[SEZIONE NONA] Tre spezie di ragioni
[Capitolo Primo]
[Ragione divina e ragione di stato]
[947] Furono tre le spezie delle ragioni.
[948] La prima, divina, di cui Iddio solamente s’intende, e tanto ne sanno gli uomini quanto è stato loro rivelato: agli ebrei prima e poi a’ cristiani, per interni parlari, alle menti, perché voci d’un Dio tutto mente; ma con parlari esterni, cosí da’ profeti, come da Gesú Cristo agli appostoli, e da questi palesati alla Chiesa; — a’ gentili, per gli auspíci, per gli oracoli ed altri segni corporei creduti divini avvisi, perché creduti venire dagli dèi, ch’essi gentili credevano esser composti di corpo. Talché in Dio, ch’è tutto ragione, la ragion e l’autoritá è una medesima cosa; onde nella buona teologia la divina autoritá tiene lo stesso luogo che di ragione. Ov’è da ammirare la provvedenza, che, ne’ primi tempi che gli uomini del gentilesimo non intendevan ragione (lo che sopra tutto dovett’essere nello stato delle famiglie), permise loro ch’entrassero nell’errore di tener a luogo di ragione l’autoritá degli auspíci e co’ creduti divini consigli di quelli si governassero, per quella eterna propietá: ch’ove gli uomini nelle cose umane non vedon ragione, e molto piú se la vedon contraria, s’acquetano negl’imperscrutabili consigli che si nascondono nell’abisso della provvedenza divina.
[949] La seconda fu la ragion di Stato, detta da’ romani «civilis aequitas», la quale Ulpiano tralle Degnitá sopra ci diffiní da ciò ch’ella non è naturalmente conosciuta da ogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che sappian vedere ciò ch’appartiensi alla conservazione del gener umano. Della quale furono naturalmente sappienti i senati eroici, e sopra tutti fu il romano sappientissimo ne’ tempi della libertá cosí aristocratica, ne’ quali la plebe era affatto esclusa di trattar cose pubbliche, come della popolare, per tutto il tempo che ’l popolo nelle pubbliche faccende si fece regolar dal senato, che fu fin a’ tempi de’ Gracchi.
[Capitolo Secondo]
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della sapienza di stato degli antichi romani
[950] Quindi nasce un problema, che sembra assai difficile a solversi: come ne’ tempi rozzi di Roma fussero stati sappientissimi di Stato i romani, e ne’ loro tempi illuminati dice Ulpiano ch’«oggi di Stato s’intendono soli e pochi pratici di governo»? — Perché, per quelle stesse naturali cagioni che produssero l’eroismo de’ primi popoli, gli antichi romani, che furono gli eroi del mondo, essi naturalmente guardavano la civil equitá, la qual era scrupolosissima delle parole con le quali parlavan le leggi; e, con osservarne superstiziosamente le lor parole, facevano camminare le leggi diritto per tutti i fatti, anco dov’esse leggi riuscissero severe, dure, crudeli (per ciò che se n’è detto piú sopra), com’oggi suol praticare la ragione di Stato; e sí la civil equitá naturalmente sottometteva tutto a quella legge, regina di tutte l’altre, conceputa da Cicerone con gravitá eguale alla materia: «Suprema lex populi salus esto». Perché ne’ tempi eroici, ne’ quali gli Stati furono aristocratici, come si è appieno sopra pruovato, gli eroi avevano privatamente ciascuno gran parte della pubblica utilitá, ch’erano le monarchie famigliari conservate lor dalla patria, e, per tal grande particolar interesse, conservato loro dalla repubblica, naturalmente posponevano i privati interessi minori; onde naturalmente, e magnanimi, difendevano il ben pubblico, ch’è quello dello Stato, e saggi, consigliavano d’intorno allo Stato. Lo che fu alto consiglio della provvedenza divina, perché i padri polifemi dalla loro vita selvaggia (come con Omero e Platone si sono sopra osservati), senza un tale e tanto lor privato interesse medesimato col pubblico, non si potevano altrimente indurre a celebrare la civiltá, com’altra volta sopra si è riflettuto.
[951] Al contrario, ne’ tempi umani, ne’ quali gli Stati provengono o liberi popolari o monarchici, perché i cittadini ne’ primi comandano il ben pubblico, che si ripartisce loro in minutissime parti quanti son essi cittadini, che fanno il popolo che vi comanda, e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del pubblico al sovrano principe; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni, le quali produssero tali forme di Stati, che sono tutte contrarie a quelle che produtto avevano l’eroismo, le quali sopra dimostrammo esser affetto d’agi, tenerezza di figliuoli, amor di donne e disiderio di vita: per tutto ciò, son oggi gli uomini naturalmente portati ad attendere all’ultime circostanze de’ fatti, le quali agguaglino le loro private utilitá. Ch’è l’«aequum bonum», considerato dalla terza spezie di ragione (che qui era da ragionarsi), la quale si dice «ragion naturale», e da’ giureconsulti «aequitas naturalis» vien appellata. Della quale sola è capace la moltitudine, perché questa considera gli ultimi a sé appartenenti motivi del giusto, che meritano le cause nell’individuali loro spezie de’ fatti. E nelle monarchie bisognano pochi sappienti di Stato per consigliare con equitá civile le pubbliche emergenze ne’ gabinetti, e moltissimi giureconsulti di giurisprudenza privata, che professa equitá naturale, per ministrare giustizia a’ popoli.
[Capitolo Terzo]
Corollario
istoria fondamentale del diritto romano
[952] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione posson esser i fondamenti che stabiliscono la storia del diritto romano. Perché i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati, come se n’è proposta sopra una degnitá; — perché dalla natura degli uomini governati escon essi governi, come per questi Princípi sopra si è dimostrato; — e ché le leggi perciò debbon essere ministrate in conformitá de’ governi e, per tal cagione, dalla forma de’ governi si debbono interpetrare (lo che non sembra aver fatto niuno di tutti i giureconsulti ed interpetri, prendendo lo stesso errore ch’avevano innanzi preso gli storici delle cose romane, i quali narrano le leggi comandate in vari tempi in quella repubblica, ma non avvertono a’ rapporti che dovevano le leggi aver con gli stati per gli quali quella repubblica procedé; ond’escono i fatti tanto nudi delle loro propie cagioni le quali naturalmente l’avevano dovuto produrre, che Giovanni Bodino, egualmente eruditissimo giureconsulto e politico, le cose fatte dagli antichi romani nella libertá, che falsamente gli storici narrano popolare, argomenta essere stati effetti di repubblica aristocratica, conforme in questi libri di fatto si è ritruovata): — per tutto ciò, se tutti gli adornatori della storia del diritto romano son domandati: — Perché la giurisprudenza antica usò tanti rigori d’intorno alla legge delle XII Tavole? perché la mezzana, con gli editti de’ pretori, cominciò ad usare benignitá di ragione, ma con rispetto però d’essa legge? perché la giurisprudenza nuova, senz’alcun velo o riguardo di essa legge, prese generosamente a professare l’equitá naturale? — essi, per renderne una qualche ragione, dánno in quella grave offesa alla romana generositá,
con cui dicono ch’i rigori, le solennitá, gli scrupoli, le sottigliezze delle parole e finalmente il segreto delle medesime leggi furon imposture de’ nobili, per aver essi le leggi in mano, che fanno una gran parte della potenza nelle cittá.[953] Ma tanto sí fatte pratiche furono da ogn’impostura lontane, che furono costumi usciti dalle lor istesse nature, le quali, con tali costumi, produssero tali Stati, che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. Perché, nel tempo della somma fierezza del loro primo gener umano, essendo la religione l’unico potente mezzo d’addimesticarla, la provvedenza, come si è veduto sopra, dispose che vivessero gli uomini sotto governi divini e dappertutto regnassero leggi sagre, ch’è tanto dire quanto arcane e segrete al volgo de’ popoli; le quali, nello stato delle famiglie, tanto lo erano state naturalmente, che si custodivano con lingue mutole, le quali si spiegavano con consagrate solennitá (che poi restarono negli atti legittimi), le quali tanto da quelle menti balorde erano credute abbisognate per accertarsi uno della volontá efficace dell’altro d’intorno a comunicare l’utilitá, quanto ora, in questa naturale intelligenza delle nostre, basta accertarsene con semplici parole ed anche con nudi cenni. Dipoi succedettero i governi umani di Stati civili aristocratici, e, per natura perseverando a celebrarsi i costumi religiosi, con essa religione seguitarono a custodirsi le leggi arcane o segrete (il qual arcano è l’anima con cui vivono le repubbliche aristocratiche), e con tal religione si osservarono severamente le leggi; ch’è ’l rigore della civil equitá, la quale principalmente conserva l’aristocrazie. Appresso, avendo a venire le repubbliche popolari, che naturalmente son aperte, generose e magnanime (dovendovi comandare la moltitudine, ch’abbiam dimostro naturalmente intendersi dell’equitá naturale), vennero con gli stessi passi le lingue e le lettere che si dicon «volgari» (delle quali, come sopra dicemmo, è signora la moltitudine), e con quelle comandarono e scrisser le leggi, e naturalmente se n’andò a pubblicar il segreto: ch’è ’l «ius latens», che Pomponio narra non avere sofferto piú la plebe romana, onde volle le leggi descritte in tavole, poich’eran venute le
lettere volgari da’ greci in Roma, come si è sopra detto. Tal ordine di cose umane civili finalmente si truovò apparecchiato per gli Stati monarchici, ne’ qual’i monarchi vogliono ministrate le leggi secondo l’equitá naturale e, ’n conseguenza, conforme l’intende la moltitudine, e perciò adeguino in ragione i potenti co’ deboli: lo che fa unicamente la monarchia. E l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi sappienti di ragion pubblica e, con la sua eterna propietá, è serbata arcana dentro de’ gabinetti.