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Giambattista Vico: Opere
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VIII: Versi D - Occasione e Scritti di Scuola
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Versi D—Occasione

3 ―

II
1.
A Sebastiano Biancardi

In occasione della morte di Fulvio Caracciolo, consigliere del Sacro Real Consiglio e padre adottivo del Biancardi, ricorda un proprio amore sfortunato

(tra il 1692 e il 1701)

Blancardi, mihi amore singulari
iunctus, qui lepido facis canore
vitam vivere mortuos perennem,
istaec mi, praecor, o venuste amice,
solvas officio pio et fideli.
Nam aeger differor et gravi dolore
infelix crucior, fere misellus
mox ad pallidulas iturus umbras.
Sic, heu! me miserum perire et uri
gaudet Lesbia quam nimis superba.

4 ―

III
In morte del maresciallo Antonio Carafa
(aprile‐maggio 1693)

O del petto dell’uom vane e fallaci
speranze e cure, che fra vie sovente
son da’ fati interrotte! Ecco, oimè lasso!
del capitán ch’a la divota gente
facea difese incontra i fieri traci,
poco cener chiudendo in picciol sasso,
quella che sempre mena dritto ’l passo,
in sua ragion sí rea, sí trista in volto,
qual dinanzi ’l pensier or veder parmi.
Del mestiero de l’armi

5 ―
l’onor piú grande, il piú bel pregio ha tolto:
ond’oscurato ’l ciel da l’alta parte,
coi venti, a’ quai l’annoso pin s’atterra,
nevò qua giuso d’ognintorno; e donde
s’abbassa, svegliand’ire in mezo l’onde,
pianse con tuoni e piogge il nostro Marte,
e de l’acque la mente di sotterra
col gran tridente a tal scosse la terra,
che del mondo parea lo spirto stanco,
che ’l desta e nutre, omai venisse manco.

Ben è ragion che ’l colpo aspro, mortale,
ch’ogni piú bel sperar n’ha ’n cor trafitto,
pianga Occidente, e ’l di lui capo Roma.
Quando udirem piú l’Ottoman sconfitto?
Quando vedrem che stenda le grand’ale
l’augello imperïal su l’Asia doma?
Chi fia, d’eterno allòr cinto la chioma,
chi a la gran tomba? Ma gli chiari acquisti
troppo dasezzo, lasso me! sospiro,
quando temer giá miro
le perdite i cristian paurosi e tristi.
Tra le sue glorie e i nostri pianti amari
che far degg’io? chi mi consiglia e come?
Anzi qual, non che ’l mio pur troppo umíle
e da duol rotto, alto e spedito stile
unqua giunger potrá suoi pregi rari?
Ma del dolor sotto le gravi some
non mi curo incontrar, purché ’l suo nome
per me laudando in rime non si taccia,
de l’arte pria che del dever la taccia.

D’armi gran padre, almo Sebeto mio,
torbido l’onde sí per fama chiare,
e senza onor le dolci rive amene,
ti stai raccolto infra tue doglie amare,
né acquisti fé col pianto al dolor rio.
Ma piú ch’al Tebro e a l’Istro a te s’attiene,

6 ―
largate omai del lagrimar le vene,
l’onor di nostra patria, anzi del mondo,
pianger per sempre a piè de la sua santa,
regale, immortal pianta,
che da diviso suol nel tuo fecondo
traspiantò ’l Fato, e la vertute antica
alto senno e valor v’innestò poi:
ed indi, ’n vece di terrestri umori,
fatica l’enaffiò co’ suoi sudori,
cui fecondando alfin con aura amica
alta fortuna, fruttò poscia a noi
tanti e sí chiari, illustri, invitti eroi;
tra’ quali ultimo, è vero, a le memorie
Antonio sí, ma ben primo a le glorie.

Quante grazie deggiamo a quel Destino,
che di quagiú tempra le cose e regge,
e i secoli e l’etá tiene ’n sua forza,
ch’al maggior uopo de la nostra legge,
quand’era spento ’l gran nome latino,
dal ciel, che ’nforma in noi valor e forza,
a prendere mandò terrena scorza
de la piú chiara stella il maggior lume.
Or chi fia, di lui senza, il gran periglio
membrando, non dal ciglio
versi di pianto amaramente un fiume?
e dica a voi, che di gramigna il crine
poveramente ornando, e ’l valor vostro
pel giogo tolto a la cittá, che ’l pose
poi senza meta a l’universe cose,
vostre bell’opre féste senza fine
degne di marmi e d’opere d’inchiostro:
s’unqua fossivo nati al secol nostro,
nascer giamai non potevate in vero
a destino piú grande e piú guerriero?

Ma perché ad ismarrir la dritta via
uopo non v’ha di luminoso raggio,

7 ―
e l’andar giuso agevole si mostra,
spediti al mal oprar facciam vïaggio
solo col tener dietro a l’ombra ria,
che ’n guardia tien l’umida prigion nostra.
Qual chiaro eroe, da la stellata chiostra
di bel nuovo disceso, indrizzò mai
il miglior vostro al poggio faticoso,
u’ siedi or glorioso,
o bel segno di tutti i nostri lai?
Ché, fin d’allor ch’un braccio era tua sede,
il tuo vagir sol potea far sereno
o suon di tromba o di destrier nitrito,
e ad elmi e scudi, da le fasce uscito,
accomandavi ’l teneretto piede.
Di tai cure indi avesti ’l petto pieno:
trattar la spada o maneggiar il freno;
giovane poi, con atterrar le belve,
adattarti a pugnar entro le selve.

Alma cittá, cui da lo ciel fu dato
senza mete lo ’mpero, onde col sole
stendesti ’l braccio in queste parti e ’n quelle,
l’ombra or di cui e le reliquie sole
destar sanno valor di mezo il prato
in chi le mira: le vertú piú belle,
che ’n tanti duci, anzi ’n cotante stelle,
ch’ornâro ’l ciel de le tue glorie, e ’n tanti
tuoi chiari essempi di valor piú raro
sparte si ritrovâro,
quel che ’l petto or ne fa bagnar di pianti,
tutte leggendo, ne ’nformò se solo.
Talché colei, che del fral senso i danni
ristora in noi, de l’uom propia maestra,
che spesso avanza ogni piú forte destra,
cosí lo strusse a glorïoso volo,
ch’i suoi spirti guerrier spiegando i vanni
ispediti assai piú de’ suoi fresc’anni,

8 ―
tra Fortuna e Vertú nacquer contese,
chi piú giovasse alle sue chiare imprese.

E tu, gran donna, che gli umani petti,
ove t’aggrada piú, dietro ti meni
con lacci d’òr a le tue labra avvinti,
che dèsti duol ne’ placidi e sereni,
e in questi poi svegli contrari affetti,
quanti ’n tua scorta, ancorché lo cor cinti
di duro smalto, fûro in pace vinti
dal duce mio? Ma tra’ suoi tanti pregi
abbia la doglia mia pur tanto loco,
quanto sospiri un poco;
ed altri, che di lei tal s’orni e fregi,
c’abbia sua vera imago in bocca espressa,
ond’infra Atene e Arpin vadasi chiara
la patria nostra, e’ sol potrá ridire
quanto al Polacco quei seppe mai dire,
che ’l mosse a liberar Vienna oppressa:
qual, mentre aita a noi cotanto cara
n’attende, il vede, o vista a’ traci amara!
con Giovanni venir de l’oste a fronte,
e un mar d’arme a vendicarci l’onte.

Or chi m’apre dal duolo il chiuso ingegno,
sí ch’agguagli ’l pensier la grand’impresa,
alto subietto a chi di Muse ha cura?
Santa Vertú, di cui quell’alma accesa
oprò l’atto d’eterna gloria degno,
vagliami tua ragion, talché sicura
d’oblio sen vada ad ogni etá futura.
Non vide ’l sol, da che ’l Fattor sovrano
da prima il mosse de la terra intorno,
fuor di quel chiaro giorno
piú saggio di consiglio e pro’ di mano.
Tanto per Cristo di pugnare ha sete,
che non posa pensier, spirto non langue
in petto, in braccio; talché nulla luce

9 ―
scernerlo può se sia soldato o duce:
finché colse a la fé le palme liete
sul campo dove restò l’Asia essangue;
e pur (tant’era pio!) da poco sangue
d’alcun de’ suoi, che morto in guerra giacque,
la vittoria macchiata a lui dispiacque.

Ma piú gli omei non può chiudere il seno;
oimè, ch’è morto il duce, a la cui morte
pietá, senno, valor morîro uniti!
Degna d’amari pianti ahi nostra sorte!
da non venir a’ pensier nostri meno.
Chi fia, lasso! chi fia che piú n’additi
a le vittorie i bei sentier smarriti,
se di nostr’arme il lume oggi è mest’ombra?
Oimè lasso! oimè tristo! oimè dolente!
Ma nostra cieca mente,
che di bassi pensier sempre ne ’ngombra
il senso fral, né sa levarsi al cielo!
O del divino Amor cura e diletto,
anima grande, omai da quella spera,
ch’al tuo ritorno si fe’ piú sincera,
pon’mente al nostro addolorato zelo:
e se portasti ’n ciel teco l’affetto,
onde quaggiuso avesti caldo il petto,
tu l’Austria scorgi incontra i fier nemici
ad imprese piú grandi e piú felici.

Canzon, per far a le sacr’ossa onore,
a la tomba che chiude ’l cener santo,
vanne carca di pianto;
e ’n nome del tuo lasso, egro signore
pria te ’nchina, e poi dille, s’e’ pur lece:
un cor umíl, d’immortai fior invece,
de’ quai lo ’mpoverîro i suoi martíri,
per me vi sparge intorno alti sospiri.

10 ―

IV
A Massimiliano Emanuele Elettore
di Baviera
Panegirico in tre canzoni
(prima del giugno 1694)
1.

Qual novo lume col divin suo raggio
d’almo splendor la mente orna e rischiara,
e di gran cose i miei pensier informa?
Onde mi viene omai luce sí chiara,
che m’apre ad alta impresa il gran vïaggio,
a cui muover da me non posso un’orma?
Chi mai con luminosa altèra norma,
l’ombre scuotendo a lo mio ingegno intorno,
me ’ndrizza ad opre un dí forse pregiate?
Lume di nostra etate,
che d’ogni alta virtú riluci adorno,
signor, che reggi di Baviera il freno,
le meraviglie ch’io provando ammiro,
sono del valor vostro effetti usati,
tal ch’i pregi in altrui via piú lodati
le minor laudi vostre avven che sieno:
se quell’ampio splendor, che ’n me rimiro,
breve barlume è sol che diffondete
di quella luce onde sí ricco sète.

Che dunque dietro a voi mie lodi alzassi,
ardir non è; poich’egli osar non vòle,
né può cotanto, e né, potendo, il deve:
ma son quasi cristallo opposto al sole,
ove si rompa il raggio, e non trapassi,
che la rimanda il lume onde ’l riceve.

11 ―
Fugga or da me cura noiosa e greve,
che ’l veglio che giamai non stanca l’ale
mio nome alfin d’oscuro oblio non copra;
se m’avvalora all’opra
chi puote in sua virtú farmi immortale;
ché son di tanta gloria e d’onor degni
fuor d’uman corso i minor pregi suoi,
che di lor chi può mai ritrarre ’n carte
alle future etá picciola parte,
fa piú di quel ch’i piú spediti ingegni
fêro lodando i piú nomati eroi.
Or di quest’alta speme il bel pensiero
a ragionar di voi mi mena altèro.

Ma di tante virtú di quant’io posso
col debil sguardo sostener la luce,
quai fien mezze a narrar a quai fien prime?
Tal dubbio in forse ogni consiglio adduce,
e la copia del dir, la qual m’adosso,
sul bel principio fa mancar mie rime.
Or qual convien che de la fin s’estime?
Pur seguendo ’l desio che mi fa strada,
vo’ con lo stile a mio poder alzarmi.
Prima gloria de l’armi,
onoro in voi quella temuta spada,
a’ cui lati si stan senno e valore,
ov’è la maestá nell’else assisa,
e da la punta sua dipende il fato.
Quella spada onor’io, a cui vien dato
dalla terra e dal ciel ogn’alto onore
sovra qualunque piú onorata guisa,
salvo ciò sol che di lei non rimbomba
di Smirna e Manto assai piú chiara tromba.

E ben eran omai di nobil carme
infin d’allor le vostre geste degne,
che sotto ’l grave acciaio il capel biondo
primier premeste intra le chiare insegne

12 ―
di quel gran padre vostro, in pregio d’arme
primo a tutt’altri, ed or a voi secondo:
indi non mai sperò cotanto il mondo,
che non restasse dietro a vostre imprese
ogni qualunque suo desir piú egregio:
allor nel vostro regio
animo il dio combattitor discese;
dove poi la ragion, ire spirando,
quel valor sovrumano in voi produsse
che conoscer non sa rischi e terrori.
Quinci dell’armi in sui piú fèri ardori
quanto fu vago mai di gir pugnando
lá sempre ove maggior periglio fusse,
tu, vera Gloria, testimon di lui
in mille chiari fatti, il narra a nui.

Narra pur anco a noi come de l’arti
di sovran duce egli arricchí lo ’ngegno,
non con gli altrui, ma co’ suoi sommi imperi:
e ’n conquistar cittá, provincia o regno,
come deggia adempir l’alte sue parti,
e’ l’apparò da’ suoi trïonfi altèri.
O nati a bel destín almi guerrieri,
sotto colui trattando i ferri vostri,
che de’ consigli suoi va sí potente,
qual di noi presta mente
tanto vigor in una a’ sensi nostri
porge giamai, quanto ’l suo senno a tante
armate schiere, ed intra lor diverse
e d’abiti e d’ingegni e di linguaggi?
E quando di pensier piú accorti e saggi
videsi un duce mai fra tutte quante
le chiare armi o latine o greche o perse?
Cotanto quel di voi senno canuto
ha visto di lontano e proveduto.

Quind’è che degne sol de’ vostri impieghi
son le piú dubbie imprese e le piú grandi,

13 ―
s’ove il poder ostil siasi dimostro,
tal ch’ogni uman consiglio a terra mandi
ed ogni mortal forza o rompa o pieghi,
ivi ’l senno adoprate e ’l valor vostro.
Deh! prestate credenza al sermon nostro,
vegnenti a noi, che di sua altèra, invitta
vertú narra pur poco: e a chi nol crede,
allor fanne tu fede,
in virtú di sua mano, Asia sconfitta;
o possanza d’Europa, o forte mano,
infra tanti furor d’arme infedeli,
te non essendo, or chi di noi saria?
Che se ’l pensier indietro lá me ’nvia,
rimembrando me ’ngombra un timor vano
di veder da per tutto empie e crudeli
straggi di noi, e fumar d’ogni loco
in un orribil misto il sangue e ’l foco.

Giá parmi di veder madri piangenti
co’ figli pargoletti uccisi in seno,
ch’émpian di tristo orror il petto mio;
e le sacre donzelle udir non meno
sospirar, vergognose, egre, dolenti,
il fior de l’onestá donato a Dio.
E giá mi sembra al furor empio e rio
altro scampo che ’l Ciel a noi non resti;
onde la vita in me medesmo abborro.
Però dove trascorro,
sí vaneggiando co’ pensier funesti,
e non piú tosto mi rallegro omai
con meco stesso, sol però ch’io veggia
un’etá ch’un signor sí grande onora?
Sia benedetta mille volte l’ora
che tanto in alto i miei pensier alzai,
onde convene ch’altro ben non chieggia,
se tal senno al valor è ’n voi congiunto,
che ’l mestiero de l’armi al sommo è giunto.

14 ―

Canzon, tu via me ’nfiammi anzi ch’acqueti
nel bel novo desio che a dir me ’ncende
de la piú altèra e chiara gloria nostra:
però rimanti, prego, entro la chiostra
de’ pensier miei di te gioiosi e lieti,
fin che la man l’usato stil riprende,
poiché d’aver compagne hai vera brama
a gir colá dove ’l dover ti chiama.

2.

Alto signor, piú di fallace il nome
non merta il mondo ora ch’a voi se ’nchina,
poiché ben ha dond’inchinar vi deggia:
se adorna la di voi parte divina,
a cui le membra fan vesti e non some,
valor, che nullo uman pensier pareggia
(i’ dico quel valor che signoreggia
con dolce impero i vostri piani affetti,
per piú illustrar ne l’arme il secol nostro):
valor uguale al vostro
non chiuser mai de’ prischi duci i petti,
quand’eran l’alme al ben oprar accese,
e segnavan nel calle, onde a virtute
si poggia, piú spess’orme umane piante.
Quind’è che le lor opre oneste e sante,
che ben eran da noi finor intese
con meraviglia sí, ma non credute,
oggi, mercé di voi, ciascun le crede,
e da’ vostri costumi acquistan fede.

Ma, se l’acquistan sí ch’al paragone
de la di voi virtú mancan di pregio,
chi le vostr’opre crederá da poi?
I’spero, allor quando sia al fato in pregio
che la terra giá vinta al ciel vi done,
per accrescer chiarezza a’ lumi suoi,

15 ―
ch’a quegli che verran dopo di noi
una stella assai piú chiara che ’l giorno
testimon sia delle vostr’opre degne.
Ché donde l’alte insegne
portaste a far passaggio over soggiorno,
non pur non ricevêro oltraggi ed onte,
ma liete s’allegrâr le messi o i prati
de la lor non piú vista alma innocenza.
Chi, fuor che voi, frenò l’empia licenza
de l’armi al mal oprar spedite e pronte?
poiché mal può affrenar popoli armati
duce che suoi desir non anco affrena
e col suo essempio altri a ben far non mena.

Dond’è che poi molte fïate e molte
ad imprese da voi tutte lontane
giungeste pria che n’arrivasse ’l grido?
onde a sí nòve meraviglie e strane
il Reno e l’Istro attoniti piú volte
l’onde al corso fermâro? O tu che nido
fai nel suo regio petto, albergo fido
de l’altre tutte, alta Virtú che prendi
in mezzo le fatiche i tuoi riposi,
di sí meravigliosi
effetti la cagion omai ne rendi.
Tu sola a l’angosciose opre di Marte
talmente agevolasti il mio signore,
che di folgor de l’arme oggi ha la loda:
né giamai col valor bellica froda
venne de l’alte sue vittorie a parte;
ché non ha maggior palma il vincitore
di quella in cui gli animi ancor de’ vinti
son da la sua virtú presi ed avvinti.

Or se nell’atto de la fèra pugna,
peroché in voi l’oste nemica ammire
l’alto invitto valor, forz’è che v’ami,
qual è a pensar, quando gli sdegni e l’ire

16 ―
omai sgombri dal petto, ivi raggiugna
la virtú ch’al perdon poi vi richiami?
Egli è colui sol degno ond’uom si chiami
ch’a l’inimico umíle e lagrimoso
dimostra il volto di pietá dipinto.
Ma consolare ’l vinto,
e di saggio lodarlo e valoroso,
la perdita recando a rio destino,
duce che sappia oprar sí nobil atto,
rassembrar non può mai terrena cosa;
ma che ’n sembianza umana in lui sti’ ascosa
un’alta mente di valor divino,
donde ’l sommo Fattor abbia ritratto
tutti color che fûro a’ prischi tempi
di creata clemenza altèri essempi.

Di voi che dunque imaginar degg’io,
se tal godete oprar atti sí degni,
che vi dorrebbe il non potergli usare?
Se ’l pregio in me di tutti i chiari ingegni
fosse, pur mancarebbe il pensier mio
in capir di bontá forme sí rare.
O chiara idea de l’anime piú chiare,
valoroso signor, entro ’l cui seno,
come ’n suo trono, è la Virtú seduta,
se fosse conosciuta
la sana gioia di che ’l cor va pieno,
allor quand’ella è da voi posta in uso,
saria dal mondo omai l’error sbandito,
che mena l’uom dietro al piacer fugace.
Quinci, non pago sol di usare ’n pace
le virtú regie, onde cotanto in suso
siete sul poggio de l’onor salito,
vi menâr anco i di lor santi amori
fra disagi de l’armi e fra terrori.

Però, se a quei che fece in guerra chiari
sol un nobil desio d’eterne glorie,

17 ―
furon eretti altari e pòrti incensi,
a voi, colmo di tante alte vittorie,
sol per usar vincendo atti sí rari,
di qual onor per debito conviensi?
Premio ben poco a’ merti vostri immensi
egli è di trionfali alte ghirlande,
che la gloria vi cinga il crine augusto.
Ah! che lo Ciel, ch’è giusto,
non seppe destinar premio piú grande
a la virtú che la virtude istessa:
peroch’ella di sé cotanto è paga,
che ciò che non è lei, sdegna o non cura.
Quindi ’l saggio il destino o la natura
ringrazia, perché l’abbia in cor impressa
la copia degli affetti errante e vaga:
perché su l’ombre lor spiega la luce
ragion, dond’ei simile a Dio riluce.

Quest’è dunque il trïonfo almo, immortale,
che per quanto lo stil se ’nalzi a volo,
manca via piú, se ’n lui via piú m’interno:
o bel trïonfo, di cui degno è solo
che sia l’animo vostro alto regale
e spettator e Campidoglio eterno!
Trionfo u’ de’ pensier sède al governo
Prudenzia, a cui l’avvenir mal si pote
celar, piú che non soffre umana usanza:
Fortezza e Temperanza
belle quant’altre mai reggon le rote
ch’a l’alma e l’ira ed il desio formâro:
e ’n cima al carro in maestate è assisa
la regina Virtú, la Virtú intera.
D’affetti vinti una ben folta schiera,
che tôrre il regno a la Ragion tentâro,
tra dolci lacci alfin siegue conquisa;
e di palme immortai va l’Onor vero
colmo, adornando il gran trïonfo altèro.

18 ―

Canzon, tal mi son io qual mal accorto
nocchier ch’a vasto mar la vela crede,
e spera esser col sole a l’altra riva;
quand’ecco ’l giorno a nova gente arriva,
ed e’ trovarsi in alto mar si è accorto,
tal che cima di monte ancor non vede.
Riman però, mentre piú fogli i’ vergo,
con l’altra insieme, entro ’l medesmo albergo.

3.

Poiché l’umil, devota, accesa voglia
di bel nuovo mi mena, a ciò ch’i’ dica
maggior cosa di voi, real signore,
prego la mente, dell’oblio nemica,
perch’i’ al fin giunga ove ’l desio me ’nvoglia,
che raddoppi al bisogno il mio valore.
Se lo stil, che giá mosse a farvi onore,
tanta da voi di chiari pregi illustri
tien copia, che mancar non mai potrebbe.
E chi tacer saprebbe,
rimembrando per cento e mille lustri
sudar tra l’arme imperadori e regi
per voi ripor tra le corone e gli ostri
su quella somma altezza in cui sedete,
e l’alta stirpe oltrapassar le mete
degli onor tutti imperïali e regi:
tanto che spiacque agli stess’avi vostri,
non essendo di lor chi mai pensasse
ch’altro loco di gloria a voi restasse?

O grand’alme sí amiche al cielo e care,
ch’or tenete tra bei splendori eterni
le sue parti piú alte e piú serene,
se giungon mai su’ nidi almi superni
del gran nipote l’opre degne e rare
a recar nòve gioie al vostro bene,

19 ―
or d’allegrarvi in Dio piú vi convene,
poiché sol fu quell’alta gloria vostra
una bell’alba del mio chiaro sole.
Ché ’n sí gravi parole
non pò mai risonar la lingua nostra,
che dica in quanta maestate altèra
fu da l’invitta sua virtute alzato
sovr’ogni suo piú eccelso onor antico;
ch’intenta or pende dal suo cenno amico
di prencipi sovrani un’alta schiera,
che sol confida in suo valor provato,
sicura che da’ regni unqua non cada,
poi ch’appoggiò gli scettri a la sua spada.

E quel re formidabile, che regna
entro l’Alpi, Garona e l’onde salse,
che ’l giogo omai credeasi al mondo imporre,
incontra ’l suo poder cotanto valse
il nome sol ch’oggi a laudar m’insegna,
ch’or a piè de la pace umil ricorre.
O nome glorïoso! E chi rincorre
tutti tuoi pregi alti, ammirandi in guisa
ch’ognor ne parla, e sempre ’l piú ne tace,
quella Donna loquace
ch’a mezzo ’l cielo in alta ròcca assisa,
de’ rumor di qua giú si nutre e cresce,
voce formando, che, se via piú gridi,
divien men roca e ’n chiaro suon piú sale.
Indi accoglie ogni nome alto, immortale,
a cui vaghezza e meraviglia mesce,
e per tutti i remoti estrani lidi,
risuonando tra noi, chiaro il riporta
fin da l’una del sole a l’altra porta.

Alto desio, tu sí me ’nfiammi ’l petto,
ch’i’ ben m’avveggio omai che lá mi meni
ov’è forza atterrarsi il pensier mio:
onde, di riverenza e timor pieni,

20 ―
treman lo stil, la mano e lo ’ntelletto,
ch’i’, te seguendo, tanto in su gl’invio:
e potrebbe sdegnar ’l Ciel, perch’io
col tenebroso debil guardo interno
voglia spiar le piú riposte cose
di Colui che dispose
de le basse cagion l’ordin eterno,
e formata di ben saldi diamanti
stende di lor lunghissima catena,
con la qual cinge e tiene avvinto il mondo.
E, mosso in sua ragion cupo e profondo,
inverso noi da mille etati innanti,
per orror cosí densi il passo mena,
che chi pon cura di non girli incontra,
quando crede fuggirlo, allor lo ’ncontra.

Ma, se a la vostra altissima fortuna,
felicissimo Sire, i’ mi rivolgo,
sembra ch’al Fato il valor vostro imperi:
onde sí forte dubio i’ tra me volgo
(tante grazie sul brando il Ciel v’aduna!),
se sien maggior in voi l’opre o i pensieri;
ch’ogni grand’alma di desir piú altèri
non può giamai desiderar cotanto,
quant’otteneste voi da’ cieli amici.
Faccian pur i nemici
schermo che ’n sicurezza abbia ogni vanto
di montagn’aspre e d’alti spazïosi
rapidi fiumi, o pur d’orrido cielo,
ch’ad un sol cenno vostro obbedïenti
vedransi e la natura e gli elementi,
agevolarsi i monti faticosi,
seccarsi l’onde e dileguarsi il gielo;
tal che non fia per voi tempo distinto
tra ’l venir, il veder e l’aver vinto.

E svegli pur risse, tumulti e guerre
tra regnanti cristian l’Invidia amara,

21 ―
che sempre mai colla Fortuna giostra
per far (e questa sola è la piú avara
voglia di lei) che tra confin si serre
d’Europa almen l’alta fortuna vostra.
Ché, come allor che da l’eterea chiostra
quando ’l gran Giove via piú d’ira avvampi,
tuona qua giuso, il suo folgor ardente
suole recar sovente
belle speranze agli assetati campi,
e a le torri superbe alti timori;
e’ cosí recherá la vostra spada
un’alma pace al buon popol di Cristo,
e che pel santo glorïoso acquisto
porterá a l’Asia guerra, ira e furori,
u’ con navi e cavalli omai sen vada
giá parmi, e d’ascoltar la lieta voce
che sovra la gran tomba alzi la croce.

Rallegratevi, dunque, or con voi stessi,
tu famoso de l’armi alto mestiero,
che per suo senno è tua ragion compíta,
e tu, bella virtute, ch’a sí altèro
campione hai gli onor tuoi tutti commessi,
né ’n questa etá piú vai sola e smarrita;
e colmo ancor di gioia alma infinita
vadasi il mondo, che la gloria immensa
del suo gran nome riverente onora;
e volga lieto ancora
lo Ciel ch’i suoi favor largo dispensa
a chi mai sempre al ben gli pone in uso;
e sovra tutti omai convien che goda
lo stil che ’l valor suo mi pose in mano,
ed oh bel pregio mio sommo e sovrano!
s’alzato e’ siasi mai cotanto in suso
che pur si fosse di sua eterna loda
sol indrizzato, non che giunto al segno,
che non fôra del mio stile piú degno.

22 ―

Canzon, andrai con l’altre a veder quella,
che pensier non imita, alma persona,
che ’ngombro ha di sua gloria il mondo intero;
e, giunta al suo cospetto, umile, altèro,
dirai devota in atto ed in favella:
— Se ciascun detto nostro una corona
fosse immortal, pur a l’onor devuto,
a voi, signor, saria picciol tributo.

V
Al medesimo
Per le sue nozze con Teresa Cunegonda figlia di Giovanni Sobieski.
(1694)

Se mai lieto seguendo il bel desio,
ch’a a farvi onor per lunga via mi mena,
ebbi cura di voi, Muse immortali,
poiché di grido in grido alma e serena
fama dal Reno a rallegrar uscío
tutte l’eterne cose e le mortali,
narrando di due chiare alme reali
gli alti imenei, donde ben ha ch’attenda
il mondo a’ danni suoi certo ristoro;
spirate al mio lavoro,
con destarmi virtú, la qual m’accenda
sí ch’adombrando in carte il gran concetto,
che move dal real nodo gentile,
possa de l’opra mia tornarvi onore.
E voi ch’a’ vivi rai del primo Amore
vi riscaldate, o sposi augusti, il petto,
se l’inchinarvi a picciol dono umíle
vostra maggior grandezza egli è pur mai,
questo piú da vicin mirate omai

23 ―
serto di fior ch’ora vi tesse in voto
per mano de le Muse il cor divoto.

Ché giá dal fragil suo caduco velo
peregrinando piú la mente mia,
cose vede oltre ogn’uso altère e belle:
vede da presso omai lá dove pria
il primo foco ne fe’ adorno il cielo,
tornarsi ’l sol, la luna e l’altre stelle.
E giá le sembra che si rinovelle
la gran serie lunghissima de’ tempi,
e ne rimeni l’innocente etade.
O grazie al mondo rade!
scorge ritratta da’ piú vivi esempi,
che prendon piú de la divina luce,
mandarsi a noi dal ciel novella prole,
che colmerá d’opre leggiadre ’l mondo.
E giá sembra veder che ’l grave pondo
del ferro, dentro a cui fèro riluce
il secolo, qual serpe incontra ’l sole,
si scuota, e di nuov’òr tutto s’adorni;
e a ritrovar la Vergine sen torni,
l’orme sue spente giá dal cieco inganno,
e dar nuovo principio al maggior anno.

E per aprir l’alto consiglio eterno
a tai fati e cotanti ormai la strada,
da cui per sí lung’uso il mondo è vòlto,
a te, real signor, che de la spada
a ciascun duce omai prisco e moderno,
e per senno e per cor, la gloria hai tolto,
giá commise la cura, ond’ei rivolto,
per te, con oprar forza a la sua forza,
si ravviasse a la virtude antica.
E ’nvero ogni nemica
oste e le cieche avare voglie ammorza
ratta cosí, che voi, alme leggiadre,
che rischiarate ardenti e luminose

24 ―
quella parte del ciel ov’è piú vivo,
quando tra noi qua giú lieto e giulivo
verrete a far di voi l’augusto padre,
ritroverete ne l’umane cose
lievi e brev’orme sol di reo costume;
e di virtute il giá sepolto lume
fia che ’ncominci allor chiare e tranquille
a farne riveder le sue faville.

Quindi, real donzella al mondo sola,
perché del mondo il vasto impero degno
sol fôra di quel tuo merto sovrano,
che su qualunque cima alta d’ingegno
lieve cotanto ed ispedito vola,
che aggiungerlo non può pensier umano,
a sí egregio signor la santa mano
non senza un alto nume or porgi in fede
d’aver con lui la saggia mente unita:
ché tal cura gradita
da mille etadi innanzi immobil siede
altamente riposta in petto al Fato,
che ’l mondo a far d’immortal prole adorno
scelse te, che immortal tutta somigli.
Or, quando i cari teneretti figli
(dolci premî d’amor) t’avrai mirato
pargoleggiar vezzosamente intorno,
dando or a questi abbracci, or a quei baci,
sará quel dí de’ piú bassi e fallaci
desiri sgombro, e sol vedremo e ’n parte
per vaghezza di fama usarsi Marte.

Ma, da poi che i reali almi garzoni
saran sí ne le forze iti avanzando
che possa il ferro oprar la man guerriera,
quanto l’essempio lor, l’armi adoprando
per la sola virtú, fia che ne sproni
alzar le voglie a la suprema spera!
O di grand’alme glorïosa schiera,

25 ―
or qui sí ch’abbandono il valor vostro;
né imaginar il so quanto devrei.
Ma pur a’ detti miei
apri attento or il petto, o secol nostro:
tutt’altro allor vedrai lieto e felice,
ché l’alta legge scritta in sen di Giove
chiara si specchierá ne’ nostri petti;
e tempreranne sí gli umani affetti
soavemente, che sol ciò che lice
fia che ne piaccia, e ciò che piace giove,
e un nome avranno e l’utile e l’onesto.
Ah! che però m’è l’aspettar molesto,
pensando, o bella etate, a’ tempi tuoi,
con gli uomini veder misti gli eroi.

Or intendo che ’l Ciel voleasi dire
allor che incontra la sua fé diletta
sostenne armarsi l’Asia in mille schiere:
ond’ella tutta nel timor ristretta
steasi aspettando giá furori ed ire
da tante mani ostil, crudeli e fère:
e poi, sposa real, le destre altère
del tuo gran padre e non minor tuo sposo
insiem congiunse a far la pia difesa.
Né doppia fiamma accesa
cosí, spirando spesso, Austro cruccioso
strugge biade, arde selve, incende armenti,
e quanto pasce piú, via piú divora,
fin ch’ogni cosa avrá spenta e distrutta,
come a’ danni del fior de l’Asia tutta
di celeste pietá co’ petti ardenti
i sovrani guerrier mostrârsi allora:
tanto oprâro col senno e col coraggio!
Allora ’l Ciel volle mostrarne un raggio
de la virtú del di lor germe espresso,
che fia liberator del mondo oppresso.

Quanta e qual dunque nova, altèra mostra

26 ―
fará Germania allor, di glorie eterne
atti usando sí degni e sí pregiati?
Se ’n destinar le lor grazie superne
ristasser mai le stelle, e a voglia nostra
ne concedesse ’l Ciel comporre i fati,
fra me volgendo onor tanto laudati,
non so se voi, del Reno abitatori
popoli fortunati, unqua potreste
voi medesmi di queste
fabricarvi qua giú glorie maggiori.
Ch’i greci pongan pur ogni pensiero
in gir al ciel con la terrena soma,
e la terra adornar d’alte dottrine.
Sia cura de le chiar’alme latine
oltre le vie del sol stender l’impero,
e la ròcca del mondo essersi Roma.
Altri studi sien d’altri almi e sovrani;
ché vostre arti saranno, o gran Germani,
a lo Scita, a l’Etiope, a l’Indo, al Mauro
riportar le virtú del secol d’auro.

Però vittime, incensi e fiori offrite
divoti a lui, ch’al vostro onor fatale
or con gli onesti e santi amori attende:
ond’egli incontro a te, sposa reale,
l’ali battendo de le voglie ardite,
come fenice al sol, tutto s’accende;
ed entro il tuo splendor lieto s’incende
di fiamme ond’arde in ciel la terza idea;
se ’n mirar gli atti, il portamento e ’l viso,
quai tutti t’han diviso
da l’altre donne, e ti somiglian dea,
scorge bellezze in te, che quai per sorte
vorrebberle i desir, tai sembran esse;
né inganno a’ bei pensier fanno i desiri:
onde versa per te caldi sospiri
quel valoroso pien di senno e forte

27 ―
core, quel cor che spesse volte e spesse
fa temer l’Asia piú che cerva o damma;
e quel cor, mentre nel tuo amor s’enfiamma,
perché a vincer formollo uso e natura,
vincer te ancor in ben amar procura.

Deh! non soffrir che cosí bella gloria,
ch’a la tua gentilezza Amor destina,
or, donzella real, tolta ti vegna:
anzi, a prova d’amar sí pellegrina,
riporta pur leggiadra alta vittoria,
di cui de’ vincitor riporta insegna:
e come Amor, ch’è vero amor, t’insegna,
ama lui sol per lui, ed in te stessa
sol ama il tuo piacer, perch’a lui piace.
Vien dunque or con la face
de la fiamma ch’a Dio via piú s’appressa,
vieni, santo Imeneo, e i regii sposi
colma di gioie in sé tanto ripiene,
che da’ piú bei desir non mai sien vinte;
ché giá ’l caduto sol ha in ciel distinte,
co’ chiari raggi al veder nostro ascosi,
le stelle piú seconde e piú serene,
de le sinistre e rie nulla accendendo:
onde sen gío la terra ricovrendo
di notte a noi tanto aspettata e cara,
che fia de’ giorni d’òr madre ben chiara.

Canzon, se mai lá sú temprossi giusta
del mio fato la legge, e se consente
che questo incarco lo mio spirto regga
fin che le sole prime geste io vegga,
e le minor de la gran prole augusta
(qualor in cima a la divina Mente,
pien di vera umiltate, onoro e ’nchino),
spero tanto sul greco e sul latino,
che ’l tosco suon di loro alto ribombe,
che torrá ’l pregio ad amendue le trombe.

28 ―

VI
Epitalamio

Nel giorno delle nozze di Giulio Cesare Mazzacane principe d’Omignano con Giulia Rocca dei marchesi di Vatolla

(Vatolla, giugno 1695)

Giá l’amorosa stella,
del cui lume sereno
Venere ognor la fronte orna e rischiara,
lieta, ridente e bella
ha il cielo ingombro e pieno
della sua luce sospirata e cara.
Giá in guisa altèra e rara,
ricca, adorna e fastosa,
s’appressa al sacro letto,
campo del ver diletto,
l’alma, casta, leggiadra e bella sposa.
Dunque in tenero stile
e in rima istrania e nova
di donzelle e garzon coro gentile
convien cantando omai vincer la prova.
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

[Coro di donzelle]

O stella degli amanti,
e qual lume nel cielo
splende di te piú crudo e piú spietato,
che, non curando i pianti,
di che innaffia per zelo
la madre il sen, come ruggiada il prato,
dal suo grembo ben nato
tôr puoi la cara figlia,
a cui tiene sí strette
le braccia leggiadrette,

29 ―
che in atto alta pietá finge e somiglia;
e darla in preda puoi
all’amador acceso,
che, per temprare i caldi desii suoi,
è a far di lei mille vendette inteso?
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

[Coro di garzoni]

O bel lume d’Amore,
e qual splendor superno
piú benigno di te sul ciel risplende,
s’ogni nebbia, ogni errore
l’almo tuo raggio eterno
sgombra dal mondo, e in lieto ardor l’accende?
Egli è che ne difende
contra l’ingiurie e l’onte
che ne fa il tempo rio,
e sovra il cieco oblio
che fanne arditi e baldi alzar la fronte.
Nell’ardor tuo s’infiamma
tutto ciò che capisce
umana mente, e, qual favilla in fiamma,
risplende ed arde e nell’ardor gioisce.
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

[Donzelle]

Come a chiara e fresc’onda
in chiuse parti e sole
di sacra selva accolta in fonte vivo,
fanno onor sulle sponde
e ligustri e vïole
col venticello crespo e fuggitivo:
tutto lieto e giulivo,
stuol di giovani amanti,

30 ―
mentre si stanno al rezzo,
vi si specchiano in mezzo;
e perde poi sí chiari pregi e tanti,
se viene intorbidato
l’onor di sua chiarezza.
Tal è la verginella che macchiato
ha il verginal candor di sua bellezza.
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

[Garzoni]

Come vedova vite
nata in non culto piano
giace squallida, umíle, infruttuosa,
che le braccia smarrite
talor inalza invano,
e ratto mesta al suol le gitta e posa;
ma, s’all’olmo si sposa,
s’inalza al cielo, e dona
di sé l’uva gradita,
e dolce e colorita,
onde le fanno onor Bacco e Pomona:
cosí sua vita mena
la verginella sola;
ma, fatta donna poi chiara e serena,
sovr’ogni eccelso onor s’erge e sorvola.
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

[Donzelle]

Dunque giá si divide,
alma vergine dea,
dall’altre dolci tue vergini ancelle,
chi per valor si vide,
che sí tra noi splendea,
come tu in ciel fra le minori stelle?

31 ―
Piú care forme e belle
giá mai non mirò il sole
di beltá, cortesia,
di grazia e leggiadria
al portamento, agli atti, alle parole.
Deh! come, o sposo altèro,
al ciel piacesti tanto,
che una sposa degnissima d’impero
e per gli avi e per sé godessi accanto?
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

[Garzoni]

Dunque pur giá sen viene
tutto lieto e ridente
sotto il tuo giogo d’òr, santa Giunone,
con l’alte voglie piene
di pura fiamma ardente
il generoso e nobile garzone,
che scovre al paragone
le virtú de’ maggiori,
che in cento e cento lustri
vissero sempre illustri
in riva al chiaro Alete almi signori.
Deh! qual sfera beata
piove sí largo nembo
di grazie in seno a te, sposa ben nata,
onde accogliesti un tanto sposo in grembo?
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

Chiudete, omai chiudete
i rivi di Elicona,
o del canoro dio sante sorelle;
ché del cantar la sete
tratto tratto abbandona

32 ―
questi cari garzon, care donzelle.
E voi, benigne stelle,
mandate pur, mandate
dal cielo piú sereno
all’alma sposa in seno
alme di tal virtú ricche ed ornate,
che lo sposo gentile,
con esempio ben raro,
vada per lunga etá da Battro a Tile
del bel nome di padre altèro e chiaro.
Vieni, santo Imeneo,
Imene, Imeneo, vieni, Imeneo.

VII
Epitalamio

Per le nozze di Vincenzo Carafa duca di Bruzzano con Ippolita Cantelmo

Stuart dei duchi di Popoli.

(Napoli, intorno al 16 giugno 1696)

D’amaranti immortali omai la fronte,
santo Imeneo, circonda
in questo lieto e fortunato giorno,
che di nuovi fior s’orna il piano e ’l monte,
e del Sebeto l’onda
nuova chiarezza acquista, e ’l ciel adorno
di nuova luce splende, e dognintorno
vagando in dolci errori,
scherzan Grazie ed Amori;
e la gentil Sirena,
sempre d’alme gentil feconda madre,
d’amore ingombra e piena,
tutta in belle d’amor voglie leggiadre
si desta, e sembra il bel tempo giocondo
dell’oro torni e rinnovelli il mondo.

33 ―

In questo lieto dí, regal donzella,
fra noi dal ciel discesa,
sposa in tai forme a regal sposo è scorta,
che non portossi Citerea piú bella
giá nell’alta contesa
della beltá con l’altre dive insorta.
Vieni, santo Imeneo, deh vieni, e porta
di lume eterno e chiaro,
d’ardor celeste e raro
sí l’aurea face ardente,
che d’amor dèsti ogni piú nobil brama:
odi come sovente
l’alto sposo il tuo nume invoca e chiama,
chiama il tuo nume, ond’egli attende aita
di far ben lieta l’amorosa vita.

E giá Espero il ciel orna e rischiara
con sua benigna luce
che ’l mondo empie di gioia e di diletto.
Stuol d’alte donne ’n nuova guisa e rara
giá la sposa conduce
timida e vergognosa al sacro letto.
Il buon Appollo omai vi scaldi il petto,
donzelle altiere, umíli
garzon vaghi e gentili;
e a vicendevol canto
(ché tai dolci vicende aman le Muse)
vi dèsti il furor santo
di che spirando ha pur le menti infuse,
e l’alma notte in dolci rime ornate
riverite cantando ed onorate.

[Coro di donzelle]

Espero, e qual giammai tra’ lumi erranti
di te splende nel cielo,
e piú crudo e piú fiero e piú spietato?
che, non curando d’alta sposa i pianti,

34 ―
di cui bagna per zelo
il casto sen, come ruggiada il prato,
della sua cara madre al grembo amato
come rapirla puoi,
e darla in preda poi
all’amadore acceso
e pronto a far di lei mille vendette?
Come colui ch’offeso
in sua virtú di mille auree saette,
or fia ch’egli di lei punir s’ingegni
mille schivi, leggiadri atti e disdegni?

[Coro di garzoni]

Espero, o lume onde s’accende Amore,
e qual splendor superno
di te piú lieto e piú benigno splende?
Poich’ogni nebbia, ogni ombra, ogni atro orrore
l’almo tuo raggio eterno
sgombra dal mondo, e ’n lieto ardor l’accende.
Raggio ch’a ben oprar gli animi incende,
e ne ristora i danni
che n’arrecano gli anni;
nell’ardor tuo s’infiamma
pur tutto ciò ch’uman pensier capisce,
e, qual favilla in fiamma,
risplende ed arde e nell’ardor gioisce;
e chi del sorger tuo sembra dolerse,
pur voti a te secretamente offerse.

[Donzelle]

Come di chiare, fresche e limpid’onde
in chiuse parti e sole
di sacra selva a una fontana viva
s’inchinan riverenti in su le sponde
e ligustri e vïole
mosse dall’aura fresca e fuggitiva,

35 ―
giovani amanti dall’erbosa riva,
mentre si stanno al rezzo,
vi si specchiano in mezzo,
e perde sí bei pregi,
se la chiarezza sua vien mai turbata:
cosí gli altieri fregi,
onde sen gía la verginella ornata,
perde, poiché ’l candor tolto le fue,
che facean belle le bellezze sue.

[Garzoni]

Come fra sterpi e prun vedova vite
nata in non colto piano
giace squallida, umíle, infruttuosa,
e sovente le braccia egre e smarrite
innalzar tenta invano,
ma ratto mesta al suol le ’nchina e posa:
però, se all’olmo amica man la sposa,
al cielo s’erge, e dona
frutti a Bacco e Pomona.
Cosí sua vita mena
la verginella ritrosetta e sola,
che poi lieta e serena
su le cime d’onor s’erge e sorvola:
e, dando figli al mondo in valor chiari,
sente i premî d’Amor quanto sien cari.

[Donzelle]

Dunque giá si diparte e si divide
alma vergine dea
dall’altre care sue vergini ancelle:
chi per valor, chi per beltá si vide,
che sí tra noi splendea,
come tu in ciel fra le minori stelle.
Non vide il sol piú care forme, belle
di grazia e leggiadria,

36 ―
di beltá e cortesia.
Deh! come, o sposo altiero,
cotanto sovr’ogni altro al Ciel piacesti,
che questa d’alto impero
donzella in marital nodo stringesti?
O bel nodo alla terra e al Ciel gradito,
da fé verace e sommo amore ordito!

[Garzoni]

Dunque, santa Giunone, alla tua schiera
(gloria al tuo regno nuova)
il ben chiaro amador pur giá s’unío,
che con gli atti gentili e mente altiera,
col senno e valor prova
l’antico regal sangue ond’egli uscío;
senno e valor che vincerá l’oblio:
mente ed atti ben degni
d’alto stil, d’alti ingegni.
Oh quanto i Ciel ti ornâro
di grazie, alta donzella e generosa,
che lieti t’accoppiâro
ad amante sí degno altiera sposa!
O bella coppia che s’adorna e fregia
di regal sangue e di virtute egregia!

I rivi d’Elicona omai chiudete,
dotte figlie di Giove,
che di devote laudi a prove ornando
i regali imenei, han giá la sete
in rime istranie e nuove
le donzelle e i garzon spenta cantando.
Sposi ben lieti, e voi traete amando
di sana gioia pieni
i bei giorni sereni,
che, col girar de’ lustri,
quanto faran piú lieti e piú felici

37 ―
alle grand’opre illustri
i figli intesi e al valor vostro amici!
Allor vedremo i fortunati giorni
ch’ogni prisca virtute al mondo torni.

VIII
Per la ricuperata salute
di Carlo II di Spagna
(esametri recitati nel Palazzo reale di Napoli il 4 novembre 1696,
pubblicati nel 1697)

Festa dies oritur, discurrant undique laeti
cives, et centum ludos centumque choreas
concelebrent, dulci modulantes carmina voce:
ac pietate gravis vittatus quisque sacerdos
thuricremas caste donis divûm oppleat aras,
quas mixtos senibus pueros matresque nurusque
tangere nunc iuvat et dîs grates solvere dignas.
Nam summa divûm cura regnator Iberus
praesenti ereptus letho iam vescitur aura.
Invida Mors etenim, quae, si quicquam utile terris
forte videt laetis, duro rapit effera fato,
in Carolum, Austriadum decus, aegre lumina figens,
ut felix faustumque fide ac pietate tuetur
imperium, quod avûm virtus aequavit Olympo,
lethiferam ac tetram febrim diro evocat Orco;
nec mora, febris adest, regis flammamque cruori
coniicit, ardentes figens sub pectore taedas;
mox comites subeunt, infensus et anxius angor,
sicca et anhela sitis, pallor maciesque suprema:
tandem (horret meminisse animus, pavidusque refugit)
tandem, omni abiecta vitalis Apollinis arte,
nullam nostra salus iam quid sperare salutem.
Quae lacrymae tunc, qui gemitus, qui luctus ubique?

38 ―
Non opis est nostrae perstringere tanta relatu.
Nulla quidem tellus tum fudit semine flores,
nullus honos sylvis, nullus squallentibus agris,
inque caput fontis rivusque amnisque redibant.
Nec face sol rosea nigras diffiderat umbras;
omnia moerorem ostentabat, omnia luctum.
Tum Tagus e mediis pallens caput extulit undis,
tristis ubi glaucos tollitque ad sidera vultus,
immotus paullum aspexit, tandemque dolorem
sic aperit, rumpitque has imo pectore voces:
— Ecquae tandem adeo casus mens gnara futuri
infelix potuit tantum sperare timorem?
Nam quid tam durum est, plenumque horrore minaci,
quodque ego non tutus timeam, praesensque pavescam?
Iustitia ac pietas ac omnis regia virtus
quo fugient, Carolum si stat iam linquere terras?
Nunc tandem ius omne hominum, fas omne deorum
rumpetur, fugiet pudor, et scelus irruet omne.
Iam video, heu nimium infelix! horrentia Martis
arma, quibus regna infense terraque marique
omnia iam vastat late! infelicia regna,
quae longe nostris natura dissita ab oris,
stricta simul nostris leges iunxere animique.
Vos inter certe gestit plaususque iocusque
ignara exitiis quantis vos Fata reservant. —
Dum Tagus has mixtas lacrymis trahit ore querelas,
extemplo Phoebus pallentes discutit umbras,
plus nimio clara collustrans lampade terras;
gemmantemque colore comam sylva explicat omnis,
atque novos tellus profert per gramina flores;
illimes vitreique magis de fontibus amnes
mollia prata inter manant; ac gestit ubique
laetitia et plausus, tum certa salutis imago.
Et certe nec vana fides haec omnia pandunt
fata pios rebus quam servavere secundis.
Nam Pater omnipotens, qui res hominumque deûmque

39 ―
temperat imperio, propius miserescere nostras
dignatus, tandem placidam dulcemque quietem
de caelo misit, quae iam vitalibus auris
devehitur praeceps, iucunde regia membra
irrigat, ad sensum ac motum mox excitat artus,
confirmatque vigor vitam illam, quae unica sospes
a nobis potuit tantos avertere casus.
Eia igitur, cives, immensa haec munera Caeli
laudibus aeternis laeti exornate canendo,
et dias cuncti grates ad sidera tollant.

IX
In morte di Caterina d’Aragona
(distici composti tra il 1697 e il 1699, pubblicati nel 1699)

— Iustitiae leges, sanctae Pietatis et artes
    salvete aeternum; salve, Pudicitia.
Tuque, Fides, salve; vos, Gaudia certa, valete,
    quae in recte factis coepi et in officiis.
Dulcis amor quo dulcis eram virtute probatis
    deliciae populis, et tibi dico vale. —
Occumbens letho Catharina haec ultima profert
    decreta: eheu! saeclo mors lacrymanda nimis.

40 ―

XI
A «Donna bella e gentil»
(pubblicato nel 1701)

Donna bella e gentil, pregio ed onore
chiaro, immortal dell’amoroso regno,
qual può giammai umana arte ed ingegno
degne ordir lodi al vostro alto valore?

Poiché, se quel ch’aprite a noi di fuore
contemplo, sembran paragone indegno
perle, ostro ed oro: anzi a vil pregio io tegno
(sia con sua pace) il sole e ’l suo splendore.

Ma i cortesi pensieri e i bei desiri,
gli onesti, santi, angelici costumi,
le parole di senno e grazie ornate,
    qual mai d’alto parlar ben largo fiume
lodar potria? O degna che l’etate
io consumi per voi tutta in sospiri!

41 ―

XII
Per la nascita di Marcantonio Doria
(1702)

Dulcis amor matris scitus puer editus auris:
    dulcis amor patris, scitule nate puer.
Dulcior ut matrem poteris mox voce ciere,
    et per delicias voce ciere patrem.
Ast aetate vigens fueris dulcissimus olim,
    matrem expressurus moribus atque patrem.

XIII
Per l’onomastico
di Filippo V re di Spagna
(distici recitati nel Palazzo reale di Napoli il 4 decembre 1704,
pubblicati nel 1705)

Iam redit alma dies, qua errantia lumina coeli
    spectarunt ortus, magne Philippe, tuos.
Et Venus ore tenus, praetexit cetera Phoebe,
    tum fuit ut Phebes esset amica Venus.
Atque Venus frontis laetos afflavit honores,
    afflavit Phoebe pectora casta tibi.
Brachia complexi tum visi Iuppiter et Sol,
    gloriae et imperii summus uterque dator.
Mars tibi bellipotens, facundus foederis auctor
    ensem cum virga conseruere simul.
Scilicet ingentis post tot discrimina belli,
    aurea pax regnis te data rege foret.
Nascente aversus solus Saturnus, inane
    spectans immensum tristia vergit eo.
O celebranda dies hoc cultu Nestoris annos,
    et post exactos sic celebranda dies!

42 ―

XIV
In morte di Gregorio Messere
tra gli Arcadi Argeo Caroconasio
(settembre 1710)

Partisti, Argeo, da noi,
cui fu dal ciel concesso
intendere il parlar de’ prischi eroi,
e dal ciel fu permesso
di ragionar con Pane assai dappresso.
Un colmo di dolore
tuo compagno pastore,
socio, che lungi dietro a te veniva
del bel Sebeto in riva,
all’immortal tuo merto
di timo còlto in Attica offre un serto.

XV
Distici nuziali

Pel matrimonio di Filippo Bernualdo Orsini duca di Gravina con

Giovanna Caracciolo dei principi della Torella.

(1710)
Irae incendebant Venerem Martemque vicissim,
    candida cum Veneris sanguine tincta rosa.
Se deamant belle modo Marsque Venusque vicissim,
    cum Ursina ex Veneris sanguine tincta rosa.

43 ―

XVII
Distici nuziali
Pel matrimonio di Tommaso d’Aquino marchese di Francolise con

Lucrezia Dal Verme.

(1712)
Vermiades virgo regnum temnebat Amoris;
    eiusdem dias temnit Aquinus opes.
Indignatus Amor graviter sua vincula nectit;
    et captis ridens talia voce refert:
— Posthac, dum vobis sic iunctis vita manebit,
    temnite, si liceat, regnaque nostra et opes.

44 ―

XVIII
Carme nuziale

Pel matrimonio di Nicola Loffredo conte di Potenza con Ginevra Grillo dei marchesi di Chiarafonte.

(1712)

O sacris procul esto ab his, prophani,
vulgo quisque amat, his sacris abesto;
qui tristi quoque vivis orbitate,
sacro hoc abstine, caeremoniisque,
linguis, et bona verba, iam favete,
uxoresque virique, quisquis audit
matris dulcia nomina atque patris.
Sacerdos Genius, sed haud is ortus
de plebe Geniorum adornat alma
sacra almae Veneri pudici Amoris
et castae Veneris pudico Amori.
Macta es tu, Venus alma, cincta caesto,
qua ridente, venusta cuncta rident;
macte es tuque, Amor, aurea sagitta,
qua pungente, venusta cuncta flagrant.
His amplexibus es uterque macte,
queis non sunt hederae tenaciores:
hoc certamine macte suaviorum,
queis non libem ego suaviora mella.
Macte hoc sanguine, quo sed hercle nostra
vita haud funditur; is ut hercle possit
fusas reddere fortium virorum.
Matronae, ilicet; en peracta sacra:
Grilla iam nova nupta facta mater;
Loffridus pater est novus maritus.

45 ―

XIX
Al padre Giovan Crisostomo da Bologna
Pel quaresimale predicato da lui nel Duomo di Napoli.
(1713)

Mens facta ad verum, cui plenum pectus honesti,
    puris in verbis et grave pondus inest:
cui vultu et cultu constat rigidissima virtus,
    cor certe eloquitur vel tibi lingua sapit.

XX
A Gaetano Argento
Per le sue nozze con Costanza Merello dei duchi di Calitri.
(1714)

Argenti, columen sacri Senatus,
lumen iam celebris fori decusque,
si unquam quis fuit omnium peritus
nati non modo conditique iuris,
sed Suadae penitissima medulla
voce et consilio potens ubique,
res nostras, bone, singulas tueri,
res nostras, bone, publicas iuvare;
virtute ut pater omnium voceris:
natura pater et modo esse spondes.
Sancte hoc concipimus pieque votum:
virtute ut pater omnium vocaris,
natura pater esto sic tuorum.

46 ―

XXI
Distici nuziali

Pel matrimonio di Antonio Caracciolo principe della Torella con Marianna Serra.

(1714)

Res, virtus, formae et generis splendorque decusque,
    cuncta adsunt iuveni, qui tamen aeger habet.
Res, virtus, formae et generis splendorque decusque,
    cuncta puellae adsunt, vivit at aegra tamen.
Iunge, Hymenaee Hymen, quaeso, citus haec bona summa;
    iunge, Hymenaee Hymen, quaeso, et utrumque bea.

XXII
Su un libro di versi
di Placido Antonio Longobardo
(1714)

Musa tibi adspirat, vates, arguta, iocisque
    carmina perfundit bellula, candidula.

47 ―

XXIV
Distici nuziali

Pel matrimonio di Giovanni Venceslao conte di Gallas con la contessa Ernestina Dietrichstein.

(1717)

Iupiter humana specie, Iunoque iugales
    mallent in terris concelebrasse faces:
Galassus quum nuper et Ernestina iugales
    sunt visi a superis concelebrasse faces.

XXV
Distici nuziali

Pel matrimonio di Andrea Imperiali Simiana principe di Montefia con Anna Caracciolo dei principi della Torella.

(1717)

Cestum exornatum Venus alma decentius optat,
    quo tenerum cingit diva pudica femur.
Dius Amor praeclara Annae connubia adornat,
    nodum cesto addit quem Venus alma decus.

48 ―

XXVI
Distici nuziali

Pel matrimonio di Niccol Parisani Buonanni marchese di Caggiano con Emmanuela Erberta Vitillo dei marchesi di Auletta.

(1717)

Quid fit quod Musae innuptae recinant Hymenaea,
    alludat Veneri virgineusque chorus?
Namque puellae innuptae praecentant Hymenaea,
    uni dictus Amor virgineique chori.
Herbertam ergo ornemus, quae ornat nupta Hymenaea,
    virgo modo ornabat virgineumque chorum.

XXVII
Per le nozze di Adriano Antonio Carafa con Teresa Borghese
(1719)
1.
Canzonetta.

Virtute altèra
per due chiar’alme
riportar palme,
di gloria vera
carche e d’onore,
volea d’Amore.

E di sua mano
per l’alta impresa
formò Teresa,
formò Adriano,
e gli armò il petto
del suo diletto.

Poi, con consiglio
che valor pare,
vallo a sfidare
al gran periglio,
in vario suolo
da sola a solo.

E (sí le piacque)
pria appo ’l Sebeto,

49 ―
che va piú lieto
d’onor che d’acque,
provocarl’osa
sí baldanzosa:
    — Tu, che ti vanti
sopra di Marte
e d’armi sparte
e teli infranti,
e c’hai sconfitto
con l’arco invitto,
    non abbi a vile
far forze rade
ne la cittade
detta «gentile»,
e in rive amene
pur di sirene.
    Perché ben chiaro
a la tenzone
t’offro un garzone,
qual l’educâro
fin da le cune
regie fortune,
    e mercé mia
in cuor suo prezza
sol gentilezza,
sol cortesia,
e sposti ha gli anni
verdi a’ tuoi danni. —
    Punto da’ detti,
chi punge e fere
saette fiere
ed archi eletti
prende ed adopra
per la grand’opra.
    Spesso l’assale,
piú dardi avventa,
piú volte tenta:
ma nulla vale,
ch’ogni sua possa
Virtude spossa.
    Onde qual vinto
cosí ’l rampogna:
— Se ’n vano agogna
giá nel procinto
con viril core
il tuo valore,
    Virtú t’appella,
di vergogn’ebro,
lá dove il Tebro
per gran donzella
va assai piú tronfo
che di trionfo.
    In lei natura
grazie e bellezze,
agi e grandezze,
regal ventura,
doni ambe rari,
versâro al pari. —
    Qui sí che ’l nume
di vil ripreso,
da sdegno acceso
oltre il costume,
quasi tutto arse
di vendicarse.
    Ma non piú vinse
per mille assalti
i duri smalti,
onde il cor cinse
la sdegnosetta,
la ritrosetta.
    Da lenti gli archi,
da ottusi i dardi,
50 ―
e da infingardi
del fianco incarchi
a tali offese,
Amor riprese.
    Ma vede alfine
che, benché elette
scoccò saette
di tempre fine,
pesi ineguali
ebber gli strali.
    Onde, due tratte
d’egual momenti
quadrella ardenti,
pur d’oro fatte,
il cor gl’infiamma
di pari fiamma.
    E Virtú poi,
che giá la gloria
de la vittoria
canta tra’ suoi
saggi, e la fama
cosí richiama:
    — Tu, che me, ingiusto
dio de’ martíri
e de’ desiri,
di terren gusto
m’accusav’ieri
tra’ tuoi severi,
    vieni a vedere
de’ tuoi campioni
or le tenzoni
in guise altère,
e da me impara
virtú piú rara;
    virtú che ’l mondo
quanto mai orna
a lei ritorna
lieto e giocondo. —
E qui le chiare
finîr lor gare:
    ché Virtú prende
d’Amor la face;
da Virtú pace
Amore apprende.
O saggio Amore!
gentil valore!

51 ―

3.
Risposta del Vico.

Raro Giacinto, che la nostra etate
ben ricca rendi con tue dotte carte,
onde infin de le stelle in ciel cosparte
son le misure tue tanto onorate:
    pur troppo scelte lodi e assai pregiate
a l’incolto mio stil da te son sparte,
che sol degne di lor picciola parte
l’opre mie fôran sopra ’l cielo alzate.
    Dunque è ragion ch’or Adrian sia giunto
a generosa inclita donna e degna
di riporgli i suoi chiari eroi giá spenti;
    perché sua prole agli anni tardi e lenti
mostri i maggior, com’uom ch’oprando insegna,
qual di gloria toccar tropp’alto punto.

4.
A Marcantonio Borghese principe di Sulmona.
    Grande di tue grandezze è ben la fama,
e molto è de la fama il ver maggiore;
e ’l ver tu vinci, almo latin signore,
che suo pregio l’Italia onora e chiama:

52 ―
    se tua magnificenza a noi richiama
il prisco de’ romani alto splendore,
quando felicitá pari al valore
godean lieti, e poter pari a la brama,
    d’Augusto ai tempi. E pure il grande Augusto
solo il genio di Roma usò felice,
ché troppo avversi ebbe i privati lari.

Ma tu, di prole d’ambi i sessi onusto,
e bella e saggia, odi or chi canta e dice
d’una tua figlia sposa i fregi rari.

5.
Al cardinal Lorenzo Casoni.

Signor, pregio sovran del secol nostro,
nato, anzi fatto a qualunque opra egregia,
che col sommo valore ornate l’ostro
di cui Virtú spesso s’adorna e fregia;
    che ’nfiamma i comun voti il merto vostro
su l’alta Sede onde s’onora e pregia
Italia, e a cui ogni gran scettro è prostro,
vedervi un dí ne la sacrata regia:
    poiché voi de’ due chiari augusti petti
il nodo ornaste maritale, e poi
il consacraste con solenne rito;
    quai glorïosi e memorandi effetti
al maggior uopo e’ produrrá tra noi
da man sí saggia il bel lavoro ordito!

53 ―

7.
Risposta del Vico.

Ne la superba un tempo, or bassa umíle
selva scern’io piú cetre d’oro appese,
e n’odo risonare in dolce stile
rade e per fiamme in gentil core accese.
    Ma per gloria che sol non abbia a vile
degli anni le lunghissime distese,
se mai loro aspirasse aura simíle,
osar tutte potriano eterne imprese,
    e d’Ippocrene in sul bel margo o riva,
il nodo ch’a Giunon Giove congiugne,
celebrar con sublime e chiaro canto.

54 ―
    Però i pensier tu hai vòlti a miglior vanto
d’altro sapere, ove ben tardi uom giugne,
e te sí tosto io giá ne veggio a riva.

9.
Risposta del Vico.

Gentil Egizi, del cui nome adorno
da ben lungi al Sebeto è fatto onore,
se avessi del tuo stil l’alto valore,
opra certo farei del Tempo a scorno.

E, quale ’l mio non è, seren soggiorno
e tranquillo aman Febo e l’alme suore;
tra cure infeste al bel di gloria amore
chi giammai visse oltre la vita un giorno?

55 ―

Quanto sopra il mio dir l’eroe famoso
s’ergéo! né da me fu materia eletta,
che vinceva il desio, non che la spene.

Come a me, dunque, celebrar conviene
di virtude e splendor coppia perfetta,
quando tu stesso dici: — Io pur non l’oso?

56 ―

11.
Risposta del Vico.

Capassi, sociûm meorum ocellus,
tu emunctus, gravis, integer, severus,
me adscribis bene laudibus faventer
amplis undique principum virorum,
queis sane fuerit decus supremum,
ut tu concilies perenne nomen;
dives qui omnigenae eruditionis,
felix ingenio, rotundus ore,
adstricto es celebris stylo et soluto.

57 ―
Acri iudicio benignitatem
praevertis, studio probati amici,
non ille ut videare non amicis
emunctus, gravis, integer, severus.

12.
A Nicola Cirillo.

Cyrille, o prope corculum Minervae,
quod scripsi patrui fera arma belli,
vis me dicere nuptias nepotis.
Ipse ut Carafium novum maritum
ornem versibus arte perpolitis!
Uni qui applicitus diuque linguae
vix gusto venerem putam latinam.
Spectas me ingenio tuo beato,
artes qui super intimas Lycei
mellite sapis atticum leporem.

XXVIII
Per la porpora conferita al gesuita Giambattista Salerni
(1720)

Almae quid facerent, rogo, sorores
dispersae undique solitariaeque,
artes quae fugitant negociosas,
artes quae fugitant severiores;
ni Capassius, ipse deque musis,
et multum merita e domo Salernum,
ostro quod merito caput decoret,
vestris det modo versibus canendum?
Laetandum est igitur cuique, amici,
Pindi qui colitis sacrata montis,

58 ―
quod vatis studio excitae Salerno
Sebethi celebrent chorum prope undas
almae, quae facerent nihil, sorores
dispersae undique solitariaeque.

XXIX
Per le nozze di Giambattista Filomarino
con Maria Vittoria Colonna Caracciolo
(1721)

62 ―

XXX
Sonetto nuziale
Pel matrimonio di Antonio Pignatelli marchese di San Vincenzo con Anna Francesca Pinelli dei duchi di Acerenza.

(1721)

Quel pensiero divino, almo, immortale
per cui del nostro vil la massa informe
mille prende leggiadre e vaghe forme,
e di grazia e bellezza in pregio sale;
    pria di sé fuor die’ voi, donna reale,
con tanta industre cura a sé conforme,
che non pur ne mostrate a noi liev’orme,
chiara splendendo al gran disegno eguale:
    e or qual v’unío con pari studio ed arte
a duce invitto in nodo onesto e santo,
prole per darne a sé da voi simíle!

Qual piú sublime ingegno or può mai tanto
levar di terra il piú purgato stile
che vi possa ritrar, gran sposa, in carte?

XXXI
Contemplando le rovine di Roma antica
Parafrasi latina d’un sonetto di Agnello Albani.
(non posteriore al 1723)

63 ―

2.
Parafrasi del Vico.

Relliquiae o ingentes urbis vastaeque ruinae,
    quam Memphis, mirans ipsa, quoque obstupuit,
heu! quales arces orbis, capitolia Martis,
    heroum Latii quae fuit ampla domus!
Marmora, quae caelo vidit suspensa columnis
    inserere et frontes proxima sideribus,
disiectas moles nunc Roma et rudera cernit,
    temporis exuvias, temporis excidia.
Palladis almae aedes ubi nunc? vbi et illae Tonantis?
    reges quae ornarant et decora alta ducum?
Specto ac praetereo miseranda exempla priorum,
    et, mecum reputans talia, voce queror:
— Omnia tempus edax fert nata aut facta vetusta,
    si aeternas urbes fert quoque tempus edax.

64 ―

XXXII
Complimenti poetici
(non posteriori al 1723)
2.
Risposta del Vico.

A quello di valor alto, immortale,
ove di rado uom giunge, inclito regno,
ed ogni cosa, fuor che gloria, a sdegno
prende chi mai vi signoreggia e vale;
    tutto ciò c’appo ’l vulgo in pregio sale,
e qual de’ sensi piú gradito pegno,
e ’l bieco sguardo di ner’odio pregno
d’invidia, cui nullo oprar ben sol cale,

65 ―
    sprezzando, t’innalzò l’ardor possente
di grido, il qual dopo mort’uom non tace,
e al cener freddo eternitá gl’impètra.

Quindi pareggi, Alban, la prima cetra:
ma da stolta fortuna oppresso giace
il nostro incolto stile egro e languente.

XXXIII
Per nozze
(non dopo il 1723)

In coppia ricca di valor latino
vedendo Amor, sceso dagli alti chiostri,
una render Lucrezia a’ tempi nostri
ne’ pregi ugual, ma con miglior destino,
    e di Ottavio, il cui nome alzò ’l divino
Maron al ciel con chiare opre d’inchiostri,
l’altro serbar un gran sembiante. — I vostri
fati augusti — egli disse — onoro e inchino. —

Poi strinse fasci d’immortali allori;
che mille in guerra e in pace avi famosi
co’ sudor inaffiâro e co’ perigli;
    e li sommise a’ piè de’ regi sposi,
con dir: — Voi li serbate a’ vostri figli,
perché Roma risurga a’ prischi onori.

XXXIV
Per nozze
(non dopo il 1723)

Quest’inclito, regal ceppo vetusto,
che, regnando, la prima alta radice
gittò, dove d’Enea l’alma nudrice
depose stanca il venerando busto;

66 ―
    a un ramo sol d’eccelsa gloria onusto
di tanti, che spiegava, altri felice,
sua virtú strinse, onde sperar ne lice
lieti vedere il bel germoglio augusto:
    e ’l genio marital de’ prischi eroi
serbò a tant’opra altra regal donzella
di Chiaromonte del gran sangue antico.
    La secondate, santi numi, or voi,
o dea col riso di tua terza stella,
o Giuno in braccio stretta a Giove amico.

XXXVI
Innocenzo XIII e il cardinal Bernardo Conti
(tra il 1722 e il 1723)

Quell’immoto, divin consiglio eterno,
che le cagioni e manifeste e ascose
stringe in catena, e le create cose
fa tutte ancelle al suo ordin superno,
    dal gran ceppo vetusto, onde al governo
de la nave di Pier tanti propose,
de’ quai l’alte memorie e glorïose
di lor etá non mai vedranno il verno,

67 ―
    due gran germani con tal studio ed arte
ne diede, ornati ambi di sacro ingegno,
che da tutt’altri gli divide e parte:
    perché l’un, che governa il sacro regno,
l’altro a venir de le sue cure in parte,
non pur facesse, il ritrovasse degno.

XXXVII
Per le nozze di Leonardo Tocco
e Camilla Cantelmo
(1723)

Qual vaga io miro, nova, altèra mostra:
regger l’aurea sua face in regal viso,
su trono d’amaranto Imene assiso,
che di rose immortai Venere innostra?

Eroico Amor l’assiste, e ne dimostra
l’alto poter su la concordia e ’l riso;
e un genio v’ha da tutti altri diviso,
che guide eterne son di vita nostra.

Virtú, non, come suol, severa e grave,
gaia e ridente mena in bella coppia
due chiar’alme di lei ricolme e piene.

Ma odo risonar dolce, soave
liete miste tra lor muse e sirene:
il gran Tocco e Camilla Imene accoppia.

68 ―

XXXVIII
Per Antonio Manoel De Villena
nuovo Gran Maestro di Malta
(1723)

Del gran Buglione e di sue invitte schiere,
che liberâro in pria la sacra Tomba,
tal c’oggi ancor a l’Asia il cuor ne piomba,
sue sconfitte in membrar crudeli e fère,
    chiara celèbra le memorie altère
a la greca e latina un’egual tromba;
ma ne’ petti de’ pii roca rimbomba
per cotante emular glorie primiere.

Duo gran cuori tal gloria avvien che fieda;
d’un ond’in terra e’ quasi afflitto giace,
e ’l tuo, signor, perché s’estingua in mare:
    o se uniscan lor forze alme sí rare,
giá con navi e cavalli al fiero Trace
vedrem ritôr la grande ingiusta preda.

XXXIX
Pel dottorato in utroque
del conte abate Francesco Saverio Borea
(1723)

Ne la primiera dolce etá dell’oro
era facil natura il bel costume,
e schietto di beltade il dolce lume,
e nuda leggiadria d’arte e lavoro.

Dal sacro monte col virgineo coro
del divino furore il santo nume
versava a tutti d’Elicona un fiume,
e vestía membra umane il sacro alloro.

69 ―

Stretta Astrea con gli eroi giva in drappello,
voci tra lor portando amiche e grate;
né nomi aveano ancor Lite e Tenzone.

Dunque rimani tu la prima etate,
consigliando, Savier, dritto e ragione,
chiaro vate leggiadro, onesto e bello.

XL
In lode di san Giacomo della Marca
(sonetto recitato nella chiesa napoletana di Santa Maria La Nova
il 1° decembre 1723)

Fu d’eroico valor ben alto segno
di color che vestîro animo forte,
ed incontrâro aspri perigli e morte,
per cui fondâr in terra inclito regno:
    di cui prese la Gloria i nomi in pegno
ad ogni gente di profana sorte,
che sia chiusa del sol tra le due porte,
gridargli in chiaro suon d’arti d’ingegno.

Ma cadon le cittá, muoion gl’imperi,
e ’n terre incolte e tra’ paesi guasti
son lor nomi sepolti entro l’obblio.

Piú grand’eroe co’ spirti umili altèri
tu regno eterno sopra te fondasti,
godendo or lieto eterna gloria in Dio.

70 ―

XLII
Per l’ascrizione del cardinal D’Althann all’Arcadia
(1724)

L’offre in tu’ onor che sí destr’ali spande
per campi e selve e piani e valli e monti,
alto Pastor, da eroi per fama cónti
disceso e ricco d’opre alte ammirande,
    per cui la nostra all’altre etá tramande
ampi sudor di mille dotte fronti,
versati in adornar tuoi saggi e pronti
consigli e fatti, ond’ella è chiara e grande.

71 ―

Questa di Pindo in cima or còlta fronde
dall’arbor ch’onorâro Apollo e Giove,
casta man pur ti dona, alma sincera;
    e quello, che ’l tuo crine orni e circonde,
tesse, con altre scelte a mille prove,
fregio a spiegar di virtú salda e vera.

XLIII
Sonetto nuziale

Pel matrimonio di Giambattista Pisacane, reggente del Consiglio Collaterale con Teresa Gurgo dei duchi di Castelmenardo.

(primi giorni del 1725)

Questa di gemme e d’òr ricca donzella,
quant’è di grazie e di bellezze ornata,
cui nova d’alte donne e non piú usata
pompa ora guida in vista altèra e bella,
    non senza divin nume e provid’ella
d’eroe ben saggio e forte e giusto è nata,
la cui chiara memoria ed onorata
paventa ancor la turba ingiusta e fella.

Or è menata sposa in lieti auspíci
pur ad eroe che sempre in lance eguale
pesa le sante leggi al dubbio fòro.

Ché non, dunque, auguriamo i dí felici
de la lor prole, e, rispiegando l’ale,
che la Vergin ritorni e ’l secol d’oro?

72 ―

XLIV
Sonetti nuziali

Per le nozze di Andrea Coppola duca di Canzano con Laura Caracciolo dei marchesi di Amoroso.

(1725)
1.

Real donzella, che ’l bel nome prende
da l’arbor c’ora in guise istranie e nove
per lei piú strigne Apollo e inchina Giove,
e piú chiaro il suo serto inclito rende;
    or ch’Imeneo dal terzo ciel discende,
il ciel, che gioia e pace in terra piove,
e per far di sua face altre gran prove,
per un pari garzon l’alma l’accende:
    l’alta donna che feo sorga immortale,
e fiorendo fiorí nel mondo onore,
grazia e bellezza e la virtú sublime;
    ella sembra la stessa, o pur l’eguale:
e ’l coro, che di questa orna il valore,
sembra il vate che quella eternò in rime.

3.
Risposta del Vico

A’ miei sudor il ciel non temprò ingiuste, ecc.

73 ―

5.
Risposta del Vico

Spagnuol pregiato, il nostro afflitto ingegno, ecc.

XLV
Componimenti nuziali

Pel matrimonio di Giacomo Francesco Milano Franco d’Aragona principe di Ardore con Enrichetta Caracciolo dei principi di Santobuono.

(1725)
1.

In istranio trofeo Marte ed Amore
vezzose faci ergêro ed armi fère,
lire soavi e ’nsiem trombe guerrere,
che a le pie madri fan téma ed orrore:
    giace su queste sparso il rio furore
di guerra; e ’l vasto di lui tergo altère
premon le Grazie amiche e lusinghere;
scherzi su scherzi il riso e ’l dolce onore.

In cima Imene in gravi atti fastosi,
come trionfator di genti prese,
va, qual in Campidoglio, a sciôrre i voti.

74 ―

Perché col santo amor de’ chiari sposi
le famose degli avi inclite imprese
Marte conservi e aggiunga a’ gran nipoti.

2.

Struxit Mars et Amor trophaei ad instar
et scuta et galeas facesque dulces,
bellantunque tubas, lyrasque amantum
iras, et Veneris iocos et arma,
bellorum furias Cupidinesque;
quae hinc Milanius, hercle flos virorum,
quae hinc Caracciola, magna nae virago,
congessere sua simul, qua ab alta
fulgent progeniti inclytaque gente;
ipsorum et sua contulere in unum.
His cunctis super altus almus Hymen
consedit, referens quasi triumphum:
a Marte egregie data parentum,
educta a tenero haec et ipsa amore,
servata omnia posteris ut addat.

XLVI
Al domenicano Domenico Terragni
Pel quaresimale predicato da lui nel Duomo di Napoli.
(1725)

Non udí Atene mai, non udí Roma
d’alta eloquenza o fulmine o torrente
atterrare o innondar l’unita gente,
e trarla, u’ volle, dietro e vinta e doma:

75 ―
    come, sacro orator, la nostra soma
de’ rei vizi al tuo dir cade repente;
la Fraude, il Lusso, il Fasto e l’Ira ardente
ne van sommersi infin sopra la chioma.

Tu ministri le voglie, e co’ tuoi pesi
libri le menti, e al ciel lor porgi l’ale,
che trïonfa di noi coi nostri affetti.

Sí resteran ne’ ben purgati petti,
com’in lor Campidoglio almo, immortale,
i tuoi detti in trofei fissi e sospesi.

XLVII
Al cardinal Michele Federico d’Althann
Per la sua conferma nel viceregno di Napoli.
(1725)

Giove, de’ regni e regi almo datore,
i suoi sposa ai lor scettri altèri auspíci,
che di natura ancor l’opre felici
vadan loro a fruttar gloria ed onore.

Cerere giá la falce all’acces’ore
appresta per li suoi fervid’ufici
sopra le messi, copïose, altrici
dal gran popol divoto al suo signore.

Pomona, che qui gode autunno eterno,
pur ricco spiega il sen d’ampi tesori,
né Bacco minor premii a noi destina.

Tanti che ’l ciel su noi versa favori,
mentre Augusto ti ferma il suo governo,
non è pur lode tua somma e divina?

76 ―

XLVIII
Primi scambi di versi
tra il Vico e Gherardo degli Angioli
(1725)
2.
Risposta del Vico.

Quell’ardente desio, alto, immortale,
che ti mena per dura ed aspra via,
spirto gentil, ei con la scorta mia
pur dee tarpar le pronte e spedit’ale.

Altro c’onor d’alloro a cui non cale,
mostri incontrare in suo camin desia,
e armar lo dee valor, qual Ercol pria
per fatighe maggiori ad uom mortale.

77 ―

Perciò restrigni al cor la tua virtute;
né sperar di vedere unqua cortese
che al freddo cener tuo l’amata gloria;
    e immagini di eroi dal ciel riprese
síenti, non giá le nostre ime abbattute,
di cui t’arresterá l’egra memoria.

79 ―

LI
Sonetto nuziale
Pel matrimonio di don Gaetano Boncompagni‐Lodovisi duca d’Arce con

Laura Chigi.

(1726)

Del tronco antico, onde uscí ’l buon pastore,
da cui felice fu guardato e retto
per liete alme campagne il gregge eletto,
che sempre udranne un gran dolce romore,

80 ―
    ora un germe novel caldo d’amore
altra piú nobil Laura al saggio petto
in santo nodo marital ha stretto;
e Pane cen promette il certo onore.

Perch’a due madri lattano gli agnelli
le poppe stese dal gravante latte,
quai partorir testé tutte gemelli;
    e dansi in precipizio da’ dirupi,
cacciati da covili e da le fratte,
le razze ingorde de’ digiuni lupi.

81 ―

LIII
In morte di Angela Cimmino
(1727)
1.
Canzonetta.

L’ape ingegnosa,
dal dí che nasce,
solo si pasce
del puro spirto
di timo o mirto,
ligustro o rosa,
o d’altro fiore
che sia l’onore
de’ verdi prati;
e a’ dí assetati
di secca estade,
l’ali s’indora

82 ―
de le ruggiade
di fresca aurora.
Fabbra divina
ne l’officina
de le sincere
sue bionde cere,
che poi piú intatte
del puro latte
ardono in lumi
a’ sommi numi,
dentro la stretta
aurea celletta
fa il bel lavoro
del mèl pur d’oro;
ma poi si scuopre
tutta feroce
contro chi nuoce
le sue dolci opre.
O man profana,
stanne lontana:
ché, s’ella il senta,
suo ago avventa;
e non si cura,
per viver pura,
su la ferita
lasciar la vita.

Donna immortale,
ape tu sei
cara agli dèi,
ma con altr’ale
ch’ergon dal suolo
a chiaro volo
tuo raro ingegno
di lauro degno;
e vai volando,
vai spazïando
per altri prati,
sol passeggiati
da l’alme dive,
lungo le rive
mai sempre amene
de l’Ippocrene.
Quivi, pascendo
gli alti pensieri
de’ bei fior veri,
che mai, perdendo,
non son corrotti
da arsure o notti,
formi i bei favi
dolci e soavi,
onde alimenti
le pure menti.
Arme pur hai,
non per ferire,
ma riverire;
ché insegnar sai
col dolce austero,
grato severo
de le modeste
tue grazie oneste;
ch’austero e dolce
e pugne e molce.
O in mortal velo
ape del cielo!

Ma come, o Dio!
ahi caso rio!
sí di repente,
ne la fiorente
tua primavera,
cangiata in nera
a voi nemica
crudel formica,

83 ―
la Morte fera,
qual picciol angue
atro, letale,
di sotto l’ale
del dilicato
tuo gentil lato,
ti succiò ’l sangue
de la fiorita
tua verde vita?
O me ingannato!
Tu, qui lasciato
il sottil velo,
volasti in cielo.
84 ―

5.
Al giovanetto Giovanni Locatelli.
Iure o quam merito meo dolori
    luges, ter mihi care Lucatelli!
Luges nam merito omnium dolori,
    quorum cor sapit elegans, honestum.
Sat dirum facinus dedere parcae;
    heu parcae nimium invidae malaeque!

85 ―
Parcae, quae male lilium Minervae
    carpserunt niveum tenellulumque;
et mel, Phoebe, avidae tuum vorarunt:

Ciminam egregiam extulere parcae.
Foecundo male corpore aegra nupta,
    quam mente haec fuit at ferax virago!
Hetruscae decus haec erat poësis,
    et graecae decus haec erat sophiae.
Praestans femina, cui placere avebant
    suadae qui celebres viri medullae!
Diae corcula qui viri sophiae!
    Dein, te sine, cui placere avebunt?
Afflictae Charites iacent sepulchro;
    atque inter Charites iacens Minerva
infandum lacrymat ferumque funus:
    moestas quisque suae faci dolensque
extinctae incubat en Cupido, Apollo.
    Insuave, illepidum nimis nimisque,
quin factum miserum satis superque
    musis et sophiae dedere parcae!

LIV
Al magistrato Gennaro Maza
In morte del figlio Marcantonio.
(1727)

Febo, a quai miser’usi hatti pur dato
d’Elicona sí larga e pura vena,
che disacerbi l’aspra e crudel pena
di che ti ha colmo acerbo invido Fato,
    padre infelice? a cui l’inclito nato,
sul bel spiegar l’etá lieta e serena,
di bei fior di speranza altèra e piena,
Morte rapío ed hallo ai piú mandato.

86 ―

E da fresca leggiadra e casta nuora
quando speravi un bambolin nipote,
di Natura il comun voto fie vano.

Le laudi, onde l’adorni, assai ben note
fa il gran suocer, che ’n lutto anco l’onora,
del gran Senato pregio almo e sovrano.

LV
Al padre Francesco Antonio Gervasi
Pel quaresimale predicato da lui nella collegiata di Marigliano.
(1727)

Credéo la Grecia, vanamente altèra,
di Giapeto il figliuol, con volo audace,
che raccendesse l’ammiranda face
al puro foco de l’ardente spera;
    e nel loto de l’uom, che pria tal era
qual il veggiam quand’egli in cener giace,
quella inducesse, che l’avviva e sface,
degli affetti commossa errante schiera.

Ma tu, Gervasi, con celeste ingegno
t’alzi del primo foco al puro lume,
che nel suon di tua voce onoro e ’nchino;
    e ben quindi ritratto il vero e ’l degno
con gli affetti gl’impasti, onde s’allume
dentro l’uom di Prometeo un uom divino.

87 ―

LVI
A Gioacchino Fernández de Portocarrero
viceré interino di Napoli
(1728)
Ab siculis oris ad nostra fasque fidesque,
    aurea quin aetas, te remanente, redit.
Nunc vere haec tellus Bacchi Cererisque theatrum
    vincere ubi certant munera quisque sua.
Quaeque Maroni olim dicta urbs ignobilis otii
    heic tua nunc Syren fortia facta canit.
Teque legente ipsam, Sincerus condit in acta
    versus, queis tenuis fistula dulce sonat.
Teque vidente ipsas, et Statius fundere silvas
    edocet arguta carmina docta lyra.
Te moderante ipsas, redierunt italae Athenae,
    musarum studiis quae fuerant Latio.
Sed voluit Caesar te huic tantum ostendere regno,
    Iupiter ut terris opima opima quaeque solet.

LVII
Componimenti nuziali

Pel matrimonio di Antonio Farnese duca di Parma e Piacenza con Enrichetta d’Este.

(1728)
1.

Di Grecia il Magno per valor guerriero,
quand’Asia il seppe, da lui vinta e doma,
senza premii d’amor posto la soma,
disperse i novi acquisti e ’l grande impero.

88 ―

L’Alessandro latin, che per l’Ibero
su la Mosa e la Senna ornò la chioma
d’allòr cui par non vide o Sparta o Roma,
corona ancor l’augusto ceppo intero;
    e, svelto or un da l’altro inclito ramo,
Italia attende un tanto onore, eterno
da propagarsi in regî fasti al mondo.

Santo Imeneo, te dunque invoco e chiamo:
scendi a noi pieno d’ogni ben superno,
suo grande innesto a far lieto e fecondo.

2.

De’ vostri almi laureti i sacri orrori
spïate, Muse, e tu, gran dio del canto;
e in vecchi tronchi rileggete quanto
gli estensi eroi vi fêr d’incisi onori.
    Or, discesa da tanti e tai maggiori,
l’inclita Enrica in nodo onesto e santo
s’unisce al gran Farnese, e d’ogni canto
Imeneo le due regge orna di fiori.
    Ecco il degno subietto, ov’impieghiate
vostri divini ingegni, e s’oda il suono
di non comuni pregi e laudi vere.
    E sembra a noi tornar la prisca etate,
ché non ad altri le vostr’opre altère
ch’al gran Giove e Giunon sacraste in dono.

3.

S’alzi Italia in alta spene;
due gran cor, che inchino e lodo,
il Farnese in santo nodo
e l’Estense or lega Imene.

89 ―
    E di voglie alme leggiadre,
che son fiamme in ciel accese,
con la face qui discese,
stretto a man con la sua madre.
    Tra le dotte altre sorelle
quella è dessa Urania amica;
ed osserva in fronte a Enrica
in un terzo ciel le stelle.
    Anzi un Sol le osserva in fronte,
che consola le vicine
vaste fiamme, alte rovine
che vi fece un dí Fetonte.
    Sol che ’l corso unqua non erra
di virtú fra mete eterne;
e d’onor fiamme superne
leva il ciel quinci da terra.
    E sta in forse al paragone:
Vener sembra a la beltade;
ma, in mirar la maestade,
simigliar parle Giunone.
    Con lei giunto in guise nòve
al supremo Antonio in volto
sfolgorar vede raccolto
altro piú benigno Giove.
    Sí vedendo in uman velo
de’ celesti i due gran numi,
non distingue il re de’ fiumi
questo in terra e quel del cielo.
    Di Ciprigna il sacro cinto,
ove in bei color vivaci
risi, scherzi, amplessi e baci
ha col dardo Amor dipinto,
    gli attraversa in atto fero
l’omer destro e ’l lato manco;
e, di ferro armando il fianco,
gli accompagna Amor guerriero.
90 ―
    Questo ferro armò la mano
ne le Fiandre al gran Farnese,
ch’è gridato per l’imprese
l’Alessandro italïano.
    Questo è pur quello che Ubaldo,
ben accorto e saggio veglio,
rugginito entro lo speglio
fe’ vedere al gran Rinaldo;
    e, destandogli faville
d’altro amor di lui piú degno,
gli raccese il vago ingegno
per la fé d’esser l’Achille.
    Con tal ferro in Azzon vide
de’ tiranni l’uccisore,
e de’ mostri estirpatore
contra Italia anco il suo Alcide.
    Mille e piú virtú reali
fanno lor pomposa corte,
cui nel mezzo regia sorte
versa doni ampi, immortali.
    Giá s’appressa l’alta coppia
tutta lieta al sacro letto,
vero campo di diletto
a que’ cor che Imene accoppia.
    Qui ’l piacer spiega tesauri
d’oro, gemme, bisso ed ostro,
e ’l piú ricco al secol nostro
s’orna qui di verdi lauri:
    lauri, onor d’imperadori;
lauri, onor di dotti vati:
son da Febo consacrati
pur di Dafne i divi amori.
    Giá Imeneo la face scote,
e giá scocca Amor saette,
le piú fine, le piú elette
che temprâr l’eterne rote.
91 ―
    Da la sponda un Genio augusto
sparge il letto d’amaranti:
quanti fior, di frutti tanti
ne promette farlo onusto.
    Quindi Italia omai confidi,
in nov’ordine di fati
ritornar que’ Mecenati,
Alessandri, Achilli, Alcidi.
    Risudar allor vedrassi
Strada in lingua eterna istorie,
e ’n Po metter nove glorie
coi poëmi Ariosti e Tassi.
    Regî sposi, or fate intanto
guerre in mezzo a fide paci,
ché stordisce il suon de’ baci
de le Muse il chiaro canto.

LVIII
Sotto un ritratto di Lucantonio Porzio
(1728)

Haec tibi ni prodant hominem mortalia membra,
    quis scribat dubites: Portius an Nomius?

LIX
In morte
di Giuseppe Alliata Paruta Colonna
(1729)

Morte, o d’invidia vil ministra e fèra,
per cui fai degli eroi cruda vendetta,
e a’ nomi lor ogni memoria eretta
t’adopri pur che si disperda e pèra:

92 ―
    ma sono corpi in cui di rabbia nera
tu spargi, o rea, la tua falce o saetta;
ve’ s’unquemai la lorda man tu metta
sovra senno, valor e virtú vera!
    Tai rari pregi in mezzo al petto nostro
al gran Giuseppe un sacro templo alzâro,
donde tu star ben déi lunge e profana.
    Qui ritratto in idea somma e sovrana
egli vivranne immortalmente chiaro,
maggior d’ogni piú grande opra d’inchiostro.

LX
In onore
del padre Michelangelo da Reggio
Pel quaresimale predicato da lui nel Duomo di Napoli.
(1729)
1.

Dissipata alma mia tutta al di fuore
e dispersa per sopra i sensi frali,
deh! ti raccogli e vedi i veri mali
di che ti ha colmo il tuo fallace errore.
    Ma di mirar te stessa hai sommo orrore
e ti fuggi de’ van desir su l’ali:
deh! t’ergi con le pure aure immortali,
ch’al ciel s’ispira il gran sacro oratore.
    Vedi che non ti muovi oltre la pelle,
perch’i beni del corpo agogni e brami;
ma ecco chi ’l vigor ti desta al volo.
    Scuoti il tuo fango e t’alza in su le stelle,
ov’ei ti mostra il vero ben, che solo
pigne e fa bello ogni altro ben che s’ami.

93 ―

2.

Angel di Dio che fai le vaneggianti
giá poetiche fole istorie vere
Giove tonante, ch’empie forze altère
atterri in fulminar d’alme giganti,
    Deucalion divino, o quali o quanti,
e Orfeo, disceso a noi da l’alte spere,
e duri sassi e stolte immani fère
in uomini trasformi onesti e santi!
    Tu co’ tuoi pesi libri il nostro cuore,
e quali tu ne dái sentiam gli affetti
pel vero ben, cui sordo è ’l nostro frale.
    Dando allo spirto etereo senso, i petti
ne ’nfiammi di celeste e divo amore
ov’eloquenzia mai tant’alto sale.

3.

Ammirâro giá un tempo Atene e Roma
chiari orator che negli umani petti
machine oprâro di turbati affetti,
per trïonfar dell’altrui voglia doma.
    Tu o voli al ciel con la terrena soma,
o tra noi sceso un degli spirti eletti,
Angel di Dio, fai co’ celesti detti
che la mente d’alloro orni la chioma:
    ed ella sopra un Campidoglio eterno
si meni dietro debellati e presi
ciechi odi, rei timor, vani desiri:
    onde i cuor tersi al puro Amor superno,
d’immensa vera immortal gloria accesi,
varchin dell’etra i spazïosi giri.

94 ―

LXI
A Francesco Borghese
Per la sua promozione al cardinalato.
(luglio 1729)

Pregio sommo e sovran del secol nostro,
in cui con larga man regia fortuna
tutt’i favor, tutte le grazie aduna,
che piovver sparsi da l’eterno chiostro;
    sí chiara virtú infiamma il petto vostro,
che col vulgo non sol non v’accomuna,
ma lieve nebbia pur non la v’imbruna,
sicché recate voi splendore a l’ostro.

95 ―
    De l’augusto sepolcro insin dal fondo
il gran cener di Paolo ecco si scuote,
ecco si scalda, e parla in questi segni:
    — Entra ne’ miei gran fasti, eroe nipote,
rinfranca il merto, e rinnovella al mondo
l’arti di sperte mani e dotti ingegni.
96 ―

LXIV
A Paolo Mattia Doria
(fra il 1730 e il 1740?)

Questi d’alti immortal cigni canori
sí sublimi, soavi, almi concenti,
che molcean sopra i miei sensi dolenti
de l’invida Fortuna i rei furori,
    onde il mio nome pien d’ampi splendori
fia che rifulga a le lontane genti,
son tronchi, che rispose, ultimi accenti,
debil eco di dentro a mesti orrori:
    c’or leggi, o di Sofia pregio sovrano
Doria, e col petto pien d’Urania vera,
colmato hai pur d’onor sommo e divino,
    quando ti ergesti oltre il costume umano
presso a Minerva, in quell’attica sera
che riverente or rimembrando inchino.

97 ―

LXV
In lode d’un versificatore innominato
(fra il 1730 e il 1740?)

Con voi m’allegro, o figlie alme di Giove,
del tempo che magnanime e severe
adornaste di laudi eterne vere
solo rade virtudi eccelse e nove,
    che per uom tal avvien c’or si rinnove,
il qual per via d’onor aspr’erte altère
dietro si lascia le piú elette schiere,
e ’l secolo a bell’opre invita e move.
    Appo cui ogni laude eroica e prima,
ond’immortal poema in grido sale,
divien vostra sincera e casta istoria.
    Né ’l fingete con dir, tralcio reale,
ove regie virtú spiega la gloria,
e sapïenza infiora in su la cima.

LXVI
Per «Ricalba» pastorella arcade
(fra il 1730 e il 1740?)

Un nume io vidi in spoglia di pastore,
che, con aurea sampogna al fianco appesa,
guidava il gregge, e, per vincastro, accesa
face portava di celeste ardore.
    A tai sembianze per ben giusto errore
l’alta immago d’Apollo in me fu appresa,
e, da Anfriso in Arcadia a nuova impresa
passato, far del suo divin furore.

98 ―
    — Ma sono Amor — mi disse: — errasti o quanto!
di Ricalba allo ’ngegno io diedi l’ale;
a serbar l’arco al ciglio, agli occhi i dardi.
    Con tal sampogna io le accompagno il canto,
i sensi accendo a tal foco immortale,
ch’ogni Arcade gentil per lei sempre ardi.

LXVII
Quattro sonetti per monacazione
(fra il 1730 e il 1740?)
1.
Per due innominate.

Due candide colombe a Dio dilette,
ricolme il seno di celeste ardore,
sdegnano il giogo di terreno amore,
che fa de’ presi amabili vendette,
    e con rapido vol sole solette,
puro serbando il lor natío candore,
che produce a beltá sovrano onore,
chiuse si sono in due sacre cellette.

Sí godon quivi d’un divino Sposo,
che d’infinita gioia empie ciascuna,
talché tra loro gelosia non regna.

Santo Amor quivi ha i suo’ bei vezzi ascoso,
quivi sue dolci eterne grazie aduna:
oh quaggiú vita d’angelette degna!

99 ―

2.
Per una Rosa.

Divina Rosa d’un eterno aprile,
che diffondi quaggiú celeste odore,
di cui brama bel fregio ed alto onore
farne al suo petto ogni garzon gentile;
    al tuo Isauro sdegnando, e avendo a vile
spiegar tra frali pompe il tuo splendore,
tutta rivolta al primo sommo Amore,
chiusa ti sei in stretta cella umíle.

Sprezzando e bissi e gemme ed ostro ed oro,
involta dentro rozze oscure lane,
armi cosí di spine il nobil stelo.

Sotto gran povertade o bel tesoro!
Lungi quindi occhi non che man profane:
questa è beltá che sol vagheggia il Cielo.

3.
Per una Bennata.

O leggiadra, gentil, casta donzella,
pur troppo ti convien nome Bennata,
ché, a lo Sposo divin diletta e grata,
corri a goderlo entro pudica cella.
    Non mai cosí cerva leggiera e snella
per conservar la libertade innata,
correndo verso la sua tana amata,
fugge la pania insidïosa e fella;
    come del cieco, guasto mondo e frale
da’ lusinghieri lacci ora t’involi
in braccio a pura solitaria vita!
    Quivi un’alba godrai sempre gradita,
né ti corromperanno i caldi soli,
in celeste giardin rosa immortale.

100 ―

4.
Per un’innominata.

Vaga colomba, che con spedit’ale,
ne la leggiadra soma, a l’erte cime
di celeste virtú t’alzi sublime
u’ nero turbo ad oscurar non sale:
    sue false gioie t’offre il senso frale,
che tu disprezzi qual caduche ed ime;
e quelle sole agogni elette e prime,
che sole largir può Ben immortale;
    e chiusa in rozze lane e fosco velo,
dentro romita e solitaria cella
sdegni palaggi e gemme ed oro ed ostro,
    perché nascosa entro sacrato chiostro,
al tuo sposo divin sola sii bella,
e con le stelle ti vagheggi il Cielo.

LXVIII
Tre sonetti nuziali
(fra il 1730 e il 1740?)
1.
Per nozze d’un Riario con una dama romana.

Venere, mentre a le sue Grazie unita
sparge del Tebro in riva allori e rose,
tragg’ei fuor de l’antiche onde famose
il capo augusto ch’a onorarsi invita.

E scorge in lunga pompa alma e gradita
alte donne latine irne fastose
a comiatar donzella in cui compose
il Ciel quanto mai bea l’umana vita,

101 ―
    che va nel sen de la gentil Sirena
sposa al Riario giovinetto eroe,
e una gentil invidia ha del Sebeto;
    e ne canta le sorti a suon d’avena:
nasceran germi di sí nodo lieto,
chiari da Esperia a le contrade eoe.

2.
Per quelle di innominati.

Febo, o gran nume del divin furore,
ecco sei pur tornato a’ primi tempi,
che rendevi dal fondo a’ sacri tempî
le liete sorti al coniugale amore:
    poiché non piú regal grazia o favore,
di che pur vivon verdi i grandi esempi,
tenti or coi carmi, onde i tuoi voti adempi,
questo sol t’è rimaso ultimo onore.

Dunque, perché non fia Marsia sfacciato
che riporti sul tuo divino canto
indegnamente alta vittoria e palme,
    cantiam di queste due liete bell’alme
il bel nodo gentile, onesto e santo,
ch’ordí mill’etá innanzi in cielo il Fato.

3.
Per quelle di altri innominati.

Del santo Amor che l’universo informa,
ed ogni pravo amor rattempra e calma,
piovver due parti in voi di fiamma in forma,
e si annidâro nel piú bel dell’alma;

102 ―
    e mentre una nell’altra si trasforma,
i cuor giungendo, or che voi palma a palma
strignete, un sol voler d’ambo si forma,
che ha suo regno diviso in doppia salma.

Sí vedrá ’l mondo sfolgorar da voi
luce, fin dove il sole a noi si fura,
e donde porta il nuovo giorno a noi:
    e fia che splenda ognor piú ardente e pura
per quei che nasceranno incliti eroi
in mezzo all’ombre dell’etá futura.

LXIX
Complimenti poetici
(fra il 1730 e il 1740?)

103 ―

2.
Risposta del Vico.

Col tuo d’ogni mortal scevro pensiero,
ch’al ciel t’innalza lieve, e dall’insana
stolta turba ti parte e t’allontana,
in cui sdegna Virtude aver l’impero,
    unito al puro Primo Eterno Vero,
ne la cui luce in guisa altèra e strana
può ravvisarsi in nostra mente umana,
e qua giú scorger dritto il suo sentiero,
    ivi spaziando, fa che ti sia mostro,
Cimin laudato, onde ne vada onusta
nostra impresa d’onor sommo e sovrano:
    e dentro l’ombre de l’etá vetusta
incontro al cieco inganno e a l’error vano
il cammin regga il fosco ingegno nostro.

104 ―

4.
Risposta del Vico.

Quella pura, immortal, immensa luce,
che ’n nostra mente d’atre nebbie ingombra,
di terren cieco error dilegua ogni ombra,
e come in terso speglio il ver v’adduce.
    Gentil Francesco, a la tua musa sgombra
di bassi affetti ella è ’l gran Febo, e duce,
c’al mio lavor, c’unqua per sé non luce,
di tue laudi sovrane i lumi adombra.
    Quindi in me bel desio si desta e cresce,
perch’io giunga col merto, ove si eleva
tuo ’ngegno sopra il piú seren ciel tósco.
    L’Invidia, a cui ogni bell’opra incresce,
tranguggerebbe il suo medesmo tòsco,
che sopra noi le grinze creste or leva.

108 ―

LXXVI
Al padre Giovanni Agostino Tolotti

Pel quaresimale da lui predicato nella chiesa napoletana di San Paolo Maggiore.

(1731)

Grecia lieve credéo per lungo errore
che di Giapeto in prima il figlio audace
volò nel cielo, e accese al sol la face,
onde informò dell’uman loto il cuore;
    e ch’indi van desire e van timore
ed invidia ch’addugge, e amor che sface,
e ’nsieme pazza gioia e cura edace
il mondo empiêr di lutto e di dolore.

Ma tu, chiaro Tolotti, al vero Sole
ergesti dritto il cuor, pura la mente,
onde tua lingua è una celeste fiamma
    che nel suo fango la sepolta gente,
con sublimi, infocate, alme parole,
a divine virtú desta ed infiamma.

109 ―

LXXVIII
In morte di Anna Maria Caterina Doria
(1732)
1.
A Nicola Salerno, vedovo della defunta.

Mio dolente Salerni, hai tu ben onde
bagni di largo pianto il viso e ’l petto,
se quella, a cui con santo nodo stretto
lieto vivevi, freddo marmo asconde:
    che fea ridenti a questo lido l’onde,
spirava a questi colli almo diletto
col parlar saggio e col leggiadro aspetto,
e ’ngemmava al Sebeto ambe le sponde.

110 ―
    Poiché tanta tua gioia è giunta a riva,
dritt’è ch’or tessi a lei tra doglia e pianto
di mirti in Pindo còlti eterno serto.
    Che se l’immago si serbasse viva,
ognun direbbe il tuo sublime canto
risonar di gran lunga infra il suo merto.
111 ―

LXXX
Sonetti nuziali

Pel matrimonio di Vinciguerra Rambaldo conte di Collalto con Antonia de Silva dei conti di Montesanto.

(1733)
1.
A Gaetano Maria Brancone.

Deh! qual poss’io, ne’ miei strazi infelici,
pien d’anni e cure, o mio gentil Brancone,
cantar mai, d’altri cigni al paragone,
di Rambaldo e di Silva i fausti auspíci?
    A liete alme e tranquille i dí felici
d’entro il cupo futuro Apollo espone,
né debbe d’Imeneo tesser canzone
cui non sia ’l ciel benigno e gli astri amici.

112 ―
    Ben tu, in cotesta etá ferma e serena,
accendi ’l petto d’apollineo foco,
onde s’apra la mente e grande e chiara.
    E canta, in suon che rende ogni altro roco,
qual prole il marital nodo rimena
per virtú ed opre al mondo illustre e rara.
113 ―

LXXXII
In morte d’un alto magistrato cesareo
(certamente Roberto d’Almarz, giá consigliere del Sacro Real Consiglio in Napoli, indi reggente del Consiglio di Spagna in Vienna).

(dopo l’aprile 1731 e prima del 1734)

Eheu! Dalmarsus, summi pars magna Senatus,
    fatis concessit, gloria nostra fori.
Qui non mutatus, non est convulsus honore;
    qualis privatus, talis in imperio.
Non alter iuris custos servantior aequi;
    non alter vitae sanctior officiis.
Novit Parthenope, novit Trinacria, novit
    urbs, et ubi Austriadis nobilis aula nitet.
Ast ope divina qui ingentia damna rependas,
    digne nepos, Caesar, candida spes, superas.
Qui quidque egregia promittis laude refertum,
    rarus, praeclarus indole et ingenio.
Undique honesta domus virtutum spirat honesta,
    atque afflat Musas undique docta domus.
Grassare ergo, puer, qua te via ducit honorum,
    Dalmarsum nobis et cito redde tuum.

LXXXIII
A Carlo di Borbone
Per la sua riconquista del Regno di Napoli.
(1734)

Di sommi imperadori e regi augusti,
onde d’incliti fatti e glorïosi
la Senna, il Tago, il Po corron famosi
da’ piú lontani secoli vetusti,

114 ―
    da’ freddi Sciti ai Mauritani adusti
per chiari pregi, che non mai fien rosi
del Tempo rio da’ neri denti annosi
che fanno in brani archi, colonne e busti,
    generoso rampollo, in sí ridente
de’ tuoi verdi anni e tenera stagione,
guidi e comandi memorande imprese;
    che fia in robusta etá, poiché tua mente
rami onusti di palme e di corone
dal tuo gran core al ciel larghi distese?

LXXXIV
Distici nuziali

Pel matrimonio di Luigi Sanseverino principe di Bisignano con Cornelia Capece Galeota principe di Santangelo

(1734)

Quidnam saeva sedens Martis super arma Hymenaeus
    caelesti iactat fultus Amore facem?
Bellica speratur taeda hac Cornelia mater,
    inclyte quae, Lodoix, te nova nupta legit.

115 ―

LXXXVI
All’agostiniano Giacomo Filippo Gatti

Pel quaresimale predicato nella chiesa dello Spirito Santo di Napoli, e, piú particolarmente, per la predica della grazia, replicata a richiesta di molti letterati.

(1735)

Nel piú puro, sublime, empireo chiostro
divampa in mezzo de’ beati cori
eterno fonte d’immortali ardori,
che discolora e gemme ed oro ed ostro.
    Indi chiaro da te ci vien dimostro
che tra i nostri a ben far egri languori
ne scende soave forza entro de’ cori,
tal che ’l divin voler sia voler nostro.
    Quindi noi tutti nova voglia assale
aperto udir da te l’arcan superno,
che l’umana ragion umíle inchina.
    Onde tua voce è ’l Campidoglio eterno,
ove spiega sue pompe la divina
grazia vittorïosa e trïonfale.

LXXXVII
A Carlo di Borbone
(1735)
1.

O qual te vide vincitor guerriero
il Sebeto, gran re, di lauri cinto!
Vide altr’ordin di fati in ciel distinto
ond’ergerá sui fiumi il capo altèro.

116 ―
    Vide in te da la Senna e da l’Ibero
ritornar altri Carli, e magno e quinto;
dal Po Alesandro, da cui ’n glorie vinto
fia quel che sottomise il perso impero.
    Vide tornar da l’Arno il tosco Augusto,
il gran Lorenzo, il padre de le muse,
che saliranno liete al prisco onore!
    Vide tanto splendor nuovo e vetusto,
ch’altro italico sangue in te confuse
la patria mia, che t’adorò col core.

2.

La patria mia, che t’adorò col core
al primo suon del tuo gran nome augusto,
lieta ella disse: — Ecco il possente e giusto,
da me giá sospirato, almo signore.
    Vieni a’ trionfi omai, germe ed onore
d’eroi, e di quel tronco alto e vetusto;
ricco di palme in ogni tempo e onusto,
spegni degli empi mostri ’l rio furore. —
    Ed or che del sovrano antico pregio,
dopo sí lunga etá, si vede adorna
tua pietá, sua ventura è sol tuo merto:
    — Cresci — dice — alle glorie, e fregio a fregio
addoppi ’l Ciel, se ’l Ciel, ch’ognor piú t’orna,
cinse sul capo tuo il real serto.

117 ―

LXXXVIII Pel ritorno di Carlo di Borbone dalla Sicilia
(recitato nell’Accademia degli Investiganti il 31 luglio 1735)

Con mano al re quelle gran vie far note
che menano del mondo oltre le mura,
ove l’alto confin pose natura
tra le cose mutabili ed immote.
    Studia eroica virtú, la qual è cote
essa a se stessa, e la cui luce pura
ogni cosa mortal adombra e oscura,
ove col suo divin raggio percote;
    ch’ei mentre acquista ampie provincie e regni,
gli siede ella in trïonfo in seno ascosa,
e d’ogni sua grandezza il fa maggiore.
    Quivi trae vinti Orgoglio, Ire ed Isdegni,
ella con alta pace entro il gran core
ve’ ne’ fati per lui ch’unque non posa.

LXXXIX
In onore di Sant’Agostino
(recitato il 31 agosto 1735 nell’Accademia degli Oziosi,
che aveva per protettore il Santo)

Il duce valoroso, astuto e fero
che, di sangue e spavento in Canne armato,
differí di portar l’ultimo fato
del Roman rotto al vacillante impero;
    e di Cartago sopra il lido altèro
l’ampia reggia del mondo aría fondato;
de la sua patria alfin con ciglio irato
vide il cener superbo afflitto e nero.

118 ―
    Altre maggior vittorie il nume eterno
a l’Africa serbò contro di Roma,
su le quali non val tempo né obblio.
    Questa crebbe in immenso, e poi fu doma
del mio Agostino dal saper superno
che vi spiegò l’alma cittá di Dio.

XC
Sonetti nuziali

Pel matrimonio di Raimondo di Sangro principe di Sansevero con Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona dei duchi di Laurenzana.

(1735)

2.
Alla signora Guglielmina Merode, madre della sposa.

Alta stirpe d’eroi, onde famoso
il batavo Lïon siede sul mare,
che con nuove virtú sublimi e rare
accresci pregi al regal ceppo annoso,
    da’ tuoi cari complessi a regio sposo,
del sangue che d’Italia illustri e chiare
ha fatto l’armi, or vedi lungi andare
il tuo vago gentil pegno amoroso.

119 ―
    Soffri con alto cuor la sua partita,
ché con benigne stelle il fato lieto
dispensò giuste tai veci leggiadre.
    O Giustizia a la terra e al ciel gradita!
Tu togliesti al Sebeto il chiaro padre,
e la gran figlia rendi or al Sebeto.

XCI
Sonetti nuziali
Pel matrimonio di Antonio Capece‐Minutolo con Teresa Filangieri.
(1735)
1.

O al mondo istrania, nova, altèra mostra!
le vaghe chiome inanellate e bionde
Vener entro l’acciar chiude e nasconde,
cui ’l cimiero di rose infiora e innostra.

Con spada al fianco, che, se mai gliel mostra,
il latte ben d’assai vince e confonde;
splende sul pomo la sua stella, donde
piove piacer quaggiú la terza chiostra.
    Ella presiede alla festosa e lieta
pompa, con cui la Filingiera diva
a Minutolo eroe conduce Imene.
    Con dolci canti le gentil sirene
fan risonare la sebezia riva,
quai l’onda ascolta mormorando cheta.

2.

Di due semi del ciel gentil innesto,
ti aspiri sempre fresca aura feconda;
te irrighi alma rugiada o limpid’onda,
né torbid’Austro mai ti sia molesto:

120 ―
    lungi da te si sciolga il gielo infesto,
e ’l bel Sebeto da la verde sponda
inclini umíl la tua onorata fronda,
e ’n tua custodia Pan stia sempre desto.
    Quai da te spunteran soavi fiori
ne’ dolci e cari pargoletti figli,
che lieti e gai ti scherzeranno intorno;
    che produrran maturi frutti un giorno,
che dia la lor virtú ch’a te somigli,
Minutol indi e Filingieri onori!

XCII
A Domenico Barone marchese di Liveri

Per la rappresentazione nel Palazzo reale di Napoli della sua commedia intitolata La contessa.

(ultimi giorni del 1735)

Di guardar tu ne dái l’util piacere
de la vita privata i vari eventi,
amor, tèma, speranze, ire e contenti,
finte cosí che sembran cose vere.
    Per cui van sí le greche Muse altère
che ne sdegnan del Lazio anco i cimenti,
il difficil lavoro innalzar tenti,
onde il bell’Arno miglior fato spere.
    Quindi drappello di gentili spirti
di riva in riva al gran fiume sacrato,
che versa l’acque del divin furore;
    per somma laude ed immortal onore
or al tuo nome, d’alto pregio ornato,
ghirlande intesse d’odorosi mirti.

121 ―

XCIV
Ad Alvise Giovanni Mocenigo
Per la sua presa di possesso della carica di procuratore di San Marco
    per merito.

(1737)

O regale sovran Lïone alato,
ch’un piè sull’Adria hai fermo ed altro in terra,
e ’l cui gran cuor tanto valor disserra
che degl’imperi hai vinto il comun fato;
    il tuo di tanti re almo Senato,
che ne’ sagri consigli unqua non erra,
e tempra cosí saggio e pace e guerra,
c’ha in Europa l’Italia inclito Stato:
    de’ Mocenighi eroi, che riportâro
dentro l’ordine amplissimo regnante
mai sempre grandi e spesso i sommi onori,
    a Giován, colmo d’alto merto e raro,
e che va ognor a scelte lodi innante,
ha commesso i tuoi divi ampi tesori.

122 ―

XCV
Per le nozze del re Carlo di Borbone
con Maria Amalia di Valburgo
(maggio 1738 e mesi seguenti)
2.
Risposta del Vico.

Non è giá del mio ottuso e rozzo stile,
di mia palustre penna e oscuro inchiostro
lodar quella ch’onora il secol nostro,
sopra il sesso e l’etá saggia e virile,

123 ―
    e con un sol regale atto gentile
vince di pregio e gemme ed auro ed ostro;
ma degn’opra egli è ben del valor vostro,
onde il Fato vi die’ nome simíle.
    Da divino furore acceso il seno,
cantate ancor, che ’l Cielo al re sovrano
serbò il suo bel diletto onesto e santo.
    E avvereransi i nostri augúri appieno:
ch’indi avrá prole sí felice e tanto,
ch’userá mente greca e cuor romano.

3.

Stese l’Italia il suo famoso impero
da’ regni de l’Aurora a l’Occidente,
e vi rinchiuse anco il Numida nero,
ma arrestò l’armi in riva a l’Istro algente.
    Ora è surto in Italia un rege altèro,
il cui gran ceppo su la Franca gente
regna, e ’l gran padre sopra il grave Ibero,
e tien tra’ ceppi l’Africano ardente.
    E diva sposa dal gelato polo
altri aiuti or gli porta in dolce teda,
che a l’Asia fia l’altra funesta face.
    O gran germe d’Enea, gli sgombra il duolo,
e con navi e cavalli al fiero Trace
cerca ritôr la grande ingiusta preda.

4.

All’architetto Ferdinando Sanfelice per la macchina volgarmente detta Fiera, da lui elevata nel largo del Castello di Napoli, in occasione delle nozze anzidette.

Con sue ampie alte moli e sterminate
di palaggi, obelischi e torri e tempî,
d’immense regie forze ultimi esempi,
fece Menfi stupir la prisca etate.

124 ―
    Tu, con lodi d’ingegno al mondo or nate,
divin Fernando, in breve spazio n’empi
la vasta maraviglia, e i nostri tempi
orni di nòve glorie alme e pregiate.
    Che a un tratto ergesti l’ammirabil opra,
ove al bisogno ed al piacer umano
fan di sé copia la Natura e l’Arte.
    Sí ben ella s’intende in ogni parte,
che della rara idea l’onor sovrano
non fia che ’l tempo unqua d’obblio ricopra.

XCVI
Alla Vergine Addolorata

Per la cerimonia sacra celebrata dal presidente Di Franco nella sua cappella pubblica nella strada di Foria.

(1738)

Vergine Madre, sconsolata e trista,
ch’egra languisci a piè del crudo legno,
che tien trafitto in vergognosa vista
Chi di gloria beata ha in cielo il regno,
    di tal, ch’ora ti affanna e ti contrista,
fiero crudele aspro supplizio indegno
cagion è la mia colpa a l’error mista
del prim’uom che fe’ rio l’umano ingegno.

La mia superbia il coronò di spine,
la mia avarizia gl’inchiovò le mani,
mie voglie impure a lui raprîro il petto.
    Tu m’impetra or da lui grazie divine
perché il corrotto cor mi purghi e sani,
e ’n lui sia senza fine il mio diletto.

125 ―

XCVIII
Sonetto nuziale

Pel matrimonio di Girolamo Pignatelli principe di Marsiconuovo con Francesca Pignatelli dei duchi di Monteleone.

(1739)

Sommo genio sovran d’eroi famosi,
il casto letto da le ricche sponde,
ove accoglier dovrai gl’incliti sposi,
spargi di trïonfale augusta fronde.

126 ―
    Tutti indora il Sebeto i crini algosi,
Partenope di perle ingemma l’onde,
Flora e Pomona il piano e i colli ombrosi
par che de’ doni suoi ciascuna inonde.
    Però, ministro eletto a la nuov’opra,
fingi forme gentili, oneste e belle,
c’hanno a produr la generosa prole:
    guarda Venere, Giove e l’altre stelle,
che versan rade grazie e al mondo sole,
e virtú che l’obblio unqua non copra.

XCIX
Sonetto nuziale

Pel matrimonio di Michele Imperiali principe di Francavilla con Eleonora Borghese.

(1740)

O bel trïonfo, a cui rado favore
da’ benigni astri suoi rovescia il Cielo,
che due sposi real con l’aureo telo
mena conquisi nel suo regno Amore!
    Siede al governo bel desio d’onore,
c’ha sol di ben oprar fervente zelo;
vestito di sottil candido velo,
tal ch’ogni suo pensier traluce fuore.
    Ovunque passa il nobil carro, il suolo
s’ingemma e innostra, il sol piú chiaro splende,
e riso e gioia la dolce aura spira.
    Quali famosi eroi l’Italia attende
da l’alta coppia, che lodando ammira,
ch’empian di fama e l’uno e l’altro polo!

127 ―

C
A Lorenzo Brunasso
In morte del padre di lui, Giuseppe duca di San Filippo.
(1740)

A le Muse ed Astrea diletto e caro,
gentil Lorenzo, omai lenisci il duolo
del tuo buon genitor, c’ha posto al suolo
la spoglia, dritto fral del Tempo avaro:
    perché lo spirto di gran merto e raro
per pietá de la patria alzato è a volo
lieve e spedito a lo stellato polo,
ov’eterno rifulge inclito e chiaro.
    Questo degno di te saggio pensiero
ti volga ad onorar la sua memoria,
piú tosto che desiderarlo in vano;
    e questo va sovra d’ogni altro altèro,
pietoso affetto veramente umano,
lieto goder de la paterna gloria.

CI
Per la biblioteca del principe di Tarsia
(dopo il 1740?)

Heic Iovis e cerebro quae in caelo est nata Minerva,
    digna Iove in terris aurea tecta colit.

128 ―

CII
Per l’Immacolata Concezione della Vergine
(recitato l’8 decembre 1742 nella chiesa napoletana
di Santa Maria della Veritá degli agostiniani scalzi)

Io, miser uomo, sospirando chiamo
te, Vergin santa, immacolata e pura,
insino al fin mi sii scorta sicura
nel fido porto ch’io sospiro e bramo.
    Tu sola fosti il benedetto ramo
di quanti mai l’umana egra natura
germogliò al mondo carchi di sciagura,
che vi produsse il comun ceppo, Adamo.
    L’universal naufragio tutte assorte
avea le genti sparse per la terra,
ch’erano nel peccato ingenerate:
    tu, tra tutte le donne al mondo nate,
ottenesti da Lui, che mai non erra,
ristoro e scampo da sí trista sorte.

CIII
In morte di Orazio Pacifico
tra gli arcadi Criteo Chilonio
(1743)

Febo ha smarrite le sue chiome bionde,
languiscon de le selve i verdi onori,
cadono secchi i rigogliosi fiori,
e inaridite l’erbe in su le sponde;

129 ―
    vanno giú pe’ ruscei torbide l’onde,
né liete muovon l’aure i lor favori;
Dorinda, Silvia, Aglaure, Egle e Licori
giacciono meste in su le smorte fronde,
    ed a’ cipressi han le sampogne appese;
né per l’Arcadia, dove l’occhio giri,
imagin s’offron che di mesto duolo.
    In questo d’amaranti asperso suolo,
che dal pian rilevato alquanto miri,
il buon Criteo la mortal spoglia rese.
159 ―

Scritti di Scuola

I. Institutiones Oratoriae

I
INSTITUTIONES ORATORIAE

a) Redazione del 1711

1.
De natura rhetoricae.

Rhetorica sive eloquentia est facultas dicendi apposite ad persuadendum. «Facultas», inquam, quia ad eam instructi «faciliter dicunt». «Dicere» autem est optimis sententiis verbisque laetissimis, iisque intra certos ambitus apte collocatis et in aurium iucunditatem compositis, eloqui.

Non temere dictum illud: «ad persuadendum apposite». Nam ita oratoris officium est ut omnia consilia eo dirigat et intendat ut persuadeat dictione: quemadmodum medici officium est ut sanet, imperatoris ut vincat. At, si eum non assequatur finem, suumque officium fecerit tamen, non est, quod industriae erat, fortunae imputandum. Persuasio enim, ut sanitas, ut victoria, non est in dictione fortunae. Idque adeo magis persuasio quam sanitas, quam victoria: quia sanantur, vincuntur corpora quae domare vi possis; oratori autem cum auditorum voluntate res est, quae nisi uni Deo, voluntatum inclinatori, victa cedit. Persuadere enim est inducere in auditorem animum orationi conformem, hoc est ut auditor velit quae oratio proponit. Quod si orator assequatur, iam virtutem industriae operis felicitas comitatur.

160 ―

2.
De partibus officii oratorii. 3.
De materia rhetoricae. 4.
De eloquentiae adiumentis.

Hoc est facultas de quavis re proposita ornate copioseque dicendi: natura, arte et exercitatione comparatur. Ad quamque enim rem natura nos incipit, ars dirigit, exercitatio perficit. Natura autem beata est, ars misera, exercitatio et improbus labor invicti.

161 ―

5.
Naturae adiumenta. 6.
De civili institutione futuri oratoris. 7.
De institutione literaria rhetoricae parasceva.

His, quae diximus, naturae praesidiis munitus, adolescens, antequam artis comparet adiumenta, literis ad eam necessariis instituatur: ne prave faciet ut qui aedificium designat antequam solum tignumque comparavit. Et principio non est ut eum grammatica arte probe eruditum moneam: ridiculum enim est ut qui nesciunt loqui studeant eloqui. Geometriam autem per formas ediscat, ut, una opera, et artem disponendi acquirat, et ipsius phantasiae ope, qua pueri plurimum valent, assuescat vera conficere. Nam methodum geometricam in orationem civilem importare tantumdem est quantum tollere de humanis rebus libidinem, temeritatem, occasionem, fortunam; nihil acutum in orationem admittere, nec nisi ante pedes posita commonstrare; auditoribus, tamquam discipulis, nihil, nisi praemansum in os, ingerere; et, ut uno verbo complectar, in

162 ―
concione pro oratore doctorem agere. Aritmeticam vero doceatur magis ut ne ignoret quam ut sciat. Numerorum enim tenuissima scientia est; et tenuia eloquentiae noxia, cuius corpus curari oportet ut sit solidum et niteat thoris, et succi plenum sano colore fulgeat. Quod autem ad philosophiam attinet, ut olim nec epicureorum nec stoicorum doctrina eloquentiae utilis erat — quod epicurei nuda ac simplici rerum expositione contenti erant; stoici autem, nimia subtilitatis affectione, quidquid est in oratione, ipsoque spiritu generosius frangebant concidebantque, et, omni excepto succo, ossa ne arctuata quidem denudabant; — ita hodie nec carthesiana, nec nostri temporis aristotelea rebus oratoriis plurimum confert: hi, qua inornati et inconditi; illi, qua ieiuni, sicci aridique, ut ego existimem, quando lingua latina nobis excultissima est, eloquentiam nostrorum temporum vitium a rebus ipsis contrahere, eamque ex hac potissimum causa corruptam esse, quod res philosophicae sine ullo nitore, sine ullo ornatu copiaque tradantur. Sed, cum philosophia sit rhetoricae instrumentum maxime necessarium, alibi consilium quaesivi quo pacto hoc nostrae studiorum rationis incommodum emendaretur. Et musica, quae «practica» dicitur, puerum imbutum velim, ut harmonicas conformet aures, quae de numeris sive poëticis sive oratoriis iudicant; atque adeo fastidio magis quam ratione. Tandem, si sors ferat ut quis nobis detur praeclarus scenae artifex, uti Roscium Cicero nactus est, iuvat ab eo puerum, plurium actu fabularum, actionis addiscat dignitatem.

8.
Artis praesidia.

163 ―

9.
De inventione. 10.
De argumentis docentibus. 11.
De arte topica. 12.
Exempla locorum.

164 ―

13.
Formulae proponendi exempla. 14.
Formulae proponendi testimonia.

165 ―

15.
De locis argumentorum conciliantium. 16.
De locis commoventium argumentorum. 17.
De locis argumentorum tribus generibus
causarum communibus. 18.
De genere demonstrativo.

166 ―

19.
De genere deliberativo. 20.
De genere iudiciali.

167 ―

21.
De locorum delectu sive de critica. 22.
De dispositione. 23.
De exordio.

168 ―

24.
De narratione. 25.
De digressione. 26.
De propositione. 27.
De partitione.

169 ―

28.
De confirmatione. 29.
De amplificatione.

170 ―

30.
De confutatione.


31.
De peroratione.


32.
De eloquutione. 33.
De elegantia latini sermonis.

Latinitas est observatio incorrupte loquendi romano usu. Quapropter ea non tantum grammaticis praeceptionibus paratur quantum bonorum scriptorum lectione. Praeclarum enim et verum est illud Quintiliani dictum: «Aliud est grammatice, aliud latine loqui». Possis quidem iuxta grammaticorum regulas loqui, non latine tamen. Quin immo grammatici

171 ―
construunt quae latini invertunt, hi omittunt quae illi supplent, illi detrahunt quae ab his adduntur, postremo grammatici student ut oratio recta sit, latini ut elegans. Afferat lucem dictis exemplum. Latine loquitur Simo terentianus:

Vos isthaec intro auferte: abite: Sosia,
Adesdum: paucis te volo.

Grammaticus ad fastidium usque et odium haec ipsa ita enarraret: «O servi, vos auferte isthaec negotia intro, et vos abite iter hinc. O Sosia, tu ades hic: nam ego volo alloqui tecum paucis verbis». Videtis in hac grammaticorum oratione omnem terentiani sermonis sive latinae elegantiae venerem diffugisse, et verbis inutilibus et lassas aures onerantibus sententiam impediri, quae latina brevitate iam facilis captu erat; et particulam illam «dum» detrahi, quae genium latinae linguae exprimebat cum volumus cum gratia imperium mitigare.

Habet igitur, ut quaevis alia lingua, ita et latina nativam quandam venerem, quam peregrini, etsi inter cives diu versati, difficile assequi possunt. Quapropter Asinius Pollio quamdam Livio patavinitatem exprobabat, quam nos vix quidem sentimus. Quanto igitur difficilius nobis est opus hanc sermonis venerem assequi, cum latina lingua prorsus intermortua sit? Quapropter enitendum ut quam minime de formulis loquendi romanis cadamus, quas boni eius linguae scriptores nobis praescripserunt.

Sed haec observanda: ut latini in loquendo videamur. At elegantia latini sermonis praestat ut delectis verbis, quae per elegantiorum urbis alumnorum versabantur ora, et concinno nexu aptis atque urbana pronunciandi ratione, ita sermonem fundamus ut non solum pro romano cive probemus, sed romanis civibus elegantiores videamur.

Hinc tres elegantiae latinae partes: prima delectus latinorum verborum; secunda latina eorumdem collatio; tertia recta pronunciatio.

172 ―

Delectum verborum eloquentissimus Caesar omnis eloquentiae fontem esse dictitabat. Deliguntur autem verba triplici ratione: nempe ortus, significationis et usus. Ab ortu verba alia latina sunt, alia barbara: nam de graecis non est ut sermonem faciamus. Latina verba alia sunt nativa, alia latinitate donata. Latina verba nativa sunt quae in Latio nata atque alio linguae aevo viguerunt.

34.
De latinae linguae aetatibus.

Latinae linguae vita ad humanae exemplum est comparata, ut ei et sua esset infantia, adolescentia, virilis aetas, senectus et senium.

Infantia latinae linguae fuit ab Urbe condita usque ad Pyrrhi tempora: cuius vestigia extant in fragmentis legis duodecim tabularum, ex quibus arguas latinam linguam principio fuisse rusticanam et horridam, ut illa probant «aulai», «pictai», «capteivei», «coius,» «ioustitia», «flauros», «hic servos», «hunc servom», «volt», «voster», «maxumus», «optumus», «amaxit», «amaxo», «dicundum», «faciundum», «amarier», «amassere», et alia eiusmodi. Et merito quidem: nam principio Romani in nulla alia re quam militari et rustica versabantur.

Adolescentia linguae est a Pyrrhi temporibus usque ad Syllae: qua aetate coeperunt Romani a Graecis litteras ediscere, et atticum mel in Latium transvehere, et optimi scriptores extiterunt, in quibus videas quidem ipsum aetatis florem, et in aliis lutulentum adhuc, ut in Ennio, in aliis horrentem paululum, ut in Catone, in aliis luxuriantem, ut in Plauto, in aliis cultissimum, ut in Terentio.

Virilis aetas viguit Iulii Caesaris et Octavii Augusti temporibus, quae dicitur «aureum linguae saeculum», quo Romani cum Graecis tum eloquentiae, tum sapientiae studiis contenderunt: ut in summa maximi imperii potentia linguae robur

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firmatum sit. Eam enim hoc aevo excoluerunt Varro doctissimus, elegantissimus Caesar, facundissimus Cicero, vehemens Sallustius, lacteus Livius, nitens Lucretius, sublimis Virgilius, Horatius, in lyricis novus, in sermonibus, epistolis et Arte purus, facilis Ovidius, cultus Tibullus, Graecis gaudens Propertius ac plenissimus elegantiarum Catullus.

Decrescenti aetati initium fecit Tiberius Caesar, qui, cum brevi dicendi genere delectaretur, et, oppressa libertate, cives romani, partim ob adulationem, partim ob metum, recta animi sensa invertere et acria hebetare conarentur, improprium et obscurum sermonis genus invaluit. Sed maxime accesserunt ad Ciceronem Quintilianus, ad Sallustium Tacitus, ad Livium Quintus Curtius. Arbiter Petronius, lautitiarum munditiarumque et vitae et sermonis arbiter. Elegantissimi, ut in ea aetate, ex historicis est Svetonius, ex poëtis Iuvenalis. Sed in verbis momentosissimus Tacitus, quamquam in sententiis proprius. Apuleius autem quodam scribendi genere facto usus est, iucundo tamen. Tres autem Senecae, philosophus, rhetor, poëta, sententiis magis quam locutione commendantur. Eiusdem census est Plinius nepos: Lucanus autem tumet, Statius noster audet, Martialis saepe abutitur lingua, Persius se sua caliginosa poësi involvit.

Hanc aetatem terminat Hadrianus, a quo linguae senium ad Theodoricum usque tractum est; quo Latium, provincialibus undique hominibus celebratum, quod imperatores romani ex provinciis etiam creari coeperunt, deinde, cum invasum esset a barbaris nationibus, bonarum studia litterarum aut a nemine aut a paucis excolebantur: itaque lingua semibarbara facta est. Scripserunt tamen ea aetate Lactantius Firmianus, omnium patrum latinissimus; Hieronymus, ciceronianus; Tertullianus, in audendo felix; Augustinus, sententiis magis acutus; Gregorius, numero ferme poëtico delectatus. Et poëtae floruerunt Ausonius et Claudianus: ille acutis sententiolis, hic locutione commendatior. Uni iurisconsulti, veluti depositam linguae puritatem, atque id ex formularum solemnitate conservarunt. Atque haec aetas in Symmaco et Boëtio finem fecit. Tandem lingua

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intermortua est, ubi cum linguis barbarorum, quae Italiam occuparunt, prorsus confusa est: ex qua confusione haec nostra vernacula, quae «italica lingua» appellatur, orta est.

Ex his auctoribus verba legenda sunt, ut vites vitium, quod dicitur «barbarae lexeos», in quod offendunt, qui verbis utuntur apud barbaros primum natis, nec a Latinis usu receptis: ut Baptista Mantuanus haud veritus est quondam «guerram» dicere. Praeterea necesse est ut ea verba ita, uti diximus lecta, impendas significatione etiam latina, ne admittas vitium orationis quod «barbarae significationis» appellarem: ut si sumas a Latinis hoc verbum «hostis», quod quidem nativum latinum est, sed eo utaris ut significes «castra», qua significatione apud Italos feminini generis est, et «castra», tum nostra tum hostium, significat. Voce latina quidem, significatione tamen barbara, utaris. Sed tum primum, tum secundum vitium ope lexicorum facile declinant linguam mediocriter eruditi. In illud vero saepissime incidunt qui voces latinas significatione item latina deligunt, sed ea barbaro compositionis genere coniungunt. Nam facile quis sumat verbum «facere» et verbum «malum», utrumque quidem latina significatione, «facere» nempe per «fare», «malum» autem pro eo quod homini datur: nec contra grammaticae praecepta quidquam peccaverit, si dicat «facio tibi malum». Oratio neque soloecismo ullo neque vitio barbarae vel lexeos vel significationis laborat; sed compositione barbara reprehenditur: nam nos Itali cum verbo «malum» verbum «facere» iungimus. Itaque qui ita loquitur, verbis quidem latinis, sed phrasi seu locutione italica loquitur.

Hinc videtis non sat esse recte didicisse grammaticorum praeceptiones ut quis latine loquatur; nam eae dumtaxat utiles sunt ut vitium solaecae orationis, non autem ut barbarae effugiamus. Quo confirmatur illud Quintiliani dictum: «Aliud grammatice, aliud latine loqui». Nec sat esse lexica ut certi simus nos latine loquutos esse: nam lexica nobis exhibent ut plurimum verba singula, eorumque significationes aperiunt; compositiones non item docent, in quibus potissimum latinitas spectatur. Nam, ut idem Quintilianus ait, «in verbis singulis magis vitia retexeris: virtutes vero in contextu observantur».

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Conatus tamen est latinitatis studiosos hac in re iuvare Robertus Stephanus suo Latinae linguae thesauro, in quo compositiones verborum latinorum latinas alphabetico ordine complexus est. Itaque, si eius Thesaurum perquiratis, nullum latini sermonis probatum scriptorem, qui cum verbo «facere» vocem «malum» coniungat, at vero multos eum verbo «dare» inveniatis.

Ab hac linguae historia, quam modo narravimus, verba latina porro dividuntur in antiqua et nova. Antiqua sunt quae aureo linguae saeculo per Romanorum ora desueverunt. Nova autem censentur quibus post eam aetatem usi sunt.

Antiquorum vitandae primum sunt voces Iulii Caesaris vel Octavii Augusti aetate iam intermortuae et conclamatae, ut «oppido» pro «valde»; deinde inflexiones, ut «amassere» pro «amaturum esse»; denique syntaxis, ut «servum meum miror ubi sit».

Auctorum, qui post Tiberium scripserunt, etiam sunt mittenda verba, quae aurei saeculi scriptoribus religio fuit proloqui, ut «impossibile». Sed ne verbis quidem, quae in usu erant augustaeo saeculo, utendum est significatione aut antiqua, ut «latro» pro «satellite», vel nova, ut «civilis» pro «modesto».

Sunt qui linguae romanae, quae Iulii Caesaris et Octavii Augusti aetate viguit, sunt adeo religiosi, tu quidquid non ab eius aevi auctoribus scriptum inveniant, latinum non putent. Sed falluntur, quia dubium non est quin ante et post ea tempora lingua latina vixerit: deinde, ut scriptores aurei saeculi videantur, in maximas angustias rediguntur, nam eius aevi scriptores non omnia verba, neque omnes loquutiones ad explicandum necessarias nobis perscriptas reliquerunt. Ego sic existimem: ut omittamus antiqua, quae constat aureo saeculo desuevisse, et nova quibus facile aureae aetatis vocabula supponamus. Quare «essentiam», ex. gr., non dixerim, quam Cicero «vim et naturam» appellat, nec «sociennum», qui Augusti temporibus dicitur «socius». Ceterum, ubi id nobis non liqueat, promiscuum omnium aetatum usum probaverim.

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Neque timor subest ne monstri similes, quemadmodum isti aiunt, ut quis linqua loquatur, in qua coëant verba et locutiones scriptorum, qui tantis temporum intervallis inter se divisi scripserunt. Nam, si omnes ad aurei saeculi normam redigam, hoc est litteris, diphtongis, inflexionibus, syntaxi eius aetatis utar, neque aliter ea aetate romanos loquutos constet: quis me antiqui vel novi sermonis arguat? Neque enim loquimur Latinis defunctis, quibus id sane mirum videri posset et nos hoc vitio fortasse notarent; sed nostrae et futurae litteratorum virorum aetati, a quibus iam omnes linguae auctores perlectos esse putandum est, ut nullum subsit periculum ne non ab iis intelligamur.

Illud sane exploratum est: quod, lingua latina mortua, non amplius licet nova in ea excogitare vocabula. Ea enim potestas solius populi est,

Quem penes arbitrium est, et ius et norma loquendi.

Et unis poëtis dithyrambicis et comicis licet: illis quidem, ut, vino madidi, ipsa vocabulorum novitate baccari videantur; his autem, ut risum moveant, novo locutionum genere excogitato. Et tamen utrisque prudenter id facere licet, et servatis analogiae praeceptis, ita ut ex vocabulis latinis quae nova facienda sunt deriventur. Exempli gratia, ut a «coelestis» factum est «coelestissimus», ita a «terrestris» facias «terrestrissimus»; et quemadmodum os Ciceronis «coelestissimum» dictum est, ita tu, novo vocabulo, avari animum terrenis rebus deditum «terrestrissimum» dicas. Atque haec ab ipsis poëtis, et eius generis poëtis, in excogitandis novis vocabulis, quae, proprio nomine, «novata» appellantur, servanda sunt, ne alioqui, si integra a barbaris sumamus et in latinum usum detorqueamus, Merlini Coccai Maccaronea effutiamus. Si id ius poëtis ponitur, qui, ut Cicero ait, «alia lingua loquuntur», quanto nobis minus licet, ubi sermone latino uti velimus, qui nihil aliud est nisi ratio loquendi pro populi romani usu?

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Itaque pro rerum novitate, novis per barbaros vocabulis adinventis, si abstinere possis, ut purus putus latinus videaris, tramitte, ut, si narres quempiam occisum esse, si novo teli genere Romanis incognito occisus sit, ac proinde vocabulum latinum non suppetat, si id narrare non est necesse, relinquas. At, si teli genus appellare necesse sit, videas primum an commode possis eius formam et usum circumscribere, et pro vocabulo barbaro circuitione latinorum verborum utaris; sin id commode fieri nequit, ne religiosas latinorum aures laedas, petita prius venia illis formulis «fas sit dicere», «si dicere licet» et aliis eiusmodi, proprium eius teli vocabulum latinum proloquaris. Sed, si postremo ea vox non patitur ut in latinam formam conformetur, tunc denique barbarum barbare proferre ad illud instar: «teli genus, quod vernacula lingua baionetta appellatur».

A significatione dividuntur vocabula, quod alia plus, alia minus significant, alia rem ipsam exaequant. Quae plus significant, inserviunt illi amplificationis parti quae dicitur «auxesis», nam rem supra meritum auget, ut si pro «peccato» dicas «scelus».

Quae minus significant, usui sunt alteri parti amplificationis quae dicitur «maeiosis» et res attenuat, ut vicissim si pro «scelere» «peccatum» dixeris.

Quae vocabula ipsam rem exaequant, illa sunt quae ad id ipsum significandum quod in animo habes sunt nata, et in eo explicando dominantur: unde Horatius vocabula «dominantia» eleganter appellat et eorum significatio «nativa» dicitur; ut, si sermo sit de re quae merita sit «peccatum» appellari, «peccatum» dicas; sin de re quae mereatur dici «scelus», «scelus» appelles.

Sed, quo rem teneatis rectius, sciatis oportet in nulla lingua reperiri ista quae «synonima» vulgus appellat: nam nullum sane verbum est quod idem ac aliud aut saltem eodem modo significet, aut postremo eiusdem sint aetatis. En haec quatuor: «peccatum», «facinus», «scelus», «nefas», inscienti adolescentulo exponuntur in istis synonimorum libris in unum

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aggesta locum, quasi vero unum significent. Sed enim inter se significatione plurimum differunt: nam «peccatum» est eius, exempli gratia, qui herile imperium praevertit, «facinus» abducere ab lenone invito amicam, «scelus» amicum prodere, «nefas» filium necare. Et, quamquam plura verba idem significent, non tamen eodem modo significant, ut «cupio» et «cupiditate incendi», «irascor» et «ira inflammari»: nam «cupio» et «irascor» propria sunt et confusa; «cupiditate incendi», «ira inflammari» sunt translata et illustria; illa sedatam, haec perturbatam habent significationem. Sed, etsi pura verba idem eodemque modo significent, non tamen eiusdem aetatis fuerint, et alia alio in aevo per Romanorum ora fuerint celebrata, ut, exempli gratia, «gnatus» et «filius». Verbum enim «gnatus» antiquius est, ac proinde eo poëta utetur: qui soluta oratione et sermone augustei temporis loqui velit, non utetur.

Elegantia, igitur, virtus orationis et quae in singulis verbis spectetur, ideoque minuta est et tam difficilima usu quam facillima visu est. Ea enim virtus subest in oratione, non extat, cum, ad explicanda quaeque mentis sensa, deligimus verba quae ad ea ipsa significanda, uti diximus, nata sunt.

Ea autem sunt ut plurimum vocabula propria et, bona ex parte, translata ex causa necessitatis, quae, quod propria deessent, populus primus invenit et eodem iure quo propria censuit: quare metaphoras nativas et «populares» appello, ut multa sunt ruris vocabula quae ad mentis humanae operas significandas translata sunt, ut «lego», «intelligo», «puto», «dissero», «cerno», «decerno» et alia eius generis.

Significatio igitur nativa sive propria sive translata est, cum verbum significat id ad quod significandum principio natum est, ut «calamitas», quae significat cladem illam qua frugum calami maioris vi grandinis humi afflicti et contriti sunt. Ad eas igitur addiscendas verborum significationes nativas maxima ex parte conducit etymologia, quae verborum origines enarrat et eorumdem progressus ostendit: quae proinde mihi videtur linguae philosophia et historia, de qua habetis doctissimum Iohannis Gerardi Vossii Etymologicum.

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Sed in primis tenere necesse est vim et potestatem praepositionum quae in compositione verborum spectantur, quae maxima et potissima elegantiae pars est. «A», enim, vel «ab» significat vel «partem», ut «abscindo», «abscedo»; vel «alio», ut «amando»; vel «clam», ut «allego allegas»; vel «prorsus», ut «abeo», «absolvo», «amitto».

Analogia praeterea diligenter servanda est, nam elegantius uno verbo rem expedias...

Ab usu denique dividuntur vocabula, ut alia sint in usu populi, alia in usu scriptorum. Quae sunt in usu populi, alia sunt in usu hominum qui ex ima et vili plebe orti sunt, alia in usu honestiorum. Quibus spurca plebs utitur, uti spurcis, est abstinendum, cuius generis sunt omnia foeda vel sordida. Atque his accenseo vilia et corruptas loquendi formas, quae «idiotismi» dicuntur. Quibus autem utuntur honestiores, ut illustri loco nati, senatores, litterati viri, et, ut uno verbo utar, homines elegantes, ut elegantia sunt deligenda.

Quae sunt in usu scriptorum a vulgari sermonis consuetudine recedunt alia aliis longius. Oratoria paulum, historica etiam, poëtica mirum quantum, philosophica tantum praeter cetera, ut Antonius, apud Ciceronem, in libris De oratore, philosophos, quamquam de argumentis non supra vulgarem sensum suos libros inscribentes, nullo se omnino pacto intelligere dissimulet. Et ratio hoc suadet. Quia oratores intelligi debent a multitudine, propter quam praecipue, ut diximus, nata est eloquentia: et tamen dictione debent detinere auditores, quod supra vulgarem loquendi rationem paulum insurgendo assequuntur. Poëtae vero, quia delectare potissimum volunt, admirationem suis poëmatis potissimum phrasi conciliant, ex qua admiratione novitatis nascitur delectatio: admiratio enim nonnisi

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ad nova erigitur. Itaque vel novas dicendi formas excogitant vel revocant in usum antiquas, quae, quia antiquae nunc in usum revocatae, ob idipsum novae sunt, vel accersunt peregrinas, quae ut merces novitate delectant. Historici autem, quia in suis concionibus oratorum, in descriptionibus poëtarum sustinent partes, medio inter utrosque dictionis genere liberiori quam oratores, adstrictiori quam poëtae utuntur. Philosophi tandem, cum de rebus vulgo abditis disserant, necesse est ut locutionibus vulgo ignotis id faciant. Philosophis adscribo qui de artibus scripserunt, ut Celsum de re medica, Catonem, Varronem, Columellam de re rustica, de architectura Vitruvium, de re militari Vegetium, de iurisprudentia iurisconsultos, qui suis cuiusque artis propriis utuntur vocabulis, quorum magna pars ipsis Romanis earum artium rudibus, vel dum lingua vivebat, ignota erant.

Itaque maximum vitium est si inter fundendos sermones aliquam illustrem metaphoram gravi oratione dignam proloquaris... vel si loquutione alicuius artis propria pro vulgari usus fueris...

Si quis autem vestrum quaerat unde addiscendum haec vulgaris latine loquendi ratio, quando lingua intermortua est et ad nos nonnisi auctores latini pervenerunt, ego dicam: — A comicis — Ii namque a solo argumento poëtae sunt; caeterum dictionis genere omnino populari utuntur, et ratio id quidem suadet: nam, ut verisimiles eorum fabulae videantur, in quibus patresfamilias, filii, servi, uxores, amicae, lenones prodeunt et de rebus in communis vitae usu positis sermones habent, id similiter loquendi genus iis attribuunt quo iidem homines de iisdem rebus domi forisque re vera utuntur. Quamobrem in ea ego sum opinione: ut qui latinam linguam via et ordine discere velit, ei sit a comicis poëtis incipiendum: ii enim uni testantur quae latina lingua vulgaris fuerit. Quidni naturam in lingua intermortua imitemur, quam in nostra vernacula perdiscenda sequimur? Eam enim a matribus, nutricibus et pueris, quibuscum adolescimus, docemur: deinde illas oratorum, poëtarum ac philosophorum erudimur. Nec dubium ullum est, ut

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superius vidimus, quin oratores dictionis genere aliquantulum a vulgare recedant: nam quo pacto ab indisertis distinguerentur? Poëtae vero, Ciceronis testimonio, «alia lingua utuntur». Sed quid Cicerone teste opus est, cum nullus usquam populus lingua poëtarum, nec ullus poëta populari lingua usus sit? Philosophi denique vocibus ac locutionibus utuntur, quarum ipsi uni inter se commercium agitant.

Nec ullum facessit negotium Quintilianus, qui praecipit pueris ad linguae doctrinam poëtas esse explanandos. Nam Quintiliani tempestate latina lingua per Romanorum ora vivebat: quare pueri iam linguam vulgarem Latinorum tenebant, cum ad grammaticos seu litteratos sese applicabant, qui poëtas ipsis enarrarent et alienam illorum linguam erudirent. At nos quo pacto ad poëtas recta pergimus, qui vulgarem linguam plane ignoramus; ita ut, qui id faciunt, idem numero facere videantur ut qui Transalpinus linguam nostram Italorum in Francisci Petrarcae aut Torquati Tassi poësi vellet condiscere?

Hactenus de ea elegantiae parte, quae delectu verborum continebatur. Secunda erat, quae in eleganti eorumdem collocatione consistit. Cum igitur ea virtus in contextu spectetur, unum et item alterum exemplum apponamus...

Tertia eloquentiae latinae pars erat pronunciatio pro romano usu, quae proprie «urbanitas» appellatur: sed desperata sedulitas, si quis genuinam hanc urbanitatem romane loquendi, intermortua lingua, assequi velit. Nihil enim est nostrata pronunciatione corruptius: Latini namque, ubi vocales productas pronunciabant, tantum temporis assumebant quantum si duplicarent. Itaque olim etiam in scribendo iterabant; quae consuetudo Ennii tempore exolevit, et eius relicta vestigia in interiectione «eheu» et in «prehendo» eiusque compositis. Mansit tamen post Ennium illa pronunciationis, quam diximus, ratio, unde illud pronunciabant «amorem» duplici «oo», idque in omnibus syllabis attendebant; unde histriones, qui ut plurimum servi erant, a quovis de vulgo exibilabantur, qui inter agendam fabulam in cuiusvis syllabae quantitate peccarent. Nos autem quantitatem vix penultimae in vocibus minimum trisyllabis

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sentimus. Latini duplicem edebant sonum, cum diphtongos «ae», «oe» pronunciabant; nos ut nudas vocales emittimus. Latini, testimonio Ciceronis, vocalem quae claudebat unam Vocem, insequente alia voce quae item a vocali inciperet, ut nos Itali, elidebant; quin immo dictionum in «m» cadentium, insequente voce quam vocalis aperiret, vorabant ultimam syllabam, quod hodie non servatur. «H» littera habebat suum usum, ut nota esset quod spiritus ex intimo pectore educeretur. Hodie, barbaro proverbio ad significandum nullum alicuius precium, dicitur «h inter litteras». Quid igitur? quamquam fuerint qui de orthoëpeia scripserint, tamen pronunciandum hodie est ex consuetudine praesenti eruditorum.

35.
De sententiis, vulgo «del ben parlare in concetti».

Id fuit graecae, tum latinae, tum italicae linguae fatum: ut, post aetatem qua sermo elegans celebratus est, successit saeculum quo loqui per sententias, sive, ut Itali dicunt, «in concetti», in precio habitum sit.

Sententia ab Aristotele in quatuor partes dividitur. Vel enim rationem habet adiunctam, vel sine adiecta ratione profertur. Quae sine ratione profertur, est effatum aliquod in vitae usum apud omnes verum et incontroversum. Eaque sententia vel generalis est vel particularis. Generalis ut «Ne quid nimis», quam sententiae speciem Graeci, proprio nomine, «gnomen» appellarunt. Particularis autem est ipsa generalis sententia certae personae certaeve rei applicata, ut «Non Cynnae, non Syllae longa dominatio», quam hypotheticam sententiam si ad theticam traducas, id efficias: «Violenta imperia non diuturna»; atque alteram hanc sententiae speciem Graeci, suo vocabulo, «noëma» vocant. Gnomae philosophos, noëmata vero oratores, poëtas, historicos decent magis. Atque adeo «loqui per gnomes» id ipsum Graecis dicebatur «philosophari», quod nos Itali verteremus «sputar sentenze». Sententiae

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vero quae rationis et probationis egent sunt quae vel admirabile quodpiam vel controversum enunciant. Atque earum aliae sunt entimematis partes..., aliae vero vim habent entimematis, unde vocantur «entimematicae». Atque eae, Aristotelis iudicio, caeteris longe praecellunt, et tales sunt in quibus eius quod dicitur causa apparet... Sed ex sententiis, propter quamdam nobilitatem, illae Latinis dicuntur, quae plurimum ostentant ingenium, uti et apud Italos, per nobilitatem, eaedem «concetti» appellantur.

Ingenii virtus, ut Matthaeus Peregrinius in aureo De acutis dictis libello disserit, consistit in mutuo diversarum rerum ligamine. Nam in acuto dicto haec tria inveniuntur: res, verba et rerum verborumque ligamen. Ligamen autem duplicis generis constituit: unum sensibile, intelligibile alterum; illud rerum, hoc autem idearum colligatione efficitur. Intelligibile rursus in duas dividit species. Unius speciei ligamen simplex est, quo, sine ullo alterius ideae glutino, duae ideae simpliciter colligantur...; idque secundum mentis humanae opus est, et «simplex enunciatio» dicitur. Alterius speciei est ligamen quod duas ideas coniungit tertia mediante, hoc est ratione aliqua sive expressa sive tacita — quod est tertium mentis nostrae opus; — et dialecticis «syllogismus», rhetoribus autem dicitur «entimema»... Simplex ligamen enuncians nihil ingenii aut artis habet. Laudem vero acuminis demeretur sententia ratiocinans, que tacitam vim entimematicam continet, hoc est rationem qua mediante duae diversae ideae apte inter se colligantur. Quae entimematica vis nedum in propositione quae simplex videatur, sed et in uno verbo abscondi potest...

Hinc idem Peregrinius acumen seu ingenii vim definit «felicem medii inventionem, quod in dicto aliquo diversas res mira aptitudine et per summam elegantiam colligat». Atque hoc pacto acumen constituit in rara et nova aptitudine duorum extremorum in aliquo dicto feliciter colligatorum. Eius autem inventio, Aristotelis iudicio, in Poëtica, admodum difficilis est, ubi in argumento metaphorarum inquit: «Decenter uti translationibus maxime est arduum, nam nonnisi versatilis ingenii

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est», et ut in Rhetoricis habet: «Soli philosophi solertes acutique praestare possunt in rebus distantibus quid simile contemplari».

Ab hac ingenii vi et acumine, unde nascuntur, sententiae acutae Italis vocantur «pensieri ingegnosi» et «vivezze d’ingegno»: nam, etsi quandoque materia aliquid conferat ut acuta dicamus, non tamen acute dicimus a materia...

Unde poëtae itali sequioris aevi argumenta sibi proponebant mira, ut ipsi quid de iis ingeniose dicere videantur. Sed nihil magis, nam acumen non constituitur a materia et obiecti novitate, sed ab artificio. Artificium autem est, ut idem Peregrinius ait, non quod invenit pulchra, sed quod efficit. Quin immo Scaliger in Poëtica, libro quarto, acumen id definit: «quod sententiam per se languidam penetrare faciat in animos auditorum». Itaque ingeniosa sententia, ut Benius in Poëtica decribit, est in qua non vulgariter, sed nobilem in modum animi sensu pelluceat; et omnis ingeniosi dicti laus, non rei sive subiecto, sed concipiendi modo seu formae est accepto referenda, ut, nomine ipsi rei apto, «ingeniosum dictum» dicatur.

Vestigato qua in re consistant acuta dicta, inquiramus modo cur delectent. Aristoteles in Rhetoricis eam affert causam: «quod iis homines breviter et facile multa discant», nam natura advertit hoc insitum esse omnibus: ut, cum aliquid facile et brevi didicerint, multam capiunt voluptatem. Atque ex eo infert illa argumenta urbana esse, quae nos in alicuius rei cognitionem celeriter ducunt. Quare neque argumenta illa probari observat, quae patent atque in promptu sunt. Dicit autem illa in promptu esse, quae omnibus nota sunt et non indigent ut quaerantur. Neque illa probari quae, cum exposita sunt, adhuc tamen ignorantur: sed illa quae, cum exponuntur, statim nos in cognitionem ducunt aliquam, etiamsi prius nihil sciremus, vel quae, paulo post, cogitatione percipiuntur.

Acutissimus Sfortia Pallavicinus, in aureo libello De stylo, hanc ipsam Aristotelis causam profert, in eo tamen ab eo diversus, quod praecipua mentis delectatio qua animus, acuto

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dicto audito, perfunditur, non ex facilitate discendi, sed ex admiratione novitatis nascatur, non tamen ex eo quod admiratio ignorantiam causae supponat, sed quominus ex admiratione scientia eius, quod ante ignorabatur, promanat: quae scientiae acquisitio fons est et origo summae voluptatis, qua intellectus humanus affici possit; unde quo quid magis nobis ignotum erat aut praeter nostram opinionem, eo magis admiratio et voluptas ex eius acquisita scientia nascatur. Peregrinius ex admiratione quidem eam nasci voluptatem opinatur, sed quae in pulchri potius quam veri contemplationem nos ducat. Nam, ut inquit, veritas quidem iucundissima facie est, sed aliter delectat Euclidis demonstratio intellecta, aliter acutum poëtae dictum. Delectat illud, ubi demonstrationem sis assecutus, quia assecutus es verum: delectat autem hoc, quia in eo admiraris pulchrum. Verum autem intellectus obiectum est, pulchrum autem ingenii. Itaque, quando ligamen figuratam tam novam, tamque raram aptitudinem inter partes colligatas efficiat ut virtus ingenii in eo fiat praecipuum admirationis obiectum, habebimus in dicto acumen mirabile atque in eo pulchritudinem (nam pulchritudo est apta partium collocatio), et ex contemplatione pulchritudinis voluptatem.

Sed nihil vetat quin, acuto dicto audito, et intellectus brevi et facile doceatur, et pulchro ingenium delectetur. Ex quo fit quod maior voluptas nascitur ex acuto dicto quam mathemate demonstrato, non solum ex hac ratione, sed ex aliqua quam mox subiiciam. Nam, ut idem Peregrinius recte distinguit, philosophus docendo detegit ipse verum, ita ut nihil auditori relinquat quo is suo ingenio delectetur. Orator autem, acuto dicto prolato, efficit pulchrum quod ipsi auditori detegendum relinquit. Nam, acuto dicto prolato, hoc est sub indicata ligaminis ratione, auditor eam vestigat, medium invenit, extrema confert, aptitudinem contemplatur; et ipse detegit pulchrum, quod orator effecit: unde ipse sibi ingeniosus videtur, et acuto dicto non tam ut ub oratore prolato quam ut a se intellecto delectatur.

Hinc illa explicantur, quod quo acutum dictum brevius est eo magis delectat. Quare minus delectat similitudo quam hycon,

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hycon minus quam methaphora... Ratio ligaminis explicatior est in similitudine quam hycone, explicatior in hycone quam metaphora. Itaque minus in similitudine quam in hycone, minus in hycone quam in metaphora ingenio auditoris explicandum relinquit.

Locos autem, unde acuta dicta ducantur, omnes topicos enumerat, apud Ciceronem, Caesar in libris De oratore; sed doctissimus anonymus italus in observationibus ad Galli item anonymi librum inscriptum L’arte di ben pensare, ad duo summa capita revocat: nempe falsum quod videatur verum, et verum quod videatur falsum. Ad primum caput revocat omnia acuta dicta ex similitudine petita et symbolicis figuris formata; ad secundum autem dicta omnia ab inopinato, seu paradoxa, reducit. Sed in hac re, pace tanti viri, ei non assentior; nam tum in symbolo, tum in paradoxo una est ratio veri pulchrique detegendi. Etenim, sicuti, paradoxo explicato, cum aliter quis putabat, Aristoteles inquit in Poëtica quod tunc animus secum dicere videatur: — Quam verum est hoc! ego decipiebar, — ita, explicata similitudine, animus secum dicere videtur: — Quam sibi apte respondent ea quae diversa putabam! — Immo, si enucleatius illud «Quam verum est hoc!» Aristotelis interpretari velimus, nihil aliud est nisi hoc: «Quam sibi apte respondent quae opposita esse putabam!». — Itaque, si qua est differentia inter utramque discendi rationem, ea est quod maior admiratio novitatis est in paradoxo quam in symbolo: quia minus putabamus sibi apte responderi quae sunt inter se opposita quam quae diversa. Atqui maius minusve diversa rerum genera non constituunt.

Id ipsum exemplis luculentius explicemus. Symbolum est illud quo Cicero Romam «arcem orbis terrarum» appellavit. Paradoxon autem illud quo, cum hortatur Catilinam ut senatu atque adeo Roma egrediatur, ait omnes senatores, qui ibi frequentes aderant, idipsum, «dum tacent, clamant». Utrumque acute dictum, quia in utroque felix medii, seu ligaminis seu rationis, inventio est, qua in symbolo diversa, in paradoxo opposita inter se mira novitate ac raritate colligantur, et summa

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aptitudine sibi respondent ut efficiat verum, quod ipsum idem sit pulchrum. Una est in utroque veri pulchrique detegendi ratio. Nam, eo symbolo audito, mens primo extrema percipit urbem Romam et orbem terraqueum, arcem urbis et caput imperii nationum. Deinde medium, seu ligamen, quo colligantur, agnoscit: quod, sicut arx munimento urbi est adversus vim et arma, ita Roma praesidio est gentibus omnibus adversus iniurias. Itaque in ea nova et mira partium aptitudine veram pulchramque imaginem admiratur, atque ea admiratione, quae eam notitiam sibi peperit, delectatur. Sic in eo paradoxo auditor numerat extrema, item quatuor, tacere, clamare et utriusque effecta: taciturnitatis, nempe, nullum animi iudicium proferre; clamoris autem proferre, et quidem cum impetu. Mox agnoscit ligamen, quo effectus clamoris cum taciturnitate coniungitur; nam, tacendo, senatus universus videtur ad eadem ipsa graviter vehementerque exhortari Catilinam quae Cicero. Et, dissolvens paradoxum, taciturnitatem ad clamoris effectum coniungit, atque, in ea coniunctione extremorum, novam, raram miramque duarum rerum, quae opposita primo videbantur, aptitudinem, atque in ea dicti acuti veritatem pulchritudinemque detegit.

Quae a summo ad imum colligentes, videtis non esse duos dictorum acutorum fontes, falsum quod videatur verum, et verum quod videatur falsum, et quod ex primo in symbolica dicta, ex altero in paradoxa acuminis virtus derivetur; sed omnium unam esse originem: verum quod lateat ac novo raroque invento medio celeriter et facile detegatur. Et, si quae inter acuta dicta symbolica et paradoxica distinctio est, ea est: quod verum in symbolicis dictis supponit ignorantiam, in paradoxicis autem errorem auditoris. Ita ut hoc pacto dici possit duos esse acutorum dictorum fontes: verum quod auditor ignorabat, et verum circa quod idem auditor errabat; et ex primo acuta dicta petita ex similitudine, ex secundo ea quae ex inopinato proveniunt. Caeterum, utraque admirationem novitate et raritate ligaminis gignunt, apto partium commensu efficiunt pulchritudinem, et nova ac mira formae spectabilitate scientiam pariunt, qua brevi et facile intellectus verum, ingenium vero pulchrum agnoscat.

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Existimaverim potius falsum quod videatur verum esse fontem argutiarum. Cuius opinionis auctorem Aristotelem habeo, qui id quod faciat argutiam dicit esse causam pro non causa sumpta. Unde ab eodem philosopho ridicula dicta apparentium entimematum «ioci» appellantur. Arguta dicta ab acutis longe alia sunt: acuta enim docent, arguta fallunt. Acuti dicti forma est concinnus aptusque partium commensus. At Aristoteles in Poëtica affirmat ridiculum aliquo pacto peccatum esse et turpitudinem sine dolore minime noxiam, quae, una voce, a Cicerone «subturpe» appellatur. Acuto dicto audito, quis celeriter verum discit; at arguto dicto is expectatione fraudatur sua, et, dum verum expectat, nam is est intellectus humani ingenitus appetitus, detegit falsum. Quemadmodum autem veritatis facies honesta est et iucunda, ita falsitatis aspectus turpis et gravis. Unde homines, sicut delectantur veris, ita indolent falsis. Sed Aristoteles innoxiam dicti ridiculi turpitudinem esse ait et quae non doleat, quia quod ridiculum facit non est aperte falsum, quod enormi partium difformitate constat, quod intellectu tamquam turpe foedumque monstrum visuque grave obiiciatur, sed falsum apparens, quod ineptis potius quam difformibus partibus coalescat; unde eius species, tamquam ridicula persona, non dolorem, sed risum ciet.

Haec ego dixi ut artem iudicandi habeatis de dictis veri acutis. Quibus auditis, si nihil novi discatis, ea magis inaniter quam acute dicta putetis; si partibus collatis inepta menti species obiiciatur, iudicetis ridicula, non acuta; si species plane difformis ac foeda sit, non acuta neque arguta, sed falsa esse dicta censeatis.

Sunt qui putent dictorum acumen a verbis quoque esse, sed homonymia verbi falsi sunt. «Acutum» enim accipimus quod celeriter docet: locutione autem, quantumpote est concinna et crispans, nihil dicitur. Acuta namque, sive potius arguta locutio est concinna et crispans verborum conformatio, per quam verba aut apte sibi respondent, ut eleganter collocantur, aut paribus incedunt membris, aut iucundo fine concludunt, et multo magis per quam haec omnia eveniant... Sed

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inter conformationem verborum et sententiarum hoc interest: quod verborum tollitur, si verba ipsa mutaveris, sententiarum permanet, quibuscumque verbis utaris, ita ut verborum figura nihil praeterea afferat nisi quamdam in audiendo iucunditatem.

Idipsum elucescat exemplo, quod ad eam rem Aristoteles apponit. Comicus senario dixerat: «Pulchrum est mori quando quis non est morte dignus». Aristoteles, ut eam ipsam sententiam verbis concinnet, verbum καλόν in ἄξιον commutavit, quod verbum eodem versu, non eodem significatu iteravit. «Dignum est mori quando quis non est morte dignus». Sententia utro verbo elegans, altero evadit urbana. Quare id evincit: quod argutiae verborum quam iucunditatem efficiunt, id mutatis verbis non sentiatur: at acumen sententiae, etsi verba mutes, collocationem evertas, ductum confundas, numerum disturbes, idem manet.

Igitur eiusmodi, quae verborum figuris formantur, unicum est opus: aures mulcere; unde potius inter arguta dicta quam inter acuta sunt accensendae. Atque id graviter mihi confirmat Aristoteles, qui in Poëtica poëtas admonet ut in partibus ignaris otiosisque poëmatum, cuiusmodi sunt illae in quibus nec mores alicuius personae exprimuntur, nec sententiae ullae acutae ad probandum, vel graves ad commovendum positae sunt, uti sunt descriptiones et narrationes rerum amoenarum, ii incumbant in id, studeantque eas adiuvare huiusmodi floribus et luminibus orationis, ut iis, quantum fieri possit, elegantiis abundent. Quid ita? Quia, cum eae poëmatum partes nihil ex sese habeant delectabile, neque imitatione, neque doctrina, neque animi commotione, nisi his ornatibus instruantur, iaceant omnino necesse est.

Ita, vicissim, ubi mores exprimuntur, sententiaeque sive acutae ad docendum, sive graves ad perturbandum dicantur, locutio simplex et pura sit, neque exquisitis verborum luminibus exornetur. Eius rei rationem eam Peregrinius affert, quam prius Musonius philosophus apud Aulum Gellium explicavit: nam animus humanus pluribus rebus suae intentionis acumen uno eodemque tempore aeque applicare non potest:

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cumque locutionis lumina nimium in promptu sint et longe emineant, ea ornatu suo et splendore facile omnem hominis attentionem intercipiunt; unde mores, affectus, entimemata in tanta luce nihil aut parum apparere necesse est.

36.
De dignitate.


37.
De tropis. 38.
De metaphora. 39.
De metonymia.

191 ―

40.
De synecdoche. 41.
De ironia.


42.
De troporum affectione. 43.
De troporum speciebus. 44.
De tropis falso habitis.

192 ―

45.
De schematibus seu figuris.


46.
De figuris verborum. 47.
De figuris sententiarum. 48.
De compositione.

193 ―

49.
De iunctura. 50.
De periodo.

Ab hac parte potissimum dissertus ab imperito dicendi distinguitur: quod rudis incondite fundit quantum potest orationem, et id quod dicit lateribus et spiritu, non autem arte, determinat. Disertus autem sic alligat verbis sententiam ut eam numero quodam complectatur. Quare illius oratio est infinita, incerta et pendens: huius autem certo quodam ambitu decurrit, interspirationibus suis et intervallis dispuncta, ac rotunda complexione terminatur.

Verumtamen ratio dicendi, quantum ad hanc rem attinet, triplex est: alia enim dicimus caesim, alia membratim, alia circumducte. Caesim fundimus orationem cum in minutissimas eam partes dividimus: quod commodum fit cum amplificamus... Membratim dicimus cum in singulis membris consistit oratio: quod potissimum ad narrandum valet... Circumducte dicimus cum in orbe quasi inclusa fertur oratio, nec nisi perfecta absolutaque sententia conquiescet.

Constat periodus partibus duabus: protasi et apodosi. Idea absolutissimi periodi proponitur quatrimembris, in qua duo membra protasis, duo autem apodosis absumat...

Fundendae periodi fontes sunt adiuncta, superlata, relativa, particulae copulantes aut disiungentes et subiunctivae.

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51.
De numero.

Numerus oratorius est rytmus quidam nec exquisitus nec canorus, qualis est in poëmatibus et hymnis, sed ita dissimulatus et latens ut sentiatur tamen et iucundo fine concludat... Numerus igitur rationem habet de sono literarum et syllabarum quantitate et vocum modo.

Ex vocalibus vocalissimum est «a»... Tum in vocalitate succedit «e» atque «o». «I» exile est: «u» ululat. Ex semivocalibus «f» fluidum (unde et ipsum «fluere»), «m» horridum et mugiens, «n» tinniens et gratum, «r» asperum: quibus nominibus graeca lingua latinae praestat iucunditate, nam quod Latini in «m» terminant, Graeci in «n» finiunt, et «r» apud eosdem non tantopere celebratur, quod asperam efficit orationem. «S» sibilat, «x» confragosum, «z» suave, quo Persae molles abundabant.

Syllabae breves citam conflant orationem... Syllabae autem longae lentam efficiunt. Voces productae tardam ac difficilem gignunt. Si claudas monosyllabis orationem, eam fuderis humilem... vel cadentem... vel vehementem...: uti multisyllaba terminantia orationem eam efficiunt grandem et gravem. Pedes omnes putarim optime sententiam claudere, modo rythmum rebus dignum efficiant.

Et in principiis quoque rytmi habetur aliqua ratio: unde rectius graves orationes incipiunt a longa, et Cicero hoc utitur praecepto, qui fere semper particulis «etsi», «quamquam», «quamvis» orationem orditur potius quam per particulam «licet». Concitatis autem natura fert ut incipias a brevi: unde eiusmodi rebus iambus aptus est, quia brevi incipit, in longam terminat, et merito etenim «Archilocum proprio rabies armavit iambo». Contra, lenibus aptior est trochaeus, qui a longa incipit, in brevem desinit, ut communis fert natura sermonis.

Pedes vero qui in prorsa oratione prohibentur, et potissimum in clausulis, sunt ii quibus clauduntur heroicus, elegiacus, asclepiadaeus; unde illud Ciceronis Fabius notat: «ex illo fonte dolores».

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Media autem membrorum periodorumque in tam curiosam animadversionem non cadunt. Videndum tamen est ne, dum numero inserviamus, verba sic traiiciantur ut de industria factum appareat, neve otiosa verba, veluti tibicines ruinae, suffulciamus.

Curandum postremo ut varientur membra cum incisis et inter haec periodi; neque eodem semper pede sententiam claudamus quo nomine notatur Cicero, quod tantopere illa clausola delectetur: «esse videatur».

52.
De formis dicendi.

Ex his omnibus de eloquutione praeceptis tres conflantur characteres seu figurae dicendi, ad quas styli omnes, tamquam ad genera, revocantur. Eae autem sunt sublimis, humilis, temperata.

Sublimis locum habet in argumentis magni momenti, ut de re publica. Sublimitatem conciliant orationi sententiae novae, rarae, admirabiles; verba coniuncta, modo insolentia non sint; poëtica, modo non longe a sensu communi recedant; vetusta, modo non sint intermortua et conclamata; e tropis translatio; e schematibus verborum repetitiones, disiunctiones in re eadem; coniunctiones in diversis; e figuris autem sententiarum omnes quae amplificationem pariant et animi motus vehementes excitent. Ratio sermonis, quae statim loquendi consuetudinem immutet, et planam rectamque syntaxim non sapiat. Postremo compositio nec dissoluta prorsus, nec prorsus concinna; iunctura magis aspera quam lenis, sonora potius quam exilis; numerus ex dactylis modulatus; periodus aequo longior.

Magnificae formae opponitur tumida, quae quandoque et frigida est, atque in eam incidunt scriptores qui de planis rebus tragoediam excitant. Tum, si sententias concipiant nimis hyperbolicas: ad haec, si vocibus novis utantur aut factis dithyrambico more, si metaphoras duras proiiciant, postremo si nimium in numero laborent, ut versus fundere videantur.

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Forma humilis est quae demittat orationem usque ad constantissimam puri sermonis consuetudinem. Locum obtinet in rebus privatis. Sententiae erunt naturales; verba usitatu, sed cum delectu adhibita, ita ut etiam sint elegantia; compositio neque longas verborum circumductiones, neque numerum quodammodo factum admittit.

Tenui formae opponitur arida, sicca, ieiuna. Eo vitio laborant qui res magnas ad parvos modulos conformant vel sententiis minus exprimunt quam res postulant, si verba infra rerum dignitatem usurpent, si compositione nimis commatica utantur.

Temperata seu mediocris dicendi formula est quae ex utraque fit particeps. Locum habet in rebus amoenis ac floridis. Sectatur sententias quae magis ornamenti quam gravitatis praeseferant, omnes verborum concinnitates et sententiarum figuras quae delectent compositionem, et numerum omnium maxime concinnum.

Opposita huic formae est fluctuans et dissoluta, qua quis, dum aridum fugit characterem, nimis adsurgit, aut, dum inflatum et tumidum vitat, serpit humi.

Forma magnifica locum habet in maioribus contentionibus; temperata in panegyricis caeterisque laudationibus; humilis in privatis narrationibus, epistolis ac dialogis.

53.
De memoria et actione.

De memoria non est ut praecepta tradamus: ea enim ingenita virtus est, quae usu conservatur et adaugetur.

Actio autem, quae est quaedam corporis eloquentia, etsi tantum ad bene dicendum conferat, ut Demosthenes in primas detulerit, natura magis et imitatione quam ullis praeceptis constat.

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b) Redazione del 1738

Rhetorica, si cum sua elegantia graeca latine verti liceret, «fluentia» sive «dicentia» diceretur. Neque «facundia» neque «eloquentia» ei Graecorum voci apte respondet. Facundia namque est praeclara orationis virtus, qua, quae dicuntur, nulla arte aut meditatione, sed ex natura ipsa prodire, atque adeo qua non tam orator quam res ipsae loqui videantur. Dicta latine «facundia» a «facilitate», quae priscis dicebatur «faculitas», quae postea remansit contracta «facultas»: quae quidem virtus huiusque artis difficillima, et magis usu quam praeceptis comparatur. Eloquentia vero, quamquam et alia virtus dicendi aeque praecipua, qua caussae aperte esplicataeque dicuntur, ea non omnis orationis vis continetur. Immo sublimis orationis character amat dictionem, quae multa involute, multa abrupte, multa suspense, multa auditoribus cogitanda relinquat.

Ob has rationes Latini vocabulo «rhetorica», ut in quamplurimis disciplinis aliis, pro latino usi sunt.

«Rhetor» autem Graecis ipse orator est: beatiori enim sapientiae graecae saeculo deerat «artificis» nomen: quia rhetorica cum ipsa philosophia discebatur. Philosophia namque firmat mentem veris, ac proinde animum virtutibus fingit, atque adeo docet vera et digna cogitare, agere, loqui. Qui autem ex vero et pro dignitate loquitur, is optimus erit orator. Et sane Demosthenes complures annos Platonem audivit, et Cicero suam omnem dicendi copiam ex Academia deprompsisse profitetur. Sed, ubi sapientiae studia a studiis eloquentiae, quae natura coniuncta erant, distracta sunt, et coepit linguae a

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corde dissidium, huius artis professores, qui sapientiae inanes et meri verborum nugatores erant, antiquum «sapientum» nomen sibi adrogarunt. Latinis quoque huius artis doctor innominatus, quia ignotus. Sed postea graeca «oratoris» appellatio ei accomodata est, fortasse quia, quum Romani in Graeciam traiicere ceperunt ut rhetoricam discerent, oratores graeci scholam omnes redolebant.

«Declamare» autem in republica libera erat commentari multo clamore domi caussas, quas oratores acturi erant in foro. Sub principatu autem significavit agere caussas fictas, quo exercitationis genere tyrones expedirentur ad veras.

Illud postremo praetereundum silentio non est, quod «disertus», per summam sermonis elegantiam, dicebatur verborum callidus et qui novit verba dare, uti Pythias, apud Terentium, Parmenonem illudit: «At primo callidum et disertum credidi hominem». «Eloquens» vero est qui, omni dicendi charactere insignis, ad omnia caussarum genera aeque promptus, et omnibus orationis virtutibus, et imprimis veritate et dignitate, praestat. Quare Antonius orator, apud Ciceronem, in libris De oratore, dicebat disertos se vidisse multos, eloquentem vero neminem.

Cur praeclari oratores tam rari sint.

Hinc intelligere datur caussas ex quibus praeclari oratores tam rari sint: quia haec dicendi facultas ex rebus inter se omnino pugnantibus coalescit. Requirit enim corporis robur, quod expeditissimis animi motibus est impedimento, et meditatione aliisque mentis laboribus infirmatur. Ingeniosi memoria parum valent, memoriosi autem perraro acuti, quia his aliena semper in mente dominantur: illi autem, inventionis studio capti, parum immorantur in alieno. Nihil tam iudicio adversum

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[quam] phantasia, quae suis imaginibus movet affectus, quibus ferme omnia prave iudicantur. Lenes animi difficile commoventur, difficile exasperantur. Qui grandia enititur, tenuia contemnit, et vernantia ingenia grandium rerum asperitate deterrentur, tenuium autem subtilitatem fastidiunt. Viri graves sunt ad iocos parum idonei; homines autem leves et futiles in facetos abeunt parasitos et scurras: sales enim quadam veri fraudatione sermonem condiunt, et argutuli severa iudicandi arte non valent. Sed illa maxima difficultas: quod orator sanus furere et, ut Comicus ait, cum ratione insanire debet, hoc est ex arte debet gravissimis animi perturbationibus inflammari. Igitur qui te cunctis his orationis virtutibus praestandis imparem sentis, dicendi genus tuis par virtutibus elige. Cum enim Cicero adolescens, nimia corporis gracilitate, latam et sonantem orationis formam, cui avide studebat, non pateretur, in Graeciam remeavit ut tenui Lysiacorum charactere de integro fingeretur. In ea peregrinatione corpus et membra firmavit, et ad grandem atque amplam orationis figuram se redegit.

De locis rhetoricis.

Ut quaeque ars sua habet elementa, ex quibus suum quaeque faciat opus, ita et rhetoricae primus omnium, Aristoteles, attribuit sua, quas saepe «propositiones» appellat, ex quibus oratores sua persuasionum conficiunt opera. Et quia triplex est caussarum genus, ut vidimus, quas suscipere debet orator — demonstrativum, deliberativum, iudiciale — et demonstrativi materies honestum est, deliberativi utile, iudicialis aequum, hinc ingentem propositionum vim colligit de honesto et turpi, de utili et inutili, de aequo et iniquo, non tamen pro philosophorum placitis, sed ad sensum communem, ad quem tota facta est eloquentia accommodate.

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Sed sunt qui hanc Aristotelis diligentiam in iis propositionibus colligendis culpant ut nimiam, quae tamen satis non sit, nam innumeres colligit et tamen omnes colligi non possunt, cum infinitae rei infinita regula sit: itaque multitudine sua tyronem onerat magis quam ornat et instruit; et elementa, suapte natura, in quavis arte pauca esse debent. Et quamquam in iis quamplurimae numerentur tanti philosophi notatu dignae, satis multas tamen enumerat, vel ita, naturae numine, perspicuas ut plane communi sensu careat qui eas ab ipso doceri debeat, vel rerum usu tam raras colligit ut literae «k» similes esse videantur, quae discitur quidem a pueris, sed nulli ferme latino verbo scribendo usui est.

Multo magis quam Aristoteles hac in re digni reprehensione sunt libri Ciceronis De inventione, quorum postea, ob id, ipsum auctorem poenituit, ut Cornificii Ad Herennium et Marci Fabii Quintiliani De inventione in Locis rhetoricis, qui ita vestigandos praecipiunt ac [si] fabrum aliquem, non oratorem, instruerent, nam in unaquaque caussa certas propositiones enumerant (quae est quam Antonius orator, apud Ciceronem, in libris De oratore, «seclusam inventionis aquulam» dici), ut ex iis orator cuique caussae faciat fidem.

De statibus caussarum iudicium.

Et, quo certius procederent, de statibus caussarum spinosissimam tractationem Quintilianus, longissimo capite quod iniusti libri molem excrescit, et Hermogenes, integro libro, exequuntur. Eosque faciunt tres: nempe coniecturae sive facti, definitionis seu nominis, qualitatis seu iuris, ut pro cuiuscumque caussae statu orator propositiones caussae propias inveniat. Sed Cicero, fori romani expertissimus, eam tractationem omnium maxime inutilem existimat, quod cuiusque caussae naturalis prudentia cuivis innotescat.

Itaque multo rectius feceris si propositiones de honesto et turpi morali a philosophia condiscas, ubi de virtutum omnium et vitiorum natura, de morum characteribus, de omnibus huius

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vitae officiis ordine et ratione disseritur. Propositionibus autem de utili et inutili a politica doctrina instruaris, cum ad consilium de republica dandum, ut recte inquit Cicero, caput sit nosse rempublicam. Postremo propositiones de aequo et iniquo ex libris de romana iurisprudentia desumpseris, cuius doctrina desumere hodie oratores reputantur.

Et ista de statibus caussarum inveniendis praecepta sunt vere logica, quae praecipit rem plane esse perspectam nemini nisi ei qui de ipsa re, de qua quaerit, haec viderit tria: primum an sit, deinde quid sit, postremo quae sint eius proprietates. Oratoris autem erit proprium hoc: ex vero ad verisimile cuncta traducere.

Sed, ut exemplo vobis commonstrem, auditores, quam vana, quam ieiuna et quandoque etiam inepta et ridicula sit inventio oratoria prout ab ipsis rhetoribus vulgo traditur, seligamus caussam quae stet in statu qualitatis qui dicitur «de scripto et sententia», qui definitur cum scriptoris voluntas a scripto dissidere videatur.

Latinae linguae vita ad humanae exemplum est comparata, ut et ei sua esset infantia, adolescentia, virilis aetas, senectus et senium.

Infantiam latinae linguae grammatici ab Urbe condita definiunt usque ad Pyrrhi tempora, quasi cum Romae fundatione lingua latina nata esset. Sed, et ante Urbem conditam, Alba caput Latii fuerat, ubi quatuordecim reges perpetua successione regnaverant, et, ante Albam adventumque Aeneae in Italiam, Latium fuerat per Aborigenes celebratum iam inde usque a

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Saturni temporibus, qui primus in Latio regnum obtinuit. Latini igitur totum id longissimum temporis spatium muti transegerunt. Verum grammatici, quodammodo divinantes, affirmant hoc loci, ubi dicunt latinam linguam articulatam ab Urbe condita coepisse, cum ab eo tempore eius definiunt infantiam. At quanam ratione id verum sit, consulite nostram Novam Scientiam, ubi tractat argumentum de linguarum et literarum origine.

Eius autem linguae vestigia habetis ab Ausonii poëmate De antiqua lingua latina, ex cuius fragmentis intelligetis linguam fuisse rusticanam et horridam, quia ea aetate Romani in nulla re alia quam rustica et militari versabantur.

Adolescentia latinae linguae ducitur a Pyrrhi temporibus... et a Terentio prius, deinde a Plauto, qui duo sunt latinae vulgaris linguae latifundia. Deinde ad Ciceronis epistolas gradum faciat, quarum sermo vulgaris quidem est, sed elaboratior, et argumenta sunt officia in communis vitae usu posita. Atque a comoediis et ab epistolis linguam latinam privatam habebit. Tum ad Caesaris Commentarios progrediatur, in quibus lingua publica discitur elegantissima, quae cum in bello tum in pace est necessaria. Porro ad Ciceronis orationes perveniat: postea ad historicos, et Livium prius, deinde Sallustium, qui est Livio sublimior. Postremo ad poëtas et, principio, omnium principem Virgilium adeat et quo ordine prostat eius poëmata legat: primum tenues Eglogas, deinde ornatam Georgicam, postremo grandem Aeneidem. Tres elegiacos et Horatii Sermones et Epistolas cum Virgilii Eglogis componat; nam, ut tenues sunt Eglogae, ita exigui sunt elegi; et Horatii Sermones Epistolaeque tam vulgares latinae sunt ut «Sermones Epistolaeque» inscribantur. Novissime Horatii Lyrica legenda suscipiat, in quibus novum plane et mirum linguae latinae genus in Latium importavit.

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II. Oratiunculae pro Adsequenda Laurea

II
ORATIUNCULAE
PRO ADSEQUENDA LAUREA 1.

Quantae dignationis hunc, qui nunc mihi meisque optatissimus dies illuxit, reputaverim, hinc quaeso, perillustris provice magni cancellarii et amplissimi huius Collegii sapientissimi patres, cognoscite quod omnes perpetui legalis quinquennii vigilias ac labores hoc semper die solatus sum, eoque ad sudandum in legum disciplina algendumque confirmatus, ea spe fretus fore uti mihi, experimentis in utroque iure de more factis, in iurisconsultorum album vestris sententiis cooptaretis, in quo numero et ornatissimum caussarum patroni munus obirem et quandoque ad rempublicam, in partibus quas Iustinianus studiosae legum iuventuti mandandas proponit, administrandam accederem. Sed nunc vestra dignitas omnem meam ingenii fiduciam, omnem in iure perdiscendo exactam industriam, omnem ante adhibitam diligentiam terret, ut merito meo id amplissimum vobis munus petenti suffragemini. Quare vos oro atque obsecro ut bona cum venia haec mea tentamina audiatis, ut pro benignitate vestra me iurisconsultum esse velitis. Igitur, Deum Optimum Maximum precatus, interpretandos utrosque

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textos suscipio qui heri mihi sortito obvenerunt, et prius in iure pontificio caput... (qui lo studente doveva aggiungere il titolo del canone del «Decreto» o delle «Decretali» toccatogli in sorte quale tesi di esame). Absoluta iuris pontificii interpretatione, interpretandum aggredior caesareum in lege... (e qui, quello della legge del «Digesto» o del «Codice giustinianeo»).

Tantis pro meritis dignas si pendere grates
impar ego, superi praemia digna ferant.

2.

Inter multa vitae utilia a sapientibus dicta, illud sane verissimum fertur: «Praemiis virtutis calcar». Namque iurisconsulti laurea, quae a vobis, amplissimi patres, emeritis in iurisprudentiae palestra defertur, ea omnes mihi labores, omnes vigilias in ea perdiscenda perferre est graviter cohortata ut alacri animo, cum in scholasticis auditionibus, tum in domesticis meditationibus perpetuum legitimi studii quinquennii aestates aestuarer, hyemes rursum algerem. Est nunc ut, pulcherrimae spei plenus, tentamina quae mihi hesterna die sortito facienda obvenerunt, divino numine auspice, aggrediar; eaque vos oro atque obsecro ut pro vestra humanitate aequi bonique faciatis, vestrisque sententiis mihi publicum iurisconsulti munus ex auctoritate obeundum permittatis.

Aeternum vestri in me stabit gratia facti,
quamque animo nequeat perdere tempus edax.

3.

Vere sane et sapienter illud a poëta dictum

Honor alit artes:

namque hic mihi optatissimus petitionis dies, quo, cum in vestra, patres conscripti, amplissima comitia prodissem, hinc, a vobis honestissimo iurisconsulti munere auctus, in forum

207 ―
deducerer, omnes meos in perdiscenda iurisprudentia labores omnesque vigilias sustentavit, ac legitimi studii quinque perpetuos annos et aestivos recreavit sudores et hybernos algores fovit. Quapropter, divina implorata ope, ad tentamina de more in utroque iure facienda alacer accingor, vestra benignitate fretus, ut ea aequo animo accipiatis vestrisque suffragiis me in iurisconsultorum album conscribi velitis iubeatis. Et primum ius caesareum mihi hesterna die sorte oblatum aggredior in lege... Primo periculo facto, ad ius pontificium transeo in capite...

Pectore sat memori vestri in me gratia facti
stabit, et hanc mentem tempora nulla ferent.

249 ―

XXIV bis
Al principe Eugenio di Savoia
A proposito dell’invio del Diritto universale.

Altezza Serenissima, molta chiarezza ha di giá acquistato il mio nome poi che ha avuto la fortuna di pervenire alla notizia della serenissima Altezza Vostra; e ormai auguro l’immortalitá alla mia debole opera nella quale trattasi principalmente dell’eterne origini e degli eterni rivolgimenti del dritto naturale delle nazioni, avendo essa ricevuto il segnalato onore

250 ―
del vostro pregiatissimo gradimento e fatta degna d’aver luogo nella vostra celebre biblioteca, come il dottissimo mio signor abbate Garofalo, in vostro alto nome, mi ha scritto la scorsa settimana. Or, non potendo io concepire con la mente, nonché spiegare con parole a Vostra serenissima Altezza le grazie dovute per cotanta real grandezza d’animo usata meco, priego il Signor Nostro Dio che voglia conservarla lunghissimi anni per gloria del secol nostro e salute della cristianitá. E, con la piú profonda riverenza inchinandola, per mio sommo e sovrano pregio mi professo

Napoli, 25 luglio 1722.

Di Vostra Altezza serenissima ossequiosissimo servidore umilissimo

Giambattista Vico.

XXIV ter
Allo stesso

Chiede d’essere raccomandato all’Althann in occasione dell’imminente concorso alla cattedra mattutina di diritto civile.

Altezza serenissima, quella stessa somma mia fortuna che mi preparò l’alta protezione sotto la quale l’Altezza Vostra serenissima ha degnato, per vostra regal grandezza d’animo, una volta ricevermi, quell’istessa ora mi porge l’occasione d’implorarla a mio sollievo, povero uomo di lettere, grave d’anni e di famiglia, perché io raccolga il frutto de’ deboli studi di tutta mia vita, che posso unicamente sperare in questa cittá.

Oggi appunto, per morte del possessore, è vacata la cattedra primaria matutina di legge in questa universitá, la quale rende seicento ducati annui. Ella è esposta a concorso, per lo quale ogni straniero e sconosciuto la può pretendere. Perciò, sottoponendomi alla medesima legge del concorso, mi

251 ―
sono indotto a pretenderla anche io, che ho con questo pubblico il merito di averlo servito ventitré anni continovi in grado di lettor di rettorica col tenue salario di cento scudi annui e altri pochi ed incerti di un dritto che mi si paga. Non ho invero il merito di averlo servito in cattedre minori di giurisprudenza, ma (mi perdoni Vostra Altezza serenissima che io pure il dica, perché mi costringe a dirlo non giá una vana cupidigia di lode, ma una dura necessitá del bisognevole) intorno alla giurisprudenza io credo avermi fatto un gran merito con quest’Universitá, non giá per gli giudici de’ piú dotti letterati d’Europa, il signore abbate Garofalo dell’Italia, il signor Giovan Clerico d’oltremonti; ma unicamente per ciò: che quell’opera, nella quale si scuovrono le vere origini, fin qui nascoste, del dritto e della giurisprudenza romana, abbia avuto il segnalatissimo onore del vostro regal gradimento, e, in conseguenza di esso, godo ora la gran fortuna della vostra potente protezione. Onde io mi fo ardito a umilissimamente supplicare Vostra serenissima Altezza a promuovere questa mia pretensione con questo eminentissimo signor cardinale viceré, il quale, di tutti i lettori, ha particolarmente di me argomenti di particolare atto di osservanza, che voglia adoperarsi con questi signori regenti del Collaterale Consiglio e capi di tribunali a favorirmi de’ loro voti. E, per tanto beneficio, oltre la commune obligazione che hanno tutti i cristiani di pregare il sommo nostro Dio per vostra conservazione, s’aggiugnerá questa particolare mia e di tutta la mia povera famiglia, che, mercé vostra, in questi miei cadenti anni, io abbia il modo di onestamente sostentarla. E a misura del piú fervoroso delle preghiere [che] l’ho pòrte, col piú rispettoso de’ miei sentimenti mi rassegno

Napoli, 12 decembre 1722.

di Vostra Altezza Serenissima
divotissimo e obbligatissimo servidore umilissimo
Giambattista Vico.

252 ―

LXIV
A Giuseppe Pasquale Cirillo
Sulle maschere degli antichi.

Signor mio e padrone osservandissimo, mi è pervenuta all’orecchio una voce sparsa falsamente per la cittá: ch’io, con un brieve ragionamento estemporaneo, avessi notato d’errori l’eruditissimo ragionamento d’intorna alle maschere degli antichi che Vostra Signoria fece nell’accademia la qual si tenne in casa della signora duchessa di Marigliano. La qual voce ho io udito con sommo mio rammarico, perché di troppo mi offende nella parte del buon costume: che io, dopo di aver domandato da voi, tanto mio amico, la buona licenza di ragionar alcun’altra cosa d’intorno alla stessa materia, e riportatala da voi con sommo vostro piacere, senza niuna necessitá avessi voluto riprendere il ragionamento vostro, ch’aveva riportato gli applausi di tutti gli uditori, tra’ quali erano molte nobilissime e dottissime persone di questa cittá. Ma io non altro feci che vi aggiunsi tre cose, che voi per brevitá trallasciaste. Una fu d’intorno alla prima maschera che dovette truovarsi al mondo, e ragionai che fu quella di satiro. L’altra, d’intorno all’etimologia della voce «persona», la quale e la quantitá della di lei sillaba di mezzo niega aver potuto venire dalla voce «personare», «risuonar dappertutto», e la picciolezza de’ primi teatri non lo richiese, e pruovai ch’ella venisse dall’antico «personari», di cui è rimasto «personatus» per «mascherato», che avesse significato appo i primi latini «vestir di pelli». E l’ultima fu d’intorno alle difficultá dell’intendere come nelle favole dramatiche greche e latine si leggano gl’istrioni cangiar sembiante sopra le scene quando recitavano mascherati.

Questo è anzi adornare che riprendere i componimenti

253 ―
fatti da altrui. L’ho voluto scrivere a Vostra Signoria, perché Ella stessa me ne giustifichi appresso coloro i quali, non essendovi intervenuti, avranno per avventura dato credito a cotal voce. E le bacio riverentemente le mani.

Casa, 30 agosto 1733.
Di Vostra Signoria divotissimo e obbligatissimo servidore
Giambattista Vico.