutti i tempi in tutte le nazioni!
[973] Ciò che si è finor ragionato, e tutto ciò che ragionerassene appresso, esce da quelle diffinizioni che sopra, tralle Degnitá, abbiamo proposto d’intorno al vero ed al certo delle leggi e de’ patti; e che cosí a’ tempi barbari è naturale la ragion stretta osservata nelle parole, ch’è propiamente il «fas gentium», com’a’ tempi umani lo è la ragione benigna, estimata da essa uguale utilitá delle cause, che propiamente «fas naturae» dee dirsi, diritto immutabile dell’umanitá ragionevole, ch’è la vera e propia natura dell’uomo.
[Capitolo Quarto]
[Terza spezie: giudizi umani]
[974] I terzi giudizi sono tutti straordinari, ne’ quali signoreggia la veritá d’essi fatti, a’ quali, secondo i dettami della coscienza, soccorrono ad ogni uopo benignamente le leggi in tutto ciò che domanda essa uguale utilitá delle cause; — tutti aspersi di pudor naturale (ch’è parte dell’intelligenza), e garantiti perciò dalla buona fede (ch’è figliuola dell’umanitá), convenevole all’apertezza delle repubbliche popolari e molto piú alla generositá delle monarchie, ov’i monarchi, in questi giudizi, fan pompa d’esser superiori alle leggi e solamente soggetti alla loro coscienza e a Dio. E da questi giudizi, praticati negli ultimi tempi in pace, sono usciti, in guerra, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ne’ quali avendo osservato molti errori e difetti il padre Niccolò Concina ne ha meditato uno piú conforme alla buona filosofia e piú utile all’umana societá, che, con gloria dell’Italia, tuttavia insegna nell’inclita universitá di Padova, in séguito della metafisica, che primario lettor vi professa.