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Giambattista Vico: Opere
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VII: Scritti Vari e Pagine Sparse
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III. Commemorazioni, Allocuzioni, Elogi
VI In morte di donn’Angela Cimmino marchesa della Petrella

VI In morte di donn’Angela Cimmino marchesa della Petrella

Orazione premessa alla miscellanea poetica dal Vico stesso promossa e curata per l’occasione.

(1727)

Se tra le laudevoli eroiche usanze romane fu quella fuor di dubbio lodevolissima che i defunti i quali, o per luminose arti di pace, o per fatti egregi di guerra, si erano, vivendo, segnalati e distinti, eglino in loro morte da’ piú stretti congiunti, come da’ figliuoli i padri, le mogli da’ mariti, i fratelli da’ fratelli, con ischiette e gravi dicerie fossero pubblicamente lodati, acciocché non solamente le propie famigliari lodi a quel popolo immortale con modesta veritá si sponessero, ma ancora, se stati ve ne fussero, ché pur esservi stati vi abbisognava, non andassero elleno scevere ed immuni dagli occulti difetti: oggi nella morte della virtuosa e saggia donna Angiola Cimini marchesana della Petrella, tale accorgimento in noi, scrivendo questa, destano la schiettezza, la gravitá e la moderazione degli attenenti che le sopravvivono, i quali forse anche tutti taciti e soli, in leggendola, grandemente offenderebbe ogni leggieri eccesso in che o l’alta stima di lei vivente o il gran dolore della sua immatura ed acerba morte trasportato ne avesse. Ma quest’istesso rispetto alla modestia di persone cotanto ben costumate ci rende, dall’altro canto, troppo difficile la condotta del lagrimevol funesto argomento: perocché, per non gravare di ben nato rossore i loro gentilissimi animi,

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dovremmo noi in buona e gran parte del merito scemare le lodi della valorosa donna che si compiagne. Laonde qui ci farebbe mestieri della maniera ateniese di ben parlare, penetrevole e dilicata, propia da lodare di presenza anche gli stessi filosofi. Però un tanto e sí raro pregio di ben porgere la natura delle nazioni concedé unicamente a’ valentuomini di quel popolo, che ’n valore d’umano ingegno lasciossi per lunghi spazi dietro quanti altri mai fino alla presente etá si condussero da quel tempo, che fu il giusto punto della sua virtú ingentilita, quando, fiorendovi i Socrati con le Aspasie, fu la cittá del raffinato buon gusto in tutte le cose che possono mai toccare i sensi, intender la mente, spiegar la lingua; e ’n tutte, sempre il severo della virtú con la soavitá della maniera temprando, soddisfaceva il cuore che quel popolo umanissimo serbava in petto della sua Minerva, la qual fu da’ saggi poeti intesa nelle loro favole la sapienza, ovvero il buon gusto di Giove. Nulla però di manco, ciò che dall’indole comune della nostra favella, non che da’ nostri particolari talenti e propi studi ci vien negato, egli ci è, per nostra miserevole buona ventura, somministrato e pòrto dal subbietto medesimo: conciossiacosaché dobbiamo dimostrare una donna la quale, a tutti i saggi uomini che ebbero la sorte di conoscerla e riverirla, fece intendere i tempi piú colti della gentilissima Atene, siccome quella che fu il loro grande esemplo della rara difficil tempra onde si mesce e confonde il soave austero della virtú. Che sará l’argomento, non giá eletto da noi per segno dove, in forza di riflessione propia di animi riposati e tranquilli, volessimo con arte od ingegno indirizzare le sue lodi, ma è la fiaccola e ’l lume che, ’n questa nostra densa notte di passione, in ogni parte che essi si rivolgano, raddrizza a sé, come a centro di luce, tutti i nostri della sua nobil vita giá informati pensieri.

Ella di Gioseppe Cimino, avvocato fiscale del real patrimonio, e di Anna d’Arieta Crespo, saggia e generosa donna, di nobile origine castigliana, nacque Angiola in mezzo a

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numerosa quinci di cinque gentilissimi fratelli e quindi di quattro gaie e leggiadre sorelle lieta festevol corona; e fu l’ultimo pegno che della prima amicizia, e perciò la piú fida di quante mai doppoi si contrassero nel mondo, l’amor coniugale dá a coloro che l’onorano e riveriscono. E cominciò ella a veder la luce del giorno e a bere l’aure vitali in una casa che tutta rifulgeva di pietá e di religione e spirava da ogni parte soavi e grate virtú civili. Perocché ella nelle faccende dello spirito regolata era dal padre Antonio Torres, celebre sacerdote, sapiente, il quale, molto meglio che Platone la pagana, insegnava la cristiana virtú non iscompagnata da una santa civiltá e da una costumatissima gentilezza. Laonde, perché la pietá verso Dio e la religione è la principale di tutte le idee che nascono con essonoi, siccome ella perciò è la base e ’l fondamento di tutte le altre morali e civili virtú, cosí per alto consiglio della provedenza divina, prima di tutt’altre, nelle menti tenere de’ fanciulli ed incapaci di raziocini, con esempli, i quali signoreggiano sopra il comun senso, ella ecci destata dalla iconomica disciplina, per la quale, nella luce del divin culto cominciata a spiegarsi la nostra mente umana migliore, si renda docile e ben disposta ad acquistare dappoi tutti gli altri, come secondi, cosí minori abiti virtuosi. Per tutto ciò senza dubbio la cristiana morale, che ’l padre Torres saggiamente temprar sapeva con le piú amene e dolci maniere di una civiltá virtuosa, trasse le prime linee, sulle quali tal si abbozzò Angiola, qual poi si compié nell’idea testé da noi proposta per ragionarne.

A misura della grande disposizione al ben essere, che è vivere con virtú, vero essere dell’uomo, di che ella ritrovò il grande agio in provenendo da tali genitori in tal casa, la graziosa Natura la vi mandò doviziosamente adorna di tutti i doni che sono in sua signoria, cioè o che appartengono al corpo o che si traggittano alla mente dal corpo. Ed arricchilla di acuto ingegno, che sopra tutto curavano e piú che ogni altro pregio dell’uomo amavano gli ateniesi, che furono gl’ingegnosissimi di tutte le nazioni, fin da’ loro tempi eroici

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narrando esser natio della loro terra attica Dedalo, che è ’l carattere poetico dello ’ngegno. E ragionevolmente, perché lo ’ngegno è il sale dello ’ntendimento, che condisce di giocondissimo sapore i concetti, i quali poi, in profferendosi, nudriscono, di ’nnaspettato diletto gli animi di coloro che gli odono, ed è la grazia e bellezza de’ ragionari che sorprende di repentina gioia le menti al suo balenare delle acutezze. Fornilla di maschia fantasia, perocché della debole il femminil sesso pur troppo abbonda, e accompagnolla di una fedele e pronta memoria, le quali poi, seguendo le inchinazioni dello ’ngegno, le agevolarono il cammino agli studi, questa della storia e quella della poesia. La provvidde sopra tutto di un signorevole rossore, il quale, con renderla soggetta alla ragione, anche dentro i suoi piú riposti pensieri la fece signora veramente di se medesima, una in lei gentil gravitá producendo, per la quale si guardò a tutto potere di fare o dir cosa di che poscia a vergognare si avesse: donde a suo tempo vennele il talento delle filosofie, non giá per garrire di quello che è negato all’uom di sapere, ma per intendere il vero e ’l degno delle cose che dee uomo in vita operare. Dal quale studio in lei provenne compiuta la degnitá o sia il decoro de’ saggi detti e delle circonspette azioni, da per tutto sparse di convenevolezza, la quale si appella «onestá», ed è in fatti la bellezza della vita, la quale, se, come la caduca e frale, si potesse co’ corporali occhi vedere, ne viverebbono sí ferventemente gli uomini accesi che rei non sarebbono affatto nel mondo.

Ma — perché, siccome alla munificenza bisogna delle ricchezze grandi per distinguersi dalla liberalitá, che è contenta di moderate fortune; cosí all’onestá, per essere in grado di maggior perfezione esercitata, fa mestieri di non volgare bellezza, — la Natura vestilla di vago e dilicato corpo, nel quale tutte le gentili ben formate membra, e tra essoloro e nel tutto insieme, con le giuste loro corrispondenti misure [sí] ben s’intendevano che facevano quella unitá in che bellezza consiste. La quale è in sua ragione sí fastidiosa e schiva, che, per ogni qualunque menoma sproporzione o difetto, ella a se medesima

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incresce e dispiace, rimirandosi in quella idea che impossibil cosa è esserci venuta in mente per gli sensi mortali, i quali, quando s’intendono di tutt’altre cose de’ corpi, tanto san nulla affatto delle certe misure e proporzioni de’ corpi: onde forse perciò i valenti dipintori, che sanno l’ideal bellezza in tele ritrarre, hanno il titolo di «divini». E la maestra delle sensibili forme, benigna, di quella bellezza appunto vestirla si studiò che nelle ateniesi donne si commendava, non atante e robusta, quale si conviene alle foresozze, ma dilicata e gentile, tinta di un vermiglio in atto di sparire e di venir meno, che è la soavitá del colore, che Aristotele diffinisce per compimento della bellezza. Oltre a ciò, dielle una spedita agilitá d’azione, una vivace grazia di volto ed un leggiadro contegno di portamento, che sono tutti e tre raggi di quella luce, al cui buon lume spiegandosi il bello, sempre è altro, sempre è nuovo, non mai l’usato, non mai lo stesso. E finalmente fornilla di dolcissima grata voce, che indicava le ben regolate misure del bellissimo corpo dond’ella usciva. Le quali corporali doti, mentre il rigoglioso virginal vigore avvivavale, le fecero il pregio di entrare nel numero che, come pure i filosofanti avvertiscono, è in sua ragione ben raro, delle piú belle e leggiadre nobili donzelle che rallegrassero questa grande, luminosa e gentil cittá dell’Italia. Ma poi che furono infievolite e spossate da’ sopravegnenti gravi malori di corpo, i quali piú le si accrebbero con gli studi e sopra tutto dalla meditazione delle cose eterne dell’altra vita, degenerarono in una bellezza languente, che cotanto gli ateniesi pregiavano: la quale, in lei sembrando non altronde vivere che col vigore dello spirito, che ella sempremai ebbe vigorosissimo, arrecò quella importante utilitá che sopra le languidezze del bello e gentil corpo, siccome amabilissime ombre, piú si distinguesse e risaltasse dal di lei animo il vivo lume della virtú.

Ma, per la comune infelice nostra umana condizione, la quale a quella stessa gran fabbra de’ nostri corpi, a cui quanto essa facilitá, tanto costa la felicitá de’ suoi lavorii, pure impedisce e contrasta che ella formi giammai uomo o donna in

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sua ragione compiuti e perfetti, ella non poté a sí bella armonia di fattezze librare una corrispondente giusta temperatura di umori; perché certamente, mettendo in questi loro amare, tossicose radici le umane passioni, con grave oltraggio della libertá, sopra cui ella non ha ragione alcuna, arebbe in un certo modo a tal donna fatta necessaria la virtú umana, che altro non è che delle nostre umane passioni giusta tempra e misura. Con tutto ciò, poiché la grande architetta, interessata di sí vago gentil suo lavoro, dovevavi pure in una sua qualche parte peccare, peccò in quella, onde la sua bell’opera, perché destasse maggior maraviglia, fosse piú del dovere, come i pittori dicono, caricata, e nel di lei nobil sangue rovesciò con troppo piena mano la collera: non quella giá, quasi sempre temeraria e soventi fiate anche fiera, qual è a tutto il femminil sesso comune, ma ragionevole e generosa e quale appunto a donna di eroica virtú convenivasi. Questa collera fu quella che ad Angiola fece amabilissimi nella sua piú tenera etá i fanciulleschi difetti; questa apprestò a lei la materia sopra cui poscia esercitò la virtú piú sublime nella sua giovanezza, ché tanto o, per me’ dire, assai men di tanto durò la sua vita: nella quale etá la collera naturalmente ci si fa sentire piú contumace, indocile ed orgogliosa.

Imperciocché, de’ liquidi che alla vita degli animali tutti e sí degli uomini fan mestieri, niuno, fuorché l’eccedente collera, serve di cote alla virtú, a cui facciano corte la raditá, l’eminenza, la maraviglia: perché, ove abbondi quella che i medici chiamano «linfa», ella, come sciapita e pigra, fa gli uomini per natura pazienti e flemmatici; ove troppo il vivo sangue rigogli e rida, l’allegrezza, la quale non sa altro che dipignere belle speranze e lusinghe [e], nonché gli obbietti di dubbio evento, anche i tristi e funesti facci comparire con lieti aspetti; ove soverchi quel sugo lento e tenace che fa gli uomini malinconici (lasciando qui noi a’ medici combattere per la voce), egli ne fa gli animi nelle traversie della vita e trattenuti e gravi. Ma la collera strabocchevole — essendo tal solfo del sangue, qualor si accenda, un fuoco urentissimo de’

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corpi animati — siccome i morbi, che ella cagiona loro, sono tutti acuti, precipitosi, mortali, cosí le perturbazioni, che muove agli animi, sono sfrenate, cieche, violentissime: onde, siccome Celio Aureliano disse de’ morbi acuti, che li mandavano i dèi e solo li curavano i dèi, cosí per guarire un’acuta passione di collera vi abbisogna una virtú piú che umana, che, con alta sapienza di sentimento ed altrettanta degnitá di parola, i greci poeti dissero «eroica». Questa collera è che negli animi generosi co’ suoi bollori turbando e dall’imo confondendo ogni mal nata riflession della mente, da cui nasce la razza vile della fraude, dello ’nganno, della menzogna, fa ella gli eroi aperti, veritieri e fidi, e sí, interessandogli della veritá, gli arma forti campioni della ragione incontro ai torti ed all’offese.

Fin dalla sua piú tenera etá questa nobil fanciulla diede pur troppo gravi segni di tal collera eroica: la quale, ove mai non era ella compiaciuta di un qualche suo fanciullesco talento, si crucciava a tal segno che, gittatasi lunga a terra, tutta vi si affliggeva, fino a percuotersi sul duro pavimento il tenero capo. Né è pur questa collera punto donnesca, perché, ove a lei sembrava aver ricevuto alcun oltraggio da’ suoi germani e, per desiderio di vendetta, portavane l’accusa a’ comuni genitori, ed ove questi, per soddisfarla, avevano dato all’oltraggiante il meritato castigo, ella, piena allora di gentile pietá, tutta si rammaricava ed attristavasi, incolpando se stessa del suo trasporto, e amava meglio aver essa pagato il fio della colpa di altrui. Questo è un saggio certamente di eroica virtú, di quella spezie onde lasciarono di sé tanto mondano romore i Cesari e gli Alessandri, che ammendavano gli eccessi delle loro collere, questi infin con dirotti pianti e quegli con una rara maravigliosa clemenza. Adunque questa collera eroica fu la cagione che la da noi compianta donna, quantunque, per l’alto ingegno e grave discernimento di che era ricca quanto altre mai, intendesse essere con merito bella, però nulla curonne il pregio: perché l’altezza dell’animo virile facevale guardare la femminile bellezza, per se sola, come un regno

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servile e debile, il qual certamente in sua propia ragione caduca e frale non può comandare sul cuor dell’uomo, senza un qualche, comeché lontano, riflesso di una fragil suggezione. Questa fu la cagione altresí che ella agli studi donneschi, come di ricamare, di canto e ballo, attendesse sol tanto che dasse saggi di molto valervi: del rimanente riponeva tutta la sua vaghezza e piacere in leggere gravi scrittori.

Ma qui in picciol giro ci si apre un largo campo di combattere, con la vita di una gentil femmina giovanetta, tutta la crespa e grave vecchia pagana filosofia, ove ella ripone la virtú nell’azione, e non, come ne insegna molto meglio la filosofia cristiana, nel patimento, che è la vittoria maggiore che uom forte riportar possa del piú strapotente nemico, qual è quella di vincere se medesimo. Imperciocché egli impossibil cosa è che quelle repubbliche, ove da’ cittadini, per abiti comandati da’ sapienti ordini e buone leggi, fosse seriosamente praticata questa vera eroica virtú degli Ulissi, o vogliam dir del soffrire, elleno non sarebbono e, dentro, beatissime nella pace e, fuori, a’ nemici terribili nelle guerre. Lo ci appruova con la sua natia gravitá la spartana, la quale, perciocché esigeva da’ suoi un’aspra, dura ed invitta pazienza con la giovanile educazione, la qual dicesi da Ligurgo sapientemente ordinata, ella poi armava in guerra tanti eroi, che, con le forti e magnanime imprese, mostrarono a pruova essere discesi da Ercole, uccisor di tiranni ed estirpatore de’ mostri, sicché ogni spartano valse e fu noverato le ’ntere bande de’ persiani. Né invero i romani, che meglio assai sentirono la virtú di quello che gli ateniesi ne ragionarono, arebbon eglino vinti gli Annibali ambiziosi, i Persei avari, gli Antiochi dilicati, se non se prima essi, ne’ Curi, ne’ Fabrizi, ne’ Regoli, avessero vinti e superati, dentro gli animi loro, con l’astinenza, con la povertá e ’nfino con aspri e crudeli martòri, la dilicatezza, l’avarizia, l’ambizione.

Incominciò costei da tenera fanciulla a combattere questo rabbioso fiero nemico e a domarlo in uso della virtú: perocché, avendo ella lo stomaco di una stravagante ferocia o risentimento,

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perché, peccando pur troppo nella collera il suo temperamento, doveva ben anche in lei essere di tal indole indomita ed orgogliosa quella parte delle nostre viscere dove essa collera fa le principali sue funzioni — onde gli autori del greco favellare, che fu la lingua de’ filosofanti, con voce eroica e presso che naturale chiamarono «stomaco» l’iracondia, — quindi, come di sí fatto morbo ammalata, non potendo indursi in sua casa a patto veruno né pur a gustar alcune vivande, quantunque dilicate e laute, che non l’annoiassero, i genitori ne commisero la guarigione alla maestra delle fanciulle, la qual perciò o a desinare o a cena ponendole non altro innanzi che alcuna delle mal viste vivande, la fanciulla, triste ed in grave mestizia rassegnata e composta, non di altro che di abbondanti lagrime si nudriva, disposta di morire della fame piú tosto che di leggiermente assaggiarle. Cosí ella, quantunque con vano effetto di ammendare sí fatto vezzo, che cagionolle poi gravissimi malori e finalmente la morte, cominciò, con penitenze sí gravi, a rompere l’orgoglio di questo fiero lione che pascono dentro i loro petti i collerici, e molto piú il fiaccò e vinse con gli studi delle lettere, e sopra tutto con gli esercizi della cristiana pietá, co’ quali a tal segno addimesticollo, che, divenuta donna, chiunque non l’avesse innanzi mai conosciuta, se non fosse egli stato sperto filosofo de’ caratteri degli umani costumi, il quale, da’ di lei agili e presti movimenti del corpo e dallo svelto e spedito portamento, avvertito avesse un certo spirito e fuoco, che accusava la sua vera naturalezza, esso da lei sedente, agli atti riposati e piani, a’ soavi giri degli occhi sempre sereni, alle piacevolissime e non mai in suono alterate, non mai in tempo affrettate parole, ed a’ sensi alteramente umili e pieni di signorile mansuetudine, l’arebbe certamente creduta flemmatica anzi che no.

Ora, essendo la mente umana la pura luce dell’anima, la quale non si lascia vagheggiare da occhio mortale senonsé quando ella rifulge dal corpo, che è l’ombra sopra la quale il di lei immortal lume si spiega, la bellezza dello spirito d’Angiola, che dal fuoco della di lei collera era soavemente

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avvivata, per gli atti, guardi, portamento e parole, da cosí bello, gentile, gaio e leggiadro corpo, di che immenso piacere e gioia colmasse gli animi di coloro che nel ridente fiore della etá sua l’udivano e la miravano, qui, nonché l’espressione, abbandonandoci ogni forza d’immaginarlo, come cosa sopra il mortal corso delle sensibili forme altissimamente allogata, noi alle sole, né pur volgari, ma piú sollevate menti ora il lasciamo ad intendere, e sol tanto ci si permetta di raccôrlo in picciola parte per qualche effetto. Siccome quello: che, educandosi ella nel monistero, detto della Concezione, delle nobili donzelle spagnuole — delle quali, nella presenza dello spirito, nell’acutezza de’ motti e, per lasciar di dire le grazie sempre accorte degli atti e le vaghezze sempre leggiadre del portamento, nel pregio del molto ed insiem prestamente comprendere, non vi hanno altre nel mondo delle presenti nazioni che dell’antiche ci possano piú al vivo le ateniesi donne assembrare, — ella era la viva festa e ’l comun piacer e sollazzo di tutte, a tal segno che, col suo conversarvi, ella maravigliosamente ristorava da’ gravi molesti malori e rinfrancava le ’nferme, quell’antica medicina, ma in piú maravigliosa guisa, tra essolor richiamando, che con la soave armonia, non giá del canto e del suono, ma con quella, di cui solo Pittagora al mondo s’intese, di un vivacissimo spirito a bello e leggiadro corpo dolcemente accordato, domava la ferocia de’ morbi, ne sopiva le molestie, ne raddolcava i dolori. Quindi recar non dee maraviglia se ella sopra tutti gli altri figliuoli e figliuole era tutto l’amore, tutto il diletto, tutta la dolce cura di Gioseppe suo padre. Vero egli è per natura che gli ultimi parti soglionci esser piú cari, per questi due occulti sensi di umanitá: tra perché essi sono li piú innocenti, e per conseguenza che ci hanno recato maggior piacere, meno disgusti; e perché essi han bisogno di piú lunga difesa, la quale i padri credono, per la loro avanzata etá, poter a quelli al maggior uopo mancare.

Ma cotal padre aveva egli avuto in grazia dal cielo una ben nata numerosa famiglia di figliuoli e di figliuole, tutti di

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docilissima indole alle piú belle virtú, sí della mente come dell’animo, e tutti di un padre e di un tanto padre osservantissimi, che ’l temevano e riverivano qual vivo esemplo di pietá e di giustizia, siccome quello che ben quarantadue anni patrocinò la ragione del real patrimonio con pro del re egualmente e buona contentezza de’ sudditi: col quale rispetto dovuto osservandolo, tutti vivevano applicati a lodevolissimi studi. Onde Francesco, primogenito, cavaliere dell’ordine di Calatrava, giá era fornito di tutte le buone lettere che abbisognano alla giurisprudenza migliore; comeché poi, lo strepito del fòro mal sopportando, tutto siesi dato a coltivare una vita privata, la quale non in altro esercita che negli piú esatti doveri della cristiana pietá; Niccolò, le paterne vestigia seguendo, si acquistava molto nome di prudente e giusto uditore nelle reggie udienze delle nostre provincie, nel qual maestrato egli molto giovane si morí; Urbano ed Antonio vivevano tutti infiammati dell’amore delle divine cristiane cose, come al presente adornano, entrambi padri, la veneranda Congregazione dell’Oratorio; e finalmente Ottavio, vago di acquistarsi onore per altra via da quella delle leggi, inchinava al duro e faticoso mestiero dell’armi, il qual cammino appresso non senza laude di prode ha egli tenuto, dappoiché con altri nobili secondogeniti e signori napoletani fu ascritto tra’ soldati delle guardie di Filippo v re delle Spagne. Né punto di meno laudevoli studi e talenti rispettavano un tanto padre quattro costumatissime donzelle figliuole, delle quali — oltre a Teresa, che fu data a marito in casa Marifeola, nobile nolana, ove ritruovò tra le imagini dell’avole le Pignatelli, le Ventimiglia, le Dentici, le Caraffe — le restanti tre han dedicato co’ castissimi corpi le purissime loro menti a Gesú Cristo, sposo divino delle a sé consegrate donzelle: Maria nel monistero delle nobili spagnuole detto della Concezione, e Caterina e Giulia in altro di nobili napoletane, appellato il Gesú delle Monache. Oltre a ciò, se egli pure natural cosa è che i suoceri, perché non possono con occhio bieco guardarle, quali emole forse della loro potenza, come fanno le suocere, mirano assai ben volentieri e
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con grado le nuore, come gioia e contento de’ loro figliuoli, a’ quali desiderano essi padri ogni bene, egli n’era il Gioseppe pur felicemente provveduto di belle, virtuose e pie, come di Faustina Marifeola, che fu la prima, e di Margherita di Afflitto, nobil donna della cittá di Amalfi, la qual è ora di Francesco seconda moglie, e di Gioseppa Ciavarri—Eguya, di famiglia nobile castigliana, figliuola del reggio consigliero Pierantonio, che fu uno de’ primi lumi del Sacro Consiglio napoletano. E finalmente, quando gli avoli sogliono intenerire nell’amore de’ lor nipoti, o forse perché quelli sono loro giocondi testimoni della molta passata etá, o perché sono propaggini piú fresche della lor vita, egli ne aveva pure innanzi ben folta vezzosa schiera: tra’ quali di Francesco giá un altro Gioseppe fioriva di belle speranze, siccome ora ne ha giá incominciato a dare corrispondenti frutta di lettere e di virtú; e gli scherzava intorno, leggiadra e gaia fanciulla, Saveria, nella bell’alba della sua rara bellezza ed incomparabil modestia, di cui ora spiega, donzella, il fresco ridente giorno della prima sua giovanezza.

Ed in una sí numerosa e di tante varie belle virtú e pregi ornata nobil famiglia, in petto di sí saggio, pio, felice avolo, suocero e padre, l’Angiola principalmente signoreggiava. Ella era l’unico alleggiamento delle di lui infaticabili pubbliche fatiche; ella il dolce ristoro de’ languori della sua lunga cadente etá; ella il sollazzo della grave naturalmente trista vecchiezza. Né punto meno dolcemente ella regnava sull’animo di Anna sua madre, saggia e di alto cuore quanto altra donna fu mai, la quale pur sapeva ben partire giustamente gli affetti fra tanti meriti di figliuoli, nuore e nipoti inverso essolei, di stima, ubbidienza e pietá che tutti le professavano, come professano tuttavia; e, nulla però di manco, ella avevasi eletto Angiola per norma de’ suoi pensieri e piacere delle sue voglie. Questa è delle molte, nella donna che ragioniamo, una grave ripruova di ciò che Seneca a Lucilio scrisse una volta: che da Socrate i suoi discepoli piú ritrassero di profitto con l’esemplo della vita che da’ ragionari intorno a virtú. Questa valorosa donzella in tanta famigliar grazia ed onore regnava, senza

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invidia alcuna de’ suoi, anzi in maniera che tutti i suoi di cotesto suo privato regno gioivano, che è quello insegnamento di vita civile tanto difficile a praticarsi: che uomo, oltrepassando, nonché gli uguali, anche i maggiori, egli non solo sappia schifare la ’nvidia, ma anche conservarsi gli amici. Laonde, quantunque noi ne abbiamo ammirato la pratica, pure ne disperiamo l’espressione della maniera per far intendere la tolleranza, l’agevolezza, la modestia della gran donna in sofferire il debole di ciascuno; di esser sempre uniformata agli altrui voleri e di secondar sempre le loro voglie; di non mai anteporsi a niuno. Che sono le potenti arti che, quanto la propia, tanto rendono aggradevole la lode di altrui e, sbarbata la venenosa cicuta della ’nvidia, la qual sempre le nasce da presso per aduggiarla ed ispegnerla, fanla a’ viventi lieta e felicemente crescere e germogliare. E certamente il Comico, descrivendo un carattere d’idea, quale fu infatti questa valorosissima donna, dice:

Sic vita erat: facile omneis perferre ac pati;

Cum quibus erat cumque una, iis sese dedere;

Eorum obsequi studiis, advorsus nemini;

Nunquam praeponens se aliis: ita facillime

Sine invidia laudem invenias ... 2.

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E pur tutto ciò che abbiam detto è molto poco a petto della sapienza con la quale ella sí disponeva gli uni inverso degli altri che ben anche tutti insiememente tra essoloro in uno stesso piacer convenissero. Qui invero, quantunque noi ne fussimo di ben alto forniti, pur ci abbandonerebbe lo ’ntendimento per concepire che, abbenché tra numerosi congiunti, tutti ben costumati, non potesse intervenire discordia di volontadi, perché la virtú è quella che unisce i voleri umani — però, come di diversi volti e naturalezze, cosí certamente di varie inchinazioni e talenti — ella, nientemeno, sapeva talmente unirgli tutti in un gusto, che, quando ella dimorava sola nel suo, gli altri si trattenevano tutti soli e divisi negli appartamenti loro: ma, ove ella compariva, tutti ad essolei si univano per insieme vivere e conversare. Questo era il frutto che uomini dotti e gravi, infino di esemplari religiose famiglie, dallo andarla a vedere ed udire ritraevano: che era di meditare nella di lei maniera di vivere per formare sul di lei esemplo la vera idea della cristiana, tanto vantaggiosa sulla pagana, virtú; ché ciò che Seneca diceva di Socrate, il gran padre delle filosofiche sètte, e che predicossi aver chiamato dal cielo in terra la filosofia de’ costumi, essi in una gentil giovanetta donna ammiravano.

Questo maraviglioso di belle doti di corpo e di virtuosi abiti d’animo per mano di benigna natura e di saggio studio tessuto gruppo, onde Angiola era altresí l’amabilissimo nodo di tal numerosa nobil famiglia, egli nell’eterna incomprensibil serie delle cagioni fu, per cosí dire, l’anello onde la provedenza strinse il legame delle di lei nozze, e dentro cui legò il brieve corso della rimanente sua vita. Imperciocché il di lei affezionatissimo padre, per goderla sempre a sé dappresso, volle orrevolmente qui in Napoli maritarla, e, adornatala di

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tai nobili parentadi, quali testé dicemmo — oltre alla nobile origine propia che da questa cittá la sua casa traeva, la quale a mezzo il corso del Cinquecento vi godeva il grado della nobiltá nella piazza detta di Portanuova, e piú di cento anni fa i suoi avoli, nobili tarantini, in questo Sacro Consiglio avevano domandato ragione d’esservi restituiti e rimessi, — collocolla in moglie a Berardino Caputo marchese della Petrella, nella cui casa, chiara per antichi titoli di signoria, nobili napoletane erano giá use di entrare a sposa menate. Ma né i di lei genitori né gli altri stretti congiunti potendo pur un giorno vivere divisi e scompagnati da lei, ella finalmente si riportò ad abitare nelle paterne case, e vissevi, finché visse, con tanto piacere e grado del suo giá signore e marito, che ’l vi conciliò con tutti i suoi attenenti in una ben corrispondente officiosa amistá, talché egli sembrava di quella casa uno per istrettissimo vincolo di sangue, non giá per nozze, congiunto.

Da indi in poi ella si diede con piú fervore allo studio delle lettere, ed applicò piú seriosamente alla storia, la quale per meglio apprendere, volle sapere la cronologia e la geografia, e, oltre alle di giá lette piú luminose de’ nostri tempi, dopo la storia sacra, si dilettò, sopra tutt’altre, della romana, particolarmente su Tito Livio: il qual gusto appruovava la sua alta indole, che non si soddisfaceva che del sublime, del maraviglioso, del grande. S’innoltrò negli studi della poesia, avendolavi giá innanzi indiritta per la buona strada del comporre in versi due suoi fratelli, Francesco, di cui giovanetto pur va sulle stampe alcuna leggiadra colta canzone, ed Antonio, il quale ora nella di lei morte ha alcune ottave composto, che l’appruovano in sí fatti studi e con felice naturalezza e con buona arte e con fine giudizio esser lungo tempo e di giá molto versato. Ma la propia indole di essolei fermolla a dilettarsi con merito, sopra tutt’altri, di Petrarca e di Casa, i quali due gran lumi de’ toscani poeti amendue corrispondevano al soave austero del suo costume: perocché il Petrarca da per tutto scorre soavissimo attico mèle di gentilissimi

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dilicati sentimenti amorosi, sempre tinti di ben nato rossore, sempre condotti da un nobil contegno, sempre pòrti con una signorile onestá, e ’l Casa sorprende con la sublimitá dell’espressione, con la grandezza del numero e con la severa e grave inarcatura dello stile. Sopra i quali modelli formossi ella una maniera propia di comporre, quanto ne’ sensi molle, tenera e dilicata, altrettanto colta ed esatta; onde sopra un grave giudizio facevavi comparire una schietta facilitá ed una somma naturalezza: laonde, quantunque ella rado componesse, impertanto i di lei componimenti sembravano usciti da mano la quale non in altro che in poetici lavori fervesse. Ma finalmente, riflettendo ella questi essere studi di fantasia — la quale, raccolti da’ sensi, compone ed ingrandisce all’eccesso i piú sensibili effetti delle naturali apparenze, e ne fa immagini luminose per abbacinare ad un tratto co’ loro lampi le menti, e quindi accendere gli affetti umani entro lo strepito ed i tuoni delle sue maraviglie: non giá essere condotte da investigare col raziocinio esse cagioni, le quali, soddisfacendo la maraviglia, rendano con la scienza schiarito lo ’ntendimento, e quindi, con l’eterno puro lume del vero, spieghino sul cuore umano il tranquillo sereno della virtú — diessi ella perciò agli studi della loica, che scorge e guida l’umano raziocinio, e della fisica, che ’nvestiga le cagioni delle naturali cose. Le quali ella apprese da Ferdinando d’Ambrogio, pubblico lettore di civil ragione in questa Universitá, con l’occasione che egli insegnava giurisprudenza al Gioseppe, di lei nipote; come appresso, con l’opportunitá di quasi ogni sera con altri letterati uomini riverirla, ella da Paolo Doria, per gli errori che questo chiaro filosofo allora scriveva ritruovare in quella di Renato Delle Carte, con tale scorgimento fu introdotta nella metafisica del divino Platone; ed ultimamente, qualunque elle sieno le nostre cose, si compiacque udir da noi usciti dalla metafisica di Platone i princípi dell’umanitá delle nazioni.

Da tutti i quali studi ella infiammata dell’ineffabil piacere di che la mente pasceva in contemplando i princípi di tutte le varie innumerabili diverse forme che adornano questo

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universo, cosí naturale come civile, e come da quelli, qual da lor comun centro allontanandosi, vengono vie piú le une dalle altre fra essoloro a distinguersi, e per contrario, ad essi princípi ritornando, col piú e piú appressarsi vi si confondono e si disperdono, e sopra queste immense ombre e que’ terminati lumi l’occhio della mente, per quanto è lecito in questa spoglia mortale, dilettando dell’ineffabil luce di Dio per sí potenti alte meditazioni, ed altronde i malori del suo dilicato corpo miserevolmente aggravando, abbandonossi per tutto ciò ad un tale increscimento e noia de’ sensi, che non solamente da indi in poi non ne curò alcuno, ma ne abborrí a tal segno ogni piú squisito e ricercato piacere, che con aspetto di compatimento guardava le altrui sollecitudini ed ansietadi per proccurarglisi, ed appresso mirava, come dolori, l’altrui stanchezza e sazietá di esserne soddisfatti. Allo ’ncontro, dalla sua piú tenera etá ritruovandovisi ben disposta, dopo quello che ella gustava dagli esercizi della cristiana pietá, ristrinse tutto il suo diletto in godere la sera della conversazione di dotti insieme e gravi uomini letterati e di pascer l’animo in ragionando con essoloro. Quivi era lo ammirare il di lei sublime ingegno, il fine accorgimento, il senno maturo, la gentil gravitá, la signorile modestia ed altre mille virtú di mente e di cuore, che, tutte unite insieme, rendevano la gran donna degna dell’ammirazione e dell’ossequio di tutti. Sul cadere del giorno si ragunavano per lo piú nella di lei casa or gli uni or gli altri de’ letterati uomini amici, ed ordinariamente tutti per udir cose onde soddisfacessero l’animo di quel ben nato desiderio di sempre piú profittare, che è la disposizione in che deono stare per massima gli addottrinati: perché i rozzi principianti vi stanno dentro naturalmente, acciocché si ritruovino essi ben disposti ad apprendere ed assentire al vero loro dimostro da altrui ne’ letterari ragionamenti. I quali ivi da lontane e di nulla proposte cose, per lo piú, in forza della loro serie medesima, l’una dall’altra nascendo, menavano or uni or altri di essi a fermarsi sopra un qualche argomento; talché sembravano vivi esempli de’ dialoghi: la qual maniera
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d’insegnare, come non eletta, cosí niente impegnata, usarono ragionando gli piú avveduti filosofanti, per dimostrarsi tutti disposti ed apparecchiati a ricevere la veritá indi, e per lá, donde e per dove ella volesse uscire a farsi conoscere. Cosí nati e messi in mezzo della conversazione i ragionamenti, ella spesso si frapponeva, e, con una ironia socratica, che la sua stessa moderazione naturalmente insegnato le aveva, faccendo sempre sembiante o d’ignorare o di dubitare affine di essere addottrinata, proponeva le sue dimande, che in fatto erano gravissimi insegnamenti; ed ove erano innoltrate le dispute e ferme in opposte parti, ella quasi sempre determinavasi alla piú ragionevole, non senza però adornare della dovuta lode l’altra parte o per lo ’ngegno o per l’erudizione, che è appunto il diritto che i giusti critici debbon fare alle opere di lettere: di riprenderle ove essi vi avran notato i difetti, ma insiememente di lodarle per ciò che esse contengono di pregevole. Se mai si recitavano componimenti intorno a scienze, ovvero fussero lavori di eloquenza o di poesia, ella, al dirsi le cose degne di applauso, applaudivale o con un leggiadro movimento del dilicato corpo, il casto petto sporgendo in atto come di chi incomincia a levarsi da sedere, o con un soave giro de’ suoi bellissimi occhi inverso il cielo, i quali erano impeti del nobilissimo spirito, che, a tali cose dette, sembrava, per la gran gioia, sollevarla sopra di se medesima: a’ quali atti i riguardanti ammiravano in lei e l’acutezza dello ’ngegno e la gravitá del giudizio e sopra tutto la somma modestia, con la quale si guardava di parere intendente col non professando d’intendere, ovvero di sembrar saggia col non diffinitivamente appruovare. Alcune volte, a certe nate occasioni e propie, tutta la nobil brigata adunavasi da essolei per menare piú solennemente una qualche erudita sera; e tra’ vari ragionari, usciti per lo piú da esse congiunture de’ componimenti giá recitati, tramestandovi le oggi usate lautezze e delizie de’ passatempi festevoli, uomini che avevano dilicatissimo sapore de’ migliori costumi umani affermavano simiglianti civili intrattenimenti potersi unicamente assimigliare alle notti attiche degli antichi.
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Cosí, quasi ogni sera, ella si forniva di nobili materie da meditare il rimanente della notte, che volentieri sogliono al sonno tôrre le anime veramente belle e le quali godono di rimirare se medesime in conversando tutte sole con esso seco, e di riflettervi altresí tutto il seguente giorno, che ella era usa fino alla sera menare secreta e sola nelle sue stanze. Che è quella solitudine nella quale vivendo Scipione Affricano, diceva, alla sua maniera sempre grande e magnanima, che allora piú che mai viveva accompagnato quando egli era tutto solo. Perocché il vivere di meditazione scevra e pura di passioni, ché allora senza la compagnia tumultuosa e grave del corpo vive veramente l’uom solo, egli entro questa spoglia mortale sembra una spezie di vita in un certo modo divina, la quale non ha punto bisogno de’ sensi, che ce ne ragguaglino o con false o con tristi o con funeste novelle, quando tutto il tempo che questi sono sopiti nel sonno, o pure, desti, non si rovesciano ne’ loro ardentemente bramati piaceri, o ben anche tutti dentro vi si deliziano, tutto si novera ad inganno, dolore e morte. Ma la vita, che mena il saggio nella contemplazione del vero astratto, è sempre ad essolui intima, sicché non gli fa uopo assicurarsene al di fuori e, ’n conseguenza, ha la sicurezza di non mai perderla, perché è medesimata con la sua anima, è sempre presta e presente, che gli dimostra il suo essere fisso nell’eternitá, che tutti i tempi misura, e spaziante nello ’nfinito, che tutte le finite cose comprende. E sí il colma di una eterna immensa gioia, non in certi luoghi invidiosamente racchiusa, né in certi tempi avaramente ristretta, ma che, senza uggia di emulazione, senza tema di scemamento, per ciò unicamente in essolui accrescere si potrebbe, se ella fosse tuttavia a piú e piú umane menti comunicata e diffusa.

Con tal cuore, con tal mente, con tal corpo, atti e favella, quanta soavitá per sí fatta vita ella dasse, somigliante a quella [che] aveva dovuto dare una bella, leggiadra, virtuosa Aspasia alla sua gentilissima Atene, da cui lo stesso Socrate mandava i suoi giovani ad udire ragionar di virtú — siccome è pur giunta,

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infino a noi sulle carte avere una volta al saggio educatore de’ grandi monarchi, Senofonte, ed alla sua moglie ragionato de’ virtuosi iconomici doveri per menare i maritati la vita con contentezza, — egli, lasciando i molti che qui arrecar si potrebbono, da questi due soli esempli sará lecito intendersi.

Paolo di Sangro principe di Sansevero, quanto per isplendore di alto stato, altrettanto per le propie signorili virtú chiarissimo, destato dalle laudi del di lei valore, volle andarla a riverire. E quello — il quale nella sua gioventú avevasi degnamente trascelto per alto subietto delle sue nobili poesie la magnanima donna, Aurora, dell’inclito sangue Sanseverino, duchessa di Laurenzano, — nella piú avanzata etá, per avere una ed altra volta veduta la marchesana della Petrella e ragionatovi, félla donna de’ suoi savi pensieri, ed a lei indirizzava i suoi morali capitoli, pieni di maschia cristiana sapienza. Ed Ippolita Cantelmi—Stuarta principessa della Roccella — donna che, con la maestá che le corona la fronte, coll’augusto aspetto e colle sovrane maniere, congionte alla singolare altezza dell’animo, alla grandezza de’ suoi pensieri ed allo splendore delle sue azioni, non che tra le nazioni ingentilite, tra’ barbari stessi dell’Affrica o della Zembla non potrebbe dissimulare e nascondere d’essere degno generoso rampollo del ceppo reale di Scozia, — per una volta sola che nella nostra casa conobbela, ne concepí tanta ammirazione ed amore, che sulla piú cruda acerbezza della ferita onde la donna forte fu gravemente trafitta per la fresca funesta inaspettata novella del morto principe Vincenzo Caraffa suo marito, nel cui recente amarissimo lutto il di lei quantunque alto e gran cuore, qual vivo vasello di oro purissimo, era di tanto dolore ricolmo e pieno che altro per altra cagione in niun modo infondervisi poteva, pure sí grave percossele quello per la morte della nostra marchesana, che, qual corpo duro dentro gittatovi, gliele fece ridondare in due sublimi sonetti. Da’ quali apertamente si scorge esser vero quello che, per comporre sublime, bisogna vestire le passioni de’ grandi, i quali, nati, nudriti e tutta l’etá versati in grandezze, formano naturalmente

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grandi e magnifiche idee: alla quale grande fortuna se per avventura, come in questa real donna, fior d’ingegno e buon lume d’arte si uniscano, allora le loro fantasie, con quel raro nesto di sublimitá e naturalezza, i concetti dell’animo maravigliosamente ritraggono.

E questi due esempli, che mentovammo, sono due gravi pruove altresí del giusto, onde si compensa ed agguaglia lo svantaggio che la lode, la quale accompagna la privata virtú, riporta dalla gloria, che corteggia la virtú pubblica. Ché questa per ampi spazi di terre e mari tra popoli e nazioni si propaga e diffonde, e sí, ingrandendo, è romoreggiata dal vulgo, il quale, per sua naturalezza stupido e stordito, non si risente che scosso e destato a’ colpi e grandi e forti di maraviglia, talché, se egli non è di lontano, quasi da macchine, commosso, come quelle della guerra, che in distanza rovinano le cittá, esso non innalza le grida che debbon fare la gloria; la quale, perché è un giudizio della moltitudine cieca, precipitosa, leggera, soventi fiate addiviene che un pubblico applauso sia egli fatto ad un vizio strepitoso, aggradevole agli stolti, de’ quali si compone la moltitudine. Ma la virtú privata, perché s’insinua senza strepito ed opera senza romore, ella, come le miniate minutissime dipinture, non si lascia osservare se non molto da presso, e non da altri che da occhi di acutissima veduta e di finissimo scorgimento, a’ quali solamente, come quella di Angiola al Sangro ed alla Stuarta, scuopre le sue bellezze; onde, sicura d’ogni inganno che possa cagionare la lunga distanza e libera d’ogni errore che nascer possa da’ tumultuosi giudizi, riporta l’intera e verace e, per questo istesso, non volgar lode.

Con simiglianti conversazioni e con gli anzidetti litterari divertimenti la marchesana ingannava l’increscevol cammino della debil sua vita. Imperciocché, per un certo natural corso di cose, le piú volte sperimentato sí fatto, le donne fornite d’intendimento al femminil sesso molto superiore sono meno atte alla generazione, forse perché questa richiegga in esse una somma mollezza di tessiture, onde le loro viscere riescano

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cedevoli allo ’ngrossare de’ feti, e molto piú al partorirli, per lo qual ministero dalla provedenza sono esse fatte: onde elleno, in ciò che si appartiene al godimento de’ sensi, sono fino alla maraviglia avvisate, nella forza dello immaginare robuste ed intorno alle delizie e dilicatezze di gran lunga piú degli uomini schive e fastose. Perché gli obbietti sensibili nelle pliche del loro celabro altamente, come in liquida cera, profondandosi, vengono esse a sentire assai distinto ciò che piace o disgusta; ed al contrario, per lo esercizio della fortezza, virtú propia dell’uomo, abbisognando una forza contraria della riflessione che tenga tesi gli spiriti animali incontro a’ piaceri della vita, e li domi inverso fatiche, dolori e morte: per tutto ciò, se non andiamo errati, la collera virile, di che ella abbondava, depredando l’umidore che facevale mestieri per nudrire i feti giá fatti grandi, fece per mala sorte che tutti nel sesto mese, funesto da’ medici giudicato, ella facesse gli aborti. Per lo primo de’ quali di maligna febre infermata, quantunque per miracolo riavuta ne fusse, pure contrassene gravi abiti di malori di corpo, e fra gli altri una spasimosa strabocchevole emorraggia, la quale le illanguidí sí miserevolmente lo stomaco che per lungo tempo non ritenne mai cibo; onde, per mantenersi in vita, dovendo all’indole naturalmente baldanzosa e superba di tal viscere soddisfare con cibi poco sani che egli appetiva, venne ad ingenerare sughi viziosi, e sí infermossi la terza volta della sua infelice feconditá, nella quale, presaga del suo fine, con le piú confidenti amiche diceva essere giá venuto il suo fato.

Cosí nel correre del vensettesimo anno della sua etá, nell’ottavo giorno dopo l’abortimento, disperata da’ medici, sul prendere i santi ultimi sagramenti, profferí sensi e fece atti ricolmi di tanta rassegnazione al divin volere, di tanta compunzione, onde, piú che dal mortifero male, era trafitta dal dolore delle sue colpe, e di tanta altezza di anima inverso quelle dell’eternitá e sopra le miserevoli caduche cose mortali, ch’empié d’edificazione santissimi sacerdoti, i quali eran ivi presenti. Indi in poi, con maravigliosa costanza, e qual

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si conveniva incontro all’ultima necessitá, non piú si udí lagnare, né prima, dentro l’arsura della febbre che le divorava le vene, né dopo, nella sazievolezza dell’acqua, che ’n isformata copia l’era data a bere per disperato rimedio; e dell’arsure e delle noie faceva divotissime profferte a Dio. Bramava piú patire per Dio, né altro amava udir parlare che di Dio. Con gara veramente eroica, ed ella volle essere confortata dai due suoi piú cari fratelli i padri Urbano ed Antonio, e questi, affogando nel fondo del lor cuore il cordoglio di vederla ben venti giorni languire tralle angosce della morte, le assistevano, come a donna la quale non avessero essi innanzi conosciuta giammai. Infatti la filosofia solamente può con la sua riflession pura farleci intendere; ma la religione unicamente è quella che, per un affetto efficace alle cose eterne, il quale ne assordi ogni senso delle mortali, può dare ad effetto le sovrumane e a queste simiglianti eroiche azioni. Ove i padri, suoi carissimi fratelli, per poco tempo mancavano, voleva che le si leggessero libri che confortano a ben morire. Diede poscia in delirio, né fu intesa che delirare pie orazioni. Fu oppressa alquanti dí dal letargo, e la macchina, ben avvezza, non articolava che i santissimi nomi di Gesú e di Maria. A questo terribile ultimo cimento di cristiana virtú le valse l’abito con lunghi e spessi atti acquistato, i quali ella usato aveva della piú esemplare pietá. Come, per dirne uno ed altro, essendosi una sua damigella di maligna febre ammalata, ben venti giorni continovi che quella corse pericolo della vita, ella non mai partissi da una sponda del di lei letto, né giorno e notte ad altro intese che a servirla ed a contentarla: come le quaresime a tutte le damigelle e fantesche di casa, in ciascun giorno propio, recitava e spiegava il Quaresimale del gran padre Segneri. A questo cimento le valsero le massime acquistate con gli studi riverenti e sommessi alla religione, e sopra tutti della platonica metafisica, la quale aveva acceso i giovanetti Cleombroti a prevenire, con precipitandosi in mare, la morte, per lo desiderio onde il platonico Fedone aveali infiammati dell’immortalitá che godono le anime
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umane nell’altra vita, in fruire d’una infinita Mente che tutto vede e provvede, quando il cieco Caso del dilicato Epicuro al terribil cospetto della morte sbalordisce gli animi con lo stupore, che è una morte di tutti i sensi, raccapricciati ed intirizziti tutti nel solo senso di morte, e ’l cieco Fato del superbo Zenone, sul presentarsi dell’ultima necessitá, a’ dolori di morte raddoppia ne’ disperati gli spasimi del propio cruccio e i tormenti del marcio loro dispetto. Questi abiti virtuosi e queste massime la disposero finalmente, che, bruciatale, come carbone acceso, la lingua, né potendo piú articolar voce, fisse in un crocifisso i suoi castissimi occhi, che sembravano languire di celeste ardore di caritá, né mai indi in poi dipartigli, finché soavemente li chiuse all’eterna pace.

Letterati amici, che con uguale ossequio la onoraste e la riveriste, e, se ella pur mai questa nostra orazione verrá tra vostre mani, pii congiunti, che con uguale affetto l’amaste e l’aveste cara, e sopra tutt’altri, tu d’alto senno e gran cuore, generosa madre, che godesti sempre averla al tuo lato, e della di lei purissima vita i tuoi benivoli sguardi continovamente pascesti, finché ella sotto i tuoi fortemente pietosi occhi l’anima soavissima, e delle laudi, delle quali una picciolissima parte con questa semplice e rozza diceria dimostro abbiamo, tutta adorna e rifulgente spirò, non siete voi tali che ora vi debba accendere la fantasia con le sue fiaccole la volgare eloquenza a sciôrvi in lagrime, le quali, dagli occhi in cadendo, dileguansi. Noi non dipignemmo Angiola Cimini marchesana della Petrella acciocché la ci imaginassimo, ma la ragionammo acciocché la ’ntendessimo. Laonde, con nostro profitto e sua gloria, l’ufizio dovuto da noi e meritato da lei debba essere che nel piú sublime e puro del nostro intendimento, e sí nella parte eterna di noi, viva la saggia e forte donna, che tutte le belle doti del corpo, tutti i rari pregi della mente faccendo con civiltá e gentilezza servire alla pietá che le regnava nell’animo, ci lasciò il grande esemplo da meditare la rara difficil tempra onde si mesce e confonde il soave austero della virtú.

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